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Home » Esteri

Perché la causa palestinese scuote (anche) le società occidentali

Immagine di copertina
Credit: AGF

L’orrore per i 20mila bambini uccisi a Gaza. L’indignazione per il doppio standard dei nostri governi in favore di Israele. Le immagini del conflitto virali sui social. Così le istanze pro-Pal hanno conquistato anche le piazze occidentali. Diventando un simbolo della lotta alle ingiustizie

«Ciao a tutti, sono Bisan da Gaza e sono ancora viva». I suoi video sui social iniziano quasi sempre con questa formula di saluto. Lei è Bisan Owda, ha 28 anni e fino al 7 ottobre 2023 era solo un’aspirante regista che nessuno, all’infuori della Striscia, aveva mai sentito nominare. Oggi invece la conoscono in tutto il mondo. Con le sue quotidiane clip di denuncia, Bisan si è affermata come una delle più popolari fonti di informazione sul massacro israeliano a Gaza. Su Instagram conta 4,9 milioni di follower e un anno fa – nonostante la formale protesta di un gruppo pro-Israele – ha vinto un Emmy Award, il più importante premio televisivo negli Stati Uniti, con un documentario, prodotto da Al Jazeera Plus, che raccoglie alcuni dei suoi video-testimonianza. Peccato che non l’abbia potuto ritirare, essendo intrappolata nella Striscia, dove si trova tutt’ora.

Per lunghi mesi, prima di riuscire a espatriare e ottenere rifugio politico all’estero, un’altra preziosa   risorsa di immagini da Gaza è stato il fotoreporter Motaz Azaiza, 26 anni, anche lui diventato famoso a livello planetario grazie alla visibilità delle piattaforme digitali. Nel 2023 un suo scatto, che ritrae una ragazza intrappolata tra le macerie, è stato selezionato dal prestigioso magazine britannico Time come una delle 10 foto più significative dell’anno. E sempre Time, nel 2024, lo ha inserito nell’elenco delle 100 persone più influenti del mondo. Oggi Azaiza, nato e cresciuto nel campo profughi di Dayr al-Balah, è seguito da 16,4 milioni di account su Instagram.

Instafada
Negli ultimi due anni i social si sono rivelati un veicolo di importanza determinante nell’accrescere su scala globale il sostegno alla causa palestinese. 

Come disse, già nelle prime settimane del conflitto, l’ex amministratore delegato di Tinder, Jeff Morris Jr, «Israele sta perdendo la guerra di TikTok». Sulla piattaforma di video cinese – che conta comunque oltre 150 milioni di follower negli Stati Uniti e 200 milioni in Europa, di cui 24 milioni in Italia – spopolano i video a tema Gaza. Ce ne sono di ogni tipo: bombe che distruggono edifici, bambini affamati, macerie filmate dall’alto, ma anche clip registrate in Occidente che ritraggono manifestazioni, analisi, commenti. C’è persino qualche giovane tiktoker che va in giro per strada nelle nostre metropoli domandando ai passanti se stiano dalla parte di Israele o della Palestina. E prevale quasi sempre la Palestina.

Uno dei primi fenomeni virali legati alle vicende mediorientali risale al maggio del 2024, quando su Instagram superò le 50 milioni di condivisioni l’immagine “All eyes on Rafah”, creata con l’intelligenza artificiale per diffondere l’appello affinché il premier israeliano Benjamin Netanyahu non lanciasse la temuta offensiva sulla città di Rafah, nel sud della Striscia. 

Ma l’eco dei social è arrivata anche nelle stanze che contano. Nel documento di 84 pagine che il governo del Sudafrica ha depositato alla Corte Internazionale di Giustizia per accusare Israele di genocidio sono inclusi, tra le prove fornite, post condivisi su Instagram e X. 

Non è un caso, del resto, se la scorsa estate lo Stato ebraico ha assoldato un manipolo di influencer per provare a convincere gli utenti dei social che a Gaza non ci fosse alcuna carestia indotta.

Qualcosa è cambiato
Dopo il pogrom di Hamas del 7 ottobre 2023, almeno nel mondo occidentale prevalevano lo sgomento e la solidarietà nei confronti di Israele. Ma con il passare dei mesi la situazione si è capovolta. La sproporzionata rappresaglia voluta da Netanyahu, poi assurta a livello di genocidio, ha portato milioni di persone a schierarsi dalla parte del popolo palestinese. Il ché rappresenta una novità assoluta per questa parte di mondo, dove per ottant’anni sono state fedelmente supportate le istanze della stella di David.

E invece – da Roma a Sydney, da Milano a Manhattan, da Londra a Parigi, Madrid, Berlino – nel corso di quest’anno più volte fiumi di persone sono scese in strada a ogni latitudine dell’Occidente per gridare «Free Palestine!». La bandiera dai colori panarabi – fino a poco tempo fa appannaggio per lo più di forze di estrema sinistra o estrema destra – è diventata un simbolo di lotta alle ingiustizie che tocca le coscienze, sventolato anche da elettori di area moderata.

Il massacro di Gaza ha risvegliato la partecipazione. Anche nei giovani, spesso accusati di apatia. Gli studenti sono stati fra i primi a riconoscere la disumanità di quel che sta accadendo nella Striscia e a manifestare la loro indignazione: ricorderete, lo scorso anno, le tante università italiane mobilitate o i liceali di Pisa presi a manganellate dalla Polizia. In certi campus universitari statunitensi essere pro-Israele è diventato addirittura motivo di emarginazione sociale.

Ebbene, oggi al fianco dei ragazzi in corteo sfilano pure lavoratori e pensionati (al netto di qualche gruppetto fomentatore di disordini). 

In prima fila nelle proteste degli ultimi mesi ci sono i sindacati. E non solo attraverso l’organizzazione di manifestazioni di piazza. A Genova i portuali hanno bloccato navi cariche di armi dirette verso lo Stato ebraico, in Belgio è accaduto qualcosa di simile su iniziativa degli autotrasportatori. Anche nel Regno Unito e in Canada le sigle dei lavoratori si sono attivate per attuare una sorta di embargo dal basso contro i crimini del Governo Netanyahu.

Innumerevoli sono poi le campagne di boicottaggio lanciate contro aziende israeliane o aziende occidentali che fanno affari con Israele. Boicottaggi che hanno finito per investire persino il mondo della cultura, con due famosi attori di Hollywood che hanno preferito disertare il Festival del Cinema di Venezia dopo essere stati messi nel mirino da alcuni colleghi che li accusavano di simpatie con l’esercito di Tel Aviv. 

A Venezia la causa palestinese è stata sostenuta pubblicamente da diversi artisti del cinema, con tanto di manifestazione a margine della rassegna. Ma il massacro di Gaza è arrivato sul palco pure al Festival di Cannes e alla serata degli Oscar, dove tra i film premiati lo scorso marzo c’era “No other land”, documentario sulla resistenza ai coloni israeliani in Cisgiordania.

Da ultimo, il sostegno popolare alla spedizione della Global Sumud Flottilla ha confermato ulteriormente come l’inferno scatenato da Netanyahu nella Striscia abbia provocato come contraccolpo che le istanze pro-Pal, già erano ben radicate nel cosiddetto Sud Globale, si sono estese facendo breccia anche nelle società occidentali.

Il peso dell’opinione pubblica
Lo sterminio di oltre 60mila persone, in gran parte civili, tra cui 20mila bambini, è stato osservato con ribrezzo da italiani, francesi, spagnoli, tedeschi, britannici, statunitensi. Storie come quella di Hind Rajab, la bimba di 6 anni trucidata in automobile insieme alla sua famiglia e ai soccorritori che lei stessa aveva allertato, hanno contribuito a smuovere le coscienze. Anche tra chi, prima, conosceva poco o nulla della questione mediorientale.

Questo sentimento di sdegno è stato alimentato – come dicevamo – dalle immagini di morte e distruzione che arrivano quotidianamente da Gaza attraverso i canali social, piattaforme che hanno conferito alla causa palestinese una visibilità mediatica mai avuta. Un esempio sono i video virali dei soldati israeliani che aprono il fuoco sui civili nei punti di raccolta degli aiuti umanitari.

Ma non è tutto. La percezione negativa dello Stato ebraico in Occidente è stata aggravata ancora dall’impunità di cui Netanyahu e i suoi falchi hanno goduto mentre portavano avanti il loro piano criminale. Una clemenza da parte dei Paesi alleati che ha reso palese la doppia morale applicata a Israele e alla Russia di Vladimir Putin. Quest’ultima bersaglio di diciannove pacchetti di sanzioni dall’Unione europea, mentre Tel Aviv ne è tutt’ora immune. 

La somma di tutti questi fattori ha dunque portato milioni di persone, anche nella nostra fetta di mondo, a posizionarsi in favore della causa palestinese.

Secondo un sondaggio condotto il mese scorso dall’istituto di ricerche Siena per il New York Times,  i cittadini statunitensi che simpatizzano per Israele sono calati dal 47% del dicembre 2023 al 34%, mentre i pro-Pal sono aumentati nello stesso arco di tempo dal 20 al 35%. Nel Regno Unito, stando all’istituto YouGov, sono totalmente o «abbastanza» dalla parte dei palestinesi il 62% dei britannici. Sempre per YouGov, il 62% dei tedeschi ritiene che Israele a Gaza stia compiendo un genocidio, percentuale che schizza all’82% tra gli spagnoli (secondo l’Elcano Royal Institute). Quanto agli italiani, l’istituto Ixè rileva che il 58,9% dei nostri concittadini sarebbe favorevole all’interruzione dei rapporti con Israele e il 73,7% accusa lo Stato ebraico di genocidio.

Alcuni governi – a cui fanno eccezione Italia e Germania – hanno deciso di rispondere all’indignazione crescente tra i loro cittadini riconoscendo davanti alle Nazioni Unite lo Stato di Palestina: un provvedimento pressoché irrilevante ai fini della causa palestinese, ma che comunque sarebbe stato impensabile fino a una manciata di mesi fa, specie per Paesi storicamente legati a doppio filo con Israele come Francia, Regno Unito, Canada e Australia. Significa che, almeno sul piano superficiale della percezione, Israele inizia a sperimentare un certo isolamento internazionale. Ma, per sua fortuna, Netanyahu ha ancora un amico alla Casa Bianca. Per ora basta e avanza.

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