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Francesco Bascone a TPI: “Diplomazia miope ma l’era dei negoziati non è finita”

Immagine di copertina
Credit: AP Photo

“Con un maggior impegno per il compromesso, forse si sarebbero potute evitare le guerre odierne. Gli accordi di Minsk? Non furono inutili. Ma sono stati un successo della diplomazia europea”. Parla l’ex ambasciatore dell’Italia in Serbia, a Cipro e presso l’Osce

L’era della diplomazia è davvero finita? E ancora: alcuni degli importanti sforzi diplomatici messi in atto in passato si sono rivelati davvero efficaci? Lo abbiamo chiesto a Francesco Bascone, ex ambasciatore d’Italia in Serbia, a Cipro e presso l’Osce, che non solo ci risponde analizzando  l’attuale scenario geopolitico e i relativi rischi ma ci aiuta anche a comprendere come funziona la diplomazia e che ruolo essa ricopra a livello internazionale.

S&D

Molti osservatori ritengono che la diplomazia sia in crisi se non in un declino inarrestabile. È davvero così?
«Per diplomazia, in realtà, intendiamo due cose distinte. Una è l’attività dei diplomatici, di cui il negoziato costituisce solo una parte, e l’altra è il negoziato internazionale che viene praticato non solo dai diplomatici ma anche dai responsabili politici. Nella prima accezione, la domanda si può ricollegare a una vecchia polemica, ovvero: hanno ancora una funzione gli ambasciatori visto che gli accordi vengono fatti dai vertici politici? La risposta è chiara: anche ipotizzando che tutte le questioni importanti siano discusse da capi di governo e ministri, la preparazione è sempre affidata ai diplomatici così come la successiva precisazione dei dettagli. Se parliamo del negoziato, come alternativa al conflitto armato o come via d’uscita dalla guerra, allora si può in effetti sostenere che assistiamo a guerre che con un maggior impegno nella ricerca di compromessi forse si sarebbero potute evitare. Un esempio è l’attuale guerra in Ucraina, frutto sicuramente del revisionismo di Mosca, della nostalgia dell’impero e di un errore di calcolo di Putin, ma anche di una miopia della diplomazia dell’Occidente che ha alimentato il sentimento di rivalsa della Russia. E poi la guerra di Gaza, che non ci sarebbe stata se la diplomazia americana, miope anche qui, non avesse promosso la normalizzazione dei rapporti tra i vari Paesi arabi e Israele mettendo tra parentesi la questione palestinese».

Vorrei analizzare insieme a Lei, anche attraverso il racconto dei suoi retroscena, tre casi di accordi diplomatici che nel corso del tempo si sono rivelati fallimentari o quantomeno deficitari, partendo dagli accordi di Minsk.
«Gli accordi di Minsk del 2014 e 2015 in realtà non sono stati inutili. Anzi, sono un successo della diplomazia europea, di Angela Merkel in particolare, anche se non sono stati interamente attuati. Non solo da parte ucraina, come vuole la propaganda filo-russa. La federazione russa non ha ritirato le sue forze e il suo appoggio politico-militare ai secessionisti del Donbass come prevedevano gli accordi. Accordi che hanno messo fine alla guerra che era costata  quattordicimila morti. Questo lo ricordo perché alcuni hanno preso per buona la tesi di Putin, ovvero che l’intervento del febbraio 2022 fosse stato necessario per fermare quella guerra, quella emorragia di vite umane. La realtà è stata ben documentata dalla missione degli osservatori dell’Osce. Dopo il 2015 ci sono state innumerevoli violazioni dell’armistizio, ma solo uno stillicidio di morti e feriti. La mediazione franco-tedesca, mettendo fine alla guerra, ha evitato che l’incendio si propagasse alle regioni centrali e meridionali dell’Ucraina quando il Paese disponeva di un esercito male equipaggiato. Putin ha poi ripreso il progetto di sottomettere Kiev o spartire il Paese quando ha ritenuto che il momento fosse propizio. Stati Uniti poco propensi a nuovi impegni militari dopo il ritiro dall’Afghanistan, l’Europa debole e divisa, e la Cina forte e amica».

C’è poi la questione dei Paesi balcanici. A trent’anni dalla fine della guerra, la Serbia, che attende ancora di entrare nell’Ue si rifiuta di riconoscere l’indipendenza del Kosovo, mentre in Kosovo vi sono ancora scontri etnici.
«La diplomazia americana ha in effetti realizzato l’indipendenza del Kosovo fra il 1998 e il 2008,pur usando metodi piuttosto discutibili.Quanto alla crisi attuale, gli americani non sono riusciti a dissuadere il governo del Kosovo da un braccio di ferro con la Serbia sulla ridicola questione delle targhe automobilistiche e quello della Serbia dal flettere i muscoli in primo luogo per motivi di politica interna. Quello che appare chiaro è che Mosca rinfocola il nazionalismo serbo, come ha fatto altre volte in passato, per mettere una pietra d’inciampo sul percorso della Serbia, ma anche del Montenegro e della Bosnia ed Erzegovina, verso l’integrazione dell’Unione europea».

A Cipro, invece, nonostante gli sforzi diplomatici, il piano Annan, che prevedeva la riunificazione delle due comunità cipriote, fu bocciato dal referendum. Con il risultato che la questione è tuttora irrisolta.
«Di tentativi di riunificare Cipro per via negoziale ce ne sono stati in ciascuno degli ultimi cinque decenni. Vent’anni fa si è arrivati a un soffio dal successo grazie al potente incentivo che era costituito per entrambe le parti dalla prospettiva dell’ingresso nell’Unione europea. Nei primi anni Duemila si dava infatti per scontato che un Paese dai confini controversi non potesse entrare nell’Ue; ma i greco-ciprioti non potevano essere penalizzati per l’intransigenza turca. I due processi si sbloccavano a vicenda. Per Ankara poteva essere un piede nella porta di Bruxelles in cambio della rinuncia a questo suo piccolo protettorato. L’accordo sul piano Annan era stato raggiunto e anche formalizzato. Mancava la ratifica mediante i referendum e paradossalmente il no venne, non dalla parte turco-cipriota che in passato era sempre stata restia a essere fagocitata dalla Repubblica di Cipro, ma dalla parte greco-cipriota che si era sempre professata ansiosa di una riunificazione. Il fatto interessante è che questo esito fu frutto di un’intensa campagna per il no guidata dal presidente greco-cipriota, Tassos Papadopoulos, che aveva firmato l’accordo. A questo punto però l’ammissione nella Ue era cosa fatta. Oggi con una Turchia sovranista e consapevole del suo ruolo regionale, non vedo prospettive per la riunificazione di Cipro».

Tornando all’attualità, come mai gli sforzi diplomatici si stanno rivelando sempre meno efficaci a partire proprio dalla guerra in Ucraina?
«Fino a quando un aggressore più forte vede buone probabilità di vittoria e dall’altra parte l’aggredito è disposto a enormi sacrifici per salvaguardare la propria indipendenza e integrità territoriale, ed è quello che abbiamo visto in questi due anni, non c’è spazio per la diplomazia. Occorre quindi attendere che si arrivi a una situazione di stallo in cui le perdite materiali, e soprattutto di vite umane, appaiano per entrambe le parti prive di senso. A voler essere ottimisti potremmo essere vicini a questo scenario proprio in Ucraina, a condizione che un indebolimento del sostegno Occidentale a Kiev non faccia balenare a Mosca la possibilità di una “caporetto” Ucraina».

Di recente la premier Meloni è stata vittima di uno scherzo telefonico in cui ha rivelato la stanchezza dell’Occidente per la guerra in Ucraina. Secondo Lei sarà proprio questa “stanchezza” a contribuire all’apertura di un dialogo tra Russia e Ucraina?
«La “war fatigue” (stanchezza da guerra, ndr) è innegabile, ma le conseguenze non saranno queste a mio avviso. La stanchezza delle opinioni pubbliche occidentali e del Congresso americano potrebbe ritardare l’apertura di un negoziato di armistizio, non facilitarlo. L’industria russa è in grado di reintegrare l’armamento consumato o perso in battaglia. La Russia quindi verrebbe imbaldanzita, come dicevo, da qualsiasi segno di una diminuzione delle forniture americane e anche di quelle europee. Perché si arrivi a un negoziato, anche solo per un armistizio che è cosa ben diversa da un nuovo assetto di pace, occorre che ci sia una “war fatigue” anche sull’altro versante. Possiamo immaginare una fronda dei vertici militari, che però non si è ancora manifestata, o un movimento delle madri dei caduti, anche questo poco probabile nella Russia di Putin. O, forse, una “war fatigue” dell’alleato cinese che può essere interessato a creare maggiore stabilità globale. O potremmo addirittura immaginare una “war fatigue” dello stesso Putin che tutto sommato qualche risultato può dire di averlo raggiunto: ha punito l’Ucraina per la sua defezione, ha creato problemi a Biden, diviso gli europei, e soprattutto conquistato territori ricchi di risorse naturali oltre a quelli che aveva conquistato nel 2014. Questa, però, è una ipotesi alquanto ottimistica, personalmente sono più pessimista perché la “war fatigue” non è bilanciata, colpisce molto di più l’Ucraina e i suoi alleati, motivo per cui la Russia ha i suoi buoni motivi per andare avanti».

Quale potrebbe essere l’attore protagonista in un eventuale negoziato?
«La Cina, ma in dialogo con gli Stati Uniti. Entrambe queste potenze sono in grado, se non di esercitare pressioni (soprattutto sulla Russia), di offrire incentivi e disincentivi. La Cina da sola non ha la necessaria equidistanza. La ha invece la Turchia: e quindi può offrire i suoi buoni uffici, cosa diversa da una mediazione; – potrebbe al limite – svolgere compiti di mediazione ma senza avere la capacità di influire che avrebbero Cina e Usa. Anche nel caso di una mediazione turca, la presenza di Cina e Stati Uniti dietro le quinte è un fattore indispensabile».

Questione Medio Oriente: quale soluzione diplomatica potrebbe mettere fine alla guerra?
«Sul Medio Oriente io sono ancora più pessimista, soprattutto se parliamo di soluzione piuttosto che di arresto dei combattimenti. Gli accordi di Oslo, che risalgono ormai a trent’anni fa, sono stati un successo diplomatico da manuale. Anche se lo scioglimento dei nodi principali in quegli accordi fu rimandato alla fase finale del regime provvisorio di cinque anni. Quelle ulteriori trattative ci furono sotto gli auspici di Clinton alla fine degli anni Novanta dopo l’infausta pausa del primo governo Netanyahu, ma si arenarono definitivamente dopo l’uscita di scena di Clinton e la successiva vittoria elettorale di Sharon, all’inizio del 200; e la continua espansione degli insediamenti in Cisgiordania ha fatto il resto. Quindi quella finestra è chiusa e murata. Un’operazione diplomatica dovrà pur esserci, non per risolvere la questione palestinese sulla base di una reale indipendenza statuale, ma per mettere fine a questa orrenda guerra e assicurare un minimo di normalità alla Striscia di Gaza, e rendere la situazione più vivibile anche in Cisgiordania. Protagonisti di una auspicabile mediazione non potranno che essere Egitto e Qatar ed eventualmente altri Paesi arabi, forse anche la Turchia, e dall’altra parte gli Stati Uniti. Il grosso problema è che i presidenti americani o non vogliono o non possono esercitare pressioni su Israele. Solo consigli di moderazione, perlopiù inascoltati. I presidenti Usa quindi hanno le mani legate: Biden, lo vediamo, è ricattato dai Repubblicani che hanno la maggioranza alla Camera, e affronta una campagna elettorale difficilissima. Trump ha abbondantemente dimostrato di essere a disposizione di Netanyahu, il quale certamente conta su un suo ritorno alla Casa Bianca».

Lei ricordava le elezioni presidenziali Usa del 2024. Nello stesso anno si terranno le elezioni presidenziali in Russia e Ucraina, oltre che le elezioni Europee. Queste importanti tornate elettorali possono incidere sull’attuale scenario geopolitico?
«Le elezioni americane senza dubbio. Biden deve stare attento al voto dell’elettorato filo-israeliano, che non è soltanto quello ebraico. Se le presidenziali americane le vincerà Trump, come io temo, questo potrebbe avvantaggiare molto sia Putin che Netanyahu. Per ciò che concerne la Russia, Putin non ha bisogno di aumentare il proprio consenso, motivo per cui non direi che le elezioni russe possano avere molta influenza sulle decisioni; così come quelle ucraine. Ancora meno le Europee: l’Ue ai fini delle mediazioni conta sicuramente molto meno degli Stati Uniti nel caso dell’Ucraina, zero per il conflitto israelo-palestinese.

Come può cambiare, in prospettiva, lo scenario geopolitico e quali sono anche i rischi a cui andiamo incontro?
«L’attuale scenario geopolitico è caratterizzato prima di tutto da un vistoso regresso dell’influenza degli Stati Uniti e dell’Occidente nel mondo. Poi da un programma egemonico della Cina; la Cina potrebbe sferrare un attacco a Taiwan che metterebbe gli Usa di fronte a un terribile dilemma. E, infine, da una Russia tutt’altro che isolata, e intenzionata nel migliore dei casi a indebolire la coesione dell’Unione europea, ma forse anche ad aprire una crisi con qualcuno dei suoi vicini per mettere in difficoltà la Nato».

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