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Altro che strette di mano, l’Egitto non collabora su Giulio Regeni: “Per loro il caso è chiuso”

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Per un vizio procedurale il processo ai quattro agenti dei servizi segreti egiziani per l’omicidio di Giulio Regeni è fermo da quasi due anni: secondo la Corte d’Assise, e la Cassazione, l’udienza non può cominciare se non vengono notificati gli atti agli imputati. Ma secondo Il Cairo, che li ha già prosciolti nel corso di un’inchiesta interna, non verranno mai processati a Roma. Un documento depositato presso il Tribunale della Capitale e firmato da Nicola Russo, il capo dipartimento del Ministero della Giustizia, spiega come per l’Egitto “nessun processo e nessuna collaborazione sono possibili”. “La procura egiziana – si legge – ha ribadito che resta valido quanto contenuto nel decreto di archiviazione per i quattro imputati in Italia, firmato dai magistrati egiziani nel dicembre scorso. In Egitto non si potrà più aprire un procedimento per il caso Regeni nei loro confronti, per il principio del ne bis in idem”.

L’ennesimo schiaffo alla memoria di Giulio, dopo sei anni di depistaggi, e all’indomani dell’incontro a Sharm El-Sheikh tra la premier Giorgia Meloni e il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi. Palazzo Chigi in una nota ufficiale ha parlato di una “forte attenzione al caso di Giulio Regeni” nel corso del vertice, ma l’Egitto tutto quello che aveva da dire sul caso del ricercatore sequestrato, torturato e ucciso dai suoi servizi segreti l’ha già detto. Tra i membri dello scorso esecutivo c’erano stati due gesti di particolare forza simbolica: l’ex ministra della Giustizia, Marta Cartabia, si era offerta di andare personalmente al Cairo, non ricevendo mai alcuna risposta. Mario Draghi invece aveva costituito la presidenza del Consiglio come parte civile nel procedimento contro i quattro agenti.

Per sbloccare il caso l’Egitto dovrebbe comunicare gli indirizzi degli imputati all’Italia o decidere di riaprire il fascicolo ammettendo la presenza “di nuovi elementi”: ipotesi altamente improbabile e realizzabile soltanto alla luce di una caduta di Al Sisi. Oppure si potrebbe notificare la citazione in giudizio sul luogo di lavoro degli imputati (lavorano tutti al ministero). In ultimo, aprire un arbitrato internazionale e portare il Cairo di fronte a un giudice per violazione della convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura.

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