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Home » Esteri

“Il destino di Julian Assange riguarda la democrazia, l’Europa e tutti noi”: a TPI parla la moglie

Immagine di copertina
Credit: ansa foto

Parla la moglie di Assange, fondatore di Wikileaks, che rischia 175 anni di carcere: “Mio marito è un perseguitato politico. siamo pronti a portare questa farsa giudiziaria montata dagli Usa alla Corte europea dei diritti dell’uomo”

Stella Morris è un’avvocatessa e ha partecipato alla squadra di difensori nel processo sull’estradizione di Julian Assange, suo marito. Stanno insieme da molti anni e hanno due figli, ma si sono sposati solo un mese fa, nel carcere londinese di Belmarsh. Lì dove il fondatore di WikiLeaks resta in attesa di sapere se verrà estradato negli Stati Uniti per violazione di segreti di Stato. Il giornalista ha reso di pubblico dominio le atrocità commesse dai soldati americani in Afghanistan e Iraq: verità scomode per il governo di Washington. Mentre Assange resta dietro le sbarre, fuori Stella si batte ogni giorno per la sua libertà e per la libertà di stampa in generale.

S&D
Il destino di Assange sembra essere segnato, quali sono le possibilità che possa salvarsi?

«Io non la vedo così. Il caso finalmente si mostra per quello che è: una persecuzione politica di un editore a causa del suo lavoro giornalistico. Per anni gli Stati Uniti hanno nascosto la vera natura della persecuzione, ma la farsa è finita quando Julian è stato brutalmente rimosso dall’ambasciata che gli aveva concesso asilo politico (L’Ecuador ndr.) Per anni, i governi coinvolti hanno utilizzato ogni sorta di escamotage burocratico per giustificare la persecuzione di Julian, ma ormai anche un osservatore indipendente può affermare con raziocinio che il trattamento di Julian è crudele e insolito. Ha trascorso tre anni in un carcere di massima sicurezza nel Regno Unito, non sta scontando alcuna pena, non è accusato di nulla nel Regno Unito, è detenuto a tempo indeterminato per conto di un Paese straniero che sta portando avanti una persecuzione di natura politica scandalosa per il suo lavoro di editore. Solo gli ingenui o i complici ora negano l’ovvio, che questa è una persecuzione politica tra le più atroci».

La difesa di Assange ha già annunciato che presenterà ricorso entro il termine, che è il 18 maggio, cosa può succedere?

«Ora abbiamo un ordine di estradizione da parte del tribunale del Regno Unito. È importante notare che il trattato di estradizione Regno Unito-Usa è fortemente orientato a favore degli Stati Uniti. Non c’è un requisito di prove indiziarie, quindi le richieste del governo Usa sono prese alla lettera e non possono essere oggetto di contro-esame nel procedimento stesso dell’estradizione. Il destino di Julian sarà deciso nel giro di pochi mesi. Il ministro dell’Interno del Regno Unito deve decidere se firmare l’ordine di estradizione del tribunale. Voglio ricordare che il tribunale di grado inferiore ha effettivamente bloccato l’estradizione sulla base della sezione 91 dell’”Extradition Act”, secondo cui estradare Julian sarebbe così “opprimente” da indurlo a togliersi la vita. Dopo che gli Stati Uniti hanno perso il primo round, c’è stato un intervento politico da parte del governo americano sotto forma di un atto scritto al governo del Regno Unito. Amnesty International ha esaminato il contenuto della lettera e ha affermato che era “intrinsecamente inaffidabile”. La via d’appello è ora chiusa, fatta eccezione per la Corte europea dei diritti dell’uomo. La difesa presenterà le proprie argomentazioni al ministro dell’Interno Priti Patel entro il 18 maggio, che poi deciderà se firmare l’ordinanza. Se questo accadrà, avremo ancora l’opportunità di presentare ricorso dinanzi all’Alta Corte inglese ed, eventualmente, alla Corte suprema del Regno Unito e alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Stiamo parlando di mesi, non anni, fino a un risultato finale. Lo scenario più attendibile è che il Regno Unito dia il via libera a questa estradizione e che il destino di Julian verrà infine deciso dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Questo è fondamentale, perché significa che il caso entrerà a far parte della giurisprudenza della Cedu, comprese le questioni fondamentali sulla portata e la forza delle tutele della libertà di stampa in tutta l’area del Consiglio d’Europa, che ovviamente include l’Italia. Il caso solleva interrogativi fondamentali sull’esposizione alle condizioni di tortura che dovrà affrontare Julian durante la custodia negli Stati Uniti, sulla motivazione politica di questo procedimento giudiziario, che è stato avviato sotto l’amministrazione Trump, e, in definitiva, si pongono interrogativi sull’effettiva solidità della Corte europea dei Diritti Umani per fermare l’estradizione di un giornalista verso un Paese che ha cospirato per ucciderlo. Le ripercussioni per giornalisti e dissidenti in Europa non troverebbero maggiore enfatizzazione. Questo è il motivo per cui il caso di Julian non è qualcosa di lontano, che non ci appartiene e che sta accadendo “laggiù”, tra Regno Unito e Stati Uniti; il caso di Julian sta letteralmente plasmando la nostra realtà di europei e il futuro dei nostri diritti e libertà, dato che la libertà di stampa è ovviamente fondamentale. L’Europa è la nostra ultima speranza, ma è anche la migliore».

Come stai vivendo questa situazione come famiglia?

«È estremamente difficile per tutti. Possiamo incontrarlo una volta a settimana e cerchiamo di rendere quel momento il più normale possibile in queste circostanze. Abbiamo a disposizione poco più di un’ora, tempo in cui i bambini possono sedergli in grembo e lui può leggere loro qualche storia. Posso abbracciarlo sono all’arrivo e al momento dei saluti e tenergli la mano sul tavolo. Possiamo mangiare degli spuntini dal negozio acquistati rigorosamente nella sala visitatori, che è molto grande e contiene circa 100 persone alla volta, compresi gli altri carcerati, i loro visitatori e le guardie carcerarie. È un luogo pieno di caos ma lo amiamo perché è tutto ciò che abbiamo. I bambini adorano andare a trovare il padre e noi rendiamo quell’esperienza la più positiva possibile. Ovviamente c’è l’altro lato della medaglia, ossia che non so per quanto tempo i bambini avranno un padre, se è questione di mesi, anche in questo modo estremamente limitato. Una volta estradato negli Stati Uniti, lo perderemo per sempre».

Qual è il valore della libertà di stampa oggi?

«Una democrazia è forte tanto quanto è libera la sua stampa. E la libertà di stampa non si misura dalle leggi di un Paese, ma dalla vivacità e dalla volontà della stampa di pubblicare verità scomode senza timore di ripercussioni. Questo spiega perché l’amministrazione Obama ha deciso che non avrebbe perseguito Julian Assange e WikiLeaks. Farlo avrebbe significato smantellare la libertà di stampa negli Stati Uniti che da sempre si connota per la natura contraddittoria e aperta del dibattito pubblico. Ma con l’avvento di Donald Trump è iniziata la guerra contro la stampa. Il direttore della Cia Mike Pompeo ha condotto un’operazione ad ampio raggio per mettere a tacere Julian e WikiLeaks perché Julian era un critico e perché WikiLeaks ha pubblicato documenti che svelano il coinvolgimento degli Stati Uniti in attività illecite e totalmente illegali. Le tendenze autoritarie dell’amministrazione Trump hanno permesso di discostarsi dalla precedente amministrazione e di rendere bersaglio la libertà di stampa. Trump ha fatto esattamente ciò che Obama si è rifiutato di fare, ovvero perseguire Julian per attività giornalistiche. Il vero senso intrinseco della democrazia dipende da quanto sia solida la protezione della stampa, ma anche da quanto i governi siano in grado di far fede a questa promessa di protezione. La reclusione di Julian ha avuto un forte impatto in tutto il mondo: “Se è possibile colpire Julian Assange, che è molto conosciuto, possono perseguire chiunque”. Questo è esattamente il messaggio che il governo degli Stati Uniti vuole lanciare. E, naturalmente, i governi autoritari di tutto il mondo amano questa prospettiva. Non solo permette loro di sottolineare l’ipocrisia dell’Occidente, ma li rende anche liberi di perseguitare i giornalisti in patria senza che Stati Uniti o Europa possano proferire parola. I perdenti sono quelli che restano, noi. Pubblico, giornalisti, critici del regime. È un risultato terribile».

La decisione del tribunale inglese ti sembra una decisione libera o c’è una subalternità all’America?

«La subalternità all’America è palese nel trattato di estradizione Regno Unito-Usa, ampiamente criticato nel Regno Unito, anche dal Primo Ministro Boris Johnson per essere sbilanciato a favore degli Stati Uniti. È stato adottato subito dopo gli attacchi dell’11 settembre. La disparità è così netta che gli Stati Uniti hanno rifiutato l’estradizione dell’agente della Cia Anne Sacoolas, che ha ucciso un adolescente britannico in un incidente stradale e che il Regno Unito vuole processare. Consentendo agli Stati Uniti di procedere con la richiesta di estradizione per Julian, il Regno Unito agisce anche in violazione dell’articolo 4 del trattato di estradizione Usa-Regno Unito, che vieta l’estradizione per reati politici. Julian è incriminato sulla base dell’Espionage Act, e lo spionaggio è sicuramente un’offesa puramente politica. Poi c’è il fatto che i tribunali britannici hanno ribaltato la loro decisione di bloccare l’estradizione di Julian per ragioni umanitarie, in virtù di un intervento politico degli Stati Uniti. Amnesty International ha definito questa scelta una “farsa giudiziaria”».

Assange ha mai pensato di aver commesso un errore?

«Non posso parlare al suo posto, ma solo per ciò che vedo. Julian è l’uomo con più principi che conosca. Quando c’è da prendere qualsiasi decisione lo fa sempre secondo morale, anche quando questo va a suo discapito. Decide sempre tracciando una linea netta tra ciò che è giusto e sbagliato nella Storia e lo ammiro molto per questo, anche se so che gli è costato tantissimo. Julian ha dovuto affrontare scelte molto difficili, dove non esisteva una risposta scontata, ma è rimasto fedele sempre ai suoi ideali, che ha chiaramente affermato con la missione di WikiLeaks, e ha sempre protetto le sue fonti. Sono circolate molte notizie false sul suo conto e questo è parte della guerra che gli viene mossa contro, istigata anche dalla Cia, specialmente sotto la direzione di Mike Pompeo».

La storia di Assange mostra chiaramente la natura intrinsecamente antidemocratica del potere. Cosa può fare la società civile?

«La società civile sta perdendo potere e altri attori, sia nuovi che vecchi, stanno invece guadagnando terreno. Si stanno perdendo molti diritti. Pensiamo al fatto che abbiamo una piazza pubblica rappresentata dai social media ma che è di proprietà di terze parti. Gli individui non hanno privacy. Le nostre vite private e le nostre preferenze, tutto ciò che amiamo è diventato un bene da vendere o da acquistare. Quando questo avviene, quando il privato si fa pubblico, l’opinione pubblica è incline alla manipolazione privata. Ecco perché è così importante capire il caso di Julian, non solo per le ripercussioni ma anche perché è indicativo del vero stato di salute della nostra democrazia. WikiLeaks è un editore specializzato nella pubblicazione di documenti ufficiali sulla condotta dei Paesi in guerra, comprese pratiche illegali come tortura, uccisioni di civili, ma anche pratiche di sorveglianza illegale e così via. Non ha mai pubblicato un documento falso, e lo si può considerare un archivio di storia contemporanea. Rendendo pubbliche queste informazioni e smascherando le attività illegali delle super potenze, questo piccolo editore è diventato l’obiettivo da perseguire. La superpotenza ha inseguito l’editore per aver messo a disposizione del pubblico informazioni veritiere, verificate e fornite dalla giornalista Chelsea Manning. Quelle informazioni sono incriminate perché documentano il coinvolgimento della superpotenza in omicidi illegali e insabbiamenti, smascherano l’ingerenza nei processi giudiziari di Paesi stranieri, come in Italia. Se siamo d’accordo sul fatto che i crimini di guerra sono sbagliati e dovrebbero essere sempre smascherati, non importa chi siano gli autori, allora questa estradizione per l’uomo che ha reso pubblici i crimini di guerra non può essere portata avanti».

Come giudica il giornalismo in Italia?

«Ci sono ottimi giornalisti in Italia. Percepisco che ora c’è molto interesse e una crescente consapevolezza sulle devastanti implicazioni del caso di Julian grazie anche all’eccellente lavoro di questi giornalisti. All’inizio di quest’anno ho partecipato alla fiera del libro di Torino e al Festival internazionale del giornalismo di Perugia e ho sentito molto calore, preoccupazione e impegno in entrambi gli eventi. L’anno scorso la Rai ha realizzato un ottimo documentario disponibile su YouTube. E Stefania Maurizi ha svolto un lavoro straordinario quando nessun giornalista britannico lo stava facendo, e ha svelato la condotta delle autorità britanniche e svedesi di cui ha scritto nel suo libro, The Secret Power. Spero che la consapevolezza continui a crescere perché l’Italia e il suo popolo sono un Paese chiave dell’Unione europea, sia politicamente che culturalmente».

Il governo degli Stati Uniti ha esercitato pressioni sui giornalisti occidentali affinché smettessero di parlare del caso Assange?

«Quando parlo ai singoli giornalisti sono molto empatici in privato. È difficile trovare un giornalista che è d’accordo con le azioni degli Stati Uniti, e se si fanno sentire è perché di solito ignorano i dettagli del caso. Il caso Usa vs Julian è indifendibile, ed è questa la ragione per cui ogni importante gruppo per la libertà di stampa e organizzazione per i diritti umani o per le libertà civili si oppone a questa estradizione. Ho bisogno di una maggiore presa di posizione da parte delle testate giornalistiche. Lo hanno fatto il New York Times e il Washington Post, così come il Guardian. Sono contrari a questo processo e hanno chiesto l’archiviazione del caso. Le redazioni in Italia dovrebbero fare lo stesso. Forse non hanno esaminato personalmente le implicazioni di questo caso per le proprie istituzioni e, se lo facessero, immagino che si schiererebbero con il NYT e il Washington Post. Alcuni giornalisti ritengono sia rilevante definire se Julian sia o meno un giornalista. Questo è fuorviante. Gli Stati Uniti non distinguono legalmente tra giornalisti e non giornalisti, e per quanto riguarda la Julian’s journalism union (MEAA) di cui è membro da oltre un decennio, e la International Federation of Journalists, Julian è un giornalista professionista e ha anche vinto dozzine di premi giornalistici, inclusa la versione australiana del Pulitzer. Quindi quella discussione è del tutto inutile. Da quando gli Stati Uniti hanno rivelato le reali accuse contro Julian, la protesta è stata unanime da parte di tutti gli esperti in materia (CPJ, RSF, Amnesty, HRW, ecc.): questa accusa criminalizza l’attività giornalistica, mira a ferire mortalmente la protezione della libertà di stampa. Se il procedimento giudiziario va avanti, espone ogni giornalista all’azione penale, rende inutili le tutele della libertà di stampa ed è un cambio di paradigma che paralizza la libertà di stampa ovunque. Julian non è cittadino statunitense. Non deve fedeltà agli Stati Uniti. Pubblicava dall’Europa. I documenti da lui pubblicati contenevano prove di crimini della peggior specie, compresi i crimini di guerra. Non c’è dubbio che questa informazione fosse nell’interesse pubblico. E rischia una condanna a 175 anni per aver fatto il suo lavoro. Viene letteralmente accusato di ricevere, possedere e diffondere (al pubblico e ad altri giornalisti) informazioni vere, come fanno i giornalisti ogni giorno. Non si tratta – per fare un esempio – solo di chiedersi se gli Stati Uniti daranno la caccia ai giornalisti italiani allo stesso modo, ma se la Turchia, l’Arabia Saudita o qualsiasi altro Paese applicherà lo stesso principio. Chiunque può emettere un mandato di estradizione nei confronti di un giornalista italiano quando si trova in un Paese terzo. Se si possono applicare le leggi sulla censura di un determinato Stato e sulla segretezza extra-territorialmente, cosa impedisce a Cina, Russia o altrove di adottare questa pratica abitualmente? È una corsa al ribasso».

C’è stato qualche governo straniero che ha dimostrato di voler prendere a cuore il caso di Assange?

«Il Paese che dovrebbe intervenire a favore di Julian è l’Australia, ma l’Australia è membro dei Five Eyes e la sua condotta negli ultimi anni ha dimostrato che non si schiererà al fianco dei suoi cittadini. L’Europa è diversa. C’è un forte sostegno da parte di un gruppo di nazioni, ad esempio Francia e Germania, perché il caso di Julian va oltre la sinistra e la destra, va al cuore di cosa significa vivere in una società democratica. Forse ciò che serve ora è capire davvero perché questo è un caso europeo, non solo perché il caso arriverà presto alla Corte europea dei diritti dell’uomo, ma anche perché WikiLeaks pubblica dalla Francia, tra i giornalisti di WikiLeaks ci sono anche cittadini europei che corrono dei rischi. C’è inoltre una serie di Paesi che aspetta l’esito di questo caso per usarlo come modello per perseguire giornalisti e critici che non amano. Questa è una farsa che va fermata».

Cosa vorresti dire al nostro Ministero degli Affari Esteri in merito al caso di Julian?

«Julian ha reso un servizio pubblico di cui l’Italia e le istituzione europee hanno beneficiano, compresi i dettagli di come senatori del governo italiano, diplomatici, istituzioni europee e ufficiali siano stati presi di mira illegalmente per dossieraggio. Julian è perseguitato politicamente a causa del suo lavoro, che è di natura giornalistica e che è stato premiato e riconosciuto attraverso dozzine di premi giornalistici. Julian deve essere protetto e, data la riluttanza del suo Paese natale a proteggerlo (l’Australia ndr.), l’Europa deve intervenire per farlo, perché alla fine la decisione sarà presa nei tribunali europei».

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