Benvenuti nel “nuovo” Medio Oriente: ecco cosa aspettarsi nella regione per il 2025
La questione palestinese irrisolta, i sanguinosi successi di Israele, le ambizioni della Turchia, il ridimensionamento dell’Iran e l’attesa saudita del ritorno di Donald Trump alla Casa bianca. Ecco come il grande vuoto di potere in Siria cambia il volto del Medio Oriente e chi può approfittarne
Quando, il 22 settembre 2023, Benjamin Netanyahu annunciò alle Nazioni Unite «l’alba di un’era di pace» in un «nuovo Medio Oriente», in pochi gli diedero credito. Ancora meno dopo gli attentati di Hamas e della Jihad islamica del successivo 7 ottobre in Israele e a seguito della violentissima reazione di Tel Aviv nella Striscia di Gaza, in Cisgiordania, Libano, Siria, Iraq, Iran e Yemen.
Oggi invece, dopo più di 45mila morti nei Territori palestinesi, altre 4mila vittime in Libano, la caduta del regime ultra-cinquantennale degli Assad in Siria, lo scambio di attacchi reciproci tra Israele e Iran e il coinvolgimento diretto di almeno altri cinque Paesi nella crisi mediorientale, tanti hanno cominciato a ricredersi. Magari qualcuno si illude davvero che il ritorno di Donald Trump alla Casa bianca e il rilancio degli Accordi di Abramo con l’Arabia Saudita possano portare la pace, ma di certo il 2025 conoscerà un altro Medio Oriente.
Il premier israeliano continua a definirlo “nuovo”. Non lo è, è molto simile al “vecchio” ma le aspirazioni di alcune potenze e l’arretramento di altre aprono lo spazio, per chi saprà coglierle, a una serie di opportunità, che pur sospendendo le ostilità su questo o quel fronte finiranno però per alimentare la conflittualità invece di attenuarla.
Sulla via di Damasco
Tutto ruota attorno a una guerra che ormai va avanti da quasi 14 anni e di cui periodicamente la comunità internazionale si disinteressa, malgrado abbia provocato almeno 500mila morti e feriti, 7,2 milioni di sfollati, 5,5 milioni di rifugiati, l’intervento militare di Russia, Iran, Turchia, Stati Uniti, Francia e Regno Unito, il coinvolgimento di gruppi armati come il libanese Hezbollah, i paramilitari filo-iraniani afghani e iracheni e le formazioni curde e l’intrusione di organizzazioni terroristiche come al-Qaeda e il sedicente Stato islamico (Isis), con effetti devastanti in tutta la regione e oltre.
Il conflitto in Siria ha infatti generato la più grave crisi migratoria che abbia mai investito l’Europa, rischiato di trascinare in uno scontro militare diretto la Nato e il Cremlino prima ancora dell’invasione dell’Ucraina da parte di Mosca e offerto a Teheran un “ponte” fino al Mediterraneo, mentre ora, con la caduta della dittatura di Bashar al-Assad, ha concesso nuovo terreno allo Stato ebraico e ampliato la sfera di influenza turca, a danno di quella russa e iraniana.
La direzione che prenderà la Siria sarà quindi cruciale per determinare le prospettive future in Medio Oriente. Ma prima di vedere come le medie e grandi potenze intendono approfittare della situazione, servirà capire l’evoluzione del fronte interno. Una decisione che dovrebbe spettare ai siriani ma che purtroppo resta in mano ai gruppi armati e agli attori stranieri presenti militarmente sul territorio.
Malgrado il crollo del regime fondato nel 1971 da Hafez al-Assad, il Paese resta diviso in cinque grandi aree sotto il controllo di diversi gruppi. L’ormai famoso Hayat Tahrir al-Sham (Hts), guidato da Ahmed Hussein al-Shar’a, nome di battaglia: Abu Mohammad al-Jolani, su cui negli Usa pende tuttora una taglia da 10 milioni di dollari per terrorismo, controlla non solo la capitale Damasco ma quasi tutte le maggiori città siriane: Aleppo, Hama, Homs, Idlib, Deir ez-Zor e Latakia. Altri gruppi di opposizione alla dittatura, non ostili al nuovo corso, amministrano il sud e in particolare la città di Dera’a. Nel nord invece, da Afrin a ovest fino alla sponda occidentale dell’Eufrate a est e poi ancora in un’altra fascia di territorio che corre lungo buona parte del confine turco, comandano le milizie sostenute da Ankara sotto l’egida del sedicente Esercito Nazionale Siriano, in perenne lotta contro i curdi. A est del grande fiume si trova proprio l’Amministrazione Autonoma della Siria del Nord-Est, protetta militarmente dalle Forze Democratiche Siriane (Sdf), appoggiate dagli Stati Uniti, che controllano di fatto tutto il confine orientale del Paese e città come Hasakeh e Raqqa. Intanto la Turchia mantiene una presenza militare in territorio siriano lungo la sua frontiera e oltre; la Russia ha ancora (chissà per quanto) due basi, una aerea a Khmeimim e una navale a Tartus, dove fino alla fuga di Assad schierava circa 4.000 soldati; gli Usa controllano la cosiddetta zona di de-escalation di al-Tanf, in cui mantengono un migliaio di forze speciali, ufficialmente per impedire la rinascita dell’Isis; e Israele ha preso il controllo del monte Hermon e del versante siriano delle alture del Golan, in violazione di un accordo risalente al 1974, bombardando per quasi cinquecento volte l’intera Siria per distruggere basi e depositi di armi lasciati dal regime e dai suoi alleati.
In questo scenario caotico, durante la sua prima conferenza stampa, Shar’a/Jolani ha assicurato che le «massime priorità, in questa fase, sono la ricostruzione e la stabilità, non essere trascinati in ulteriori conflitti». A questo scopo ha prima annunciato lo scioglimento di tutte le fazioni armate, da riunire in un’unica forza sotto controllo statale; quindi ha riconosciuto il «legame di fratellanza» con le comunità cristiane e druse, «che hanno combattuto al fianco» dell’opposizione; e infine ha sottolineato la «differenza tra la popolazione curda e l’organizzazione turco-curda del Pkk». Nulla di nuovo per chi ricorda come sia riuscito a mantenere il controllo della provincia di Idlib sin dal 2016.
Lo schema collaudato da Shar’a/Jolani infatti prevede o l’annientamento o il disarmo delle fazioni rivali, con l’arresto dei rispettivi leader e l’assorbimento nei propri ranghi dei loro miliziani. Fu così che nel gennaio 2017 prevalse su Jaysh al-Ahrar e Ahl al-Sham e che nel 2020 annientò i dissidenti di Fa-Ithbatu. Allo stesso modo è riuscito a conquistare la città di Deir ez-Zor senza sparare nemmeno un colpo: nella seconda settimana di dicembre infatti il portavoce del Consiglio militare cittadino affiliato ai curdi delle Sdf, Turki al-Dhari, e sei comandanti locali si sono uniti a Hayat Tahrir al-Sham, che così ha preso il controllo di Deir ez-Zor e dell’aeroporto locale.
Ma controllare l’intera Siria è più difficile che governarne una sola provincia, seppur assediata, e lo stesso Shar’a/Jolani se n’è accorto. «Gli israeliani hanno chiaramente violato le regole del gioco, il che minaccia la regione con una nuova escalation», ha osservato con la stampa. «Chiediamo alla comunità internazionale di intervenire: la sovranità della Siria deve essere rispettata». Ma difficilmente lo sarà.
Il trionfo della Bibi-politik
Israele è stata la prima potenza regionale ad ampliare il proprio controllo diretto sul territorio siriano dopo la caduta di Assad, allargandosi «temporaneamente» sul versante siriano del Monte Hermon, che domina il confine con il Libano, e sul resto delle alture del Golan, un altopiano a una sessantina di chilometri a sud-ovest di Damasco, di cui Tel Aviv occupava già un’ampia porzione dalla fine della Guerra dei Sei Giorni del 1967, poi annessa unilateralmente nel 1981 e riconosciuta nel 2019 dagli Usa di Donald Trump. «È nostro desiderio stabilire relazioni pacifiche e di buon vicinato con le nuove forze emergenti in Siria ma se non ci riusciamo, faremo tutto il necessario per difenderci», aveva spiegato Netanyahu subito dopo la fuga di Assad in Russia, definendo l’avanzata nel Paese arabo una «mossa difensiva temporanea, finché non verrà trovata una soluzione adeguata», che evidentemente non è all’orizzonte. Tanto che, dopo un incontro con il capo di Stato maggiore delle Forze di Difesa di Israele (Idf) generale Herzi Halevi, il ministro della Difesa, Israel Katz, ha annunciato come, almeno sul monte Hermon, le truppe dello Stato ebraico si stiano preparando per l’inverno, il che vuol dire che non se ne andranno a breve.
«La semplice caduta di un regime non cancella un accordo internazionale con il Paese stesso, né lo sospende», ha accusato il professor Eliav Lieblich, esperto legale e docente alla Tel Aviv University dopo gli attacchi israeliani in Siria. «Questa è una delle regole fondamentali nelle relazioni internazionali».
Per la verità, i raid di Tel Aviv nel Paese arabo proseguono ininterrottamente dal 2013, con attacchi a obiettivi di Hezbollah e dell’Iran. Proprio la guerra contro il gruppo armato libanese, principale alleato di Assad, ha contribuito in maniera forse decisiva alla fuga del dittatore. Si tratta, secondo l’analista del Crisis Group, Mairav Zonszein, della strategia adottata dopo il 7 ottobre da Israele, che prima identifica una minaccia o un’opportunità, quindi schiera le truppe e infine capisce cosa fare. Lo Stato ebraico, secondo l’analista, «ha una definizione in continua evoluzione di cosa significhi sicurezza e difesa e una frontiera in continua espansione a Gaza, in Cisgiordania e ora in Siria e Libano». Tel Aviv, per Zonszein, «nutre legittime preoccupazioni per la propria sicurezza» ma «il rischio è che finisca per aggrapparsi al territorio: le ragioni di sicurezza sono diventate accaparramenti di terre». Tuttavia, per il politologo israeliano Ori Goldberg, «non c’è alcuna visione», soltanto «valori predatori». «È la nostra nuova dottrina di sicurezza: facciamo quello che vogliamo, quando vogliamo, e non ci prendiamo responsabilità».
È il trionfo della politica di Netanyahu, che subito dopo gli attentati di Hamas sembrava impensabile potesse restare premier. Oggi invece il primo ministro israeliano più longevo della storia non ha veri ostacoli alla sua permanenza al potere, anzi. Con il ritorno dell’amico Trump alla Casa bianca può sperare di colpire al cuore l’Iran e di costruire davvero il suo “nuovo” Medio Oriente, con la sola “piccola” seccatura di porre fine prima o poi all’ecatombe di Gaza, tornando a frustrare ogni ambizione di indipendenza dei palestinesi.
Mamma li turchi
Se per Israele la caduta di Assad si è tramutata in una nuova opportunità, per la Turchia invece si tratta di una vera e propria vittoria. Ankara è rimasta, negli anni, la più strenua sostenitrice dell’opposizione siriana, sfruttando le varie milizie per contenere l’avanzata dei gruppi curdi. La presa di Damasco e la sconfitta di Hezbollah permettono invece al presidente Recep Tayyip Erdogan di espandere l’influenza turca sia a sud che a nord.
Il mantenimento in vita del regime da parte di Russia e Iran aveva infatti costretto Ankara, attraverso il processo di Astana, a mantenere buone relazioni con Mosca e Teheran per ogni eventuale mediazione con il regime di Damasco. Questo aveva inevitabilmente influenzato la postura turca anche in altre crisi che coinvolgono la Russia, come l’Ucraina, la Libia o il Mar Nero, e l’Iran, come il Nagorno-Karabakh.
Ora però i ruoli si sono invertiti: il Cremlino e la Repubblica islamica dovranno passare da Ankara se vorranno tentare di difendere i propri interessi nel Paese arabo, ossia le basi militari per Mosca e le partecipazioni nelle aziende di Stato e le proprietà fondiarie e immobiliari per Teheran. Un ruolo che Erdogan proverà certamente a svolgere anche con l’Europa, gestendo il flusso dei rimpatri, e gli Stati Uniti, offrendosi come garante della sicurezza nella zona.
Ma per riuscire davvero a giocare questa partita, dopo la guerra, in Siria la Turchia dovrà vincere anche la pace, assicurando stabilità nella fase post-conflitto con il regime e impedendo al Paese di sprofondare ulteriormente nella violenza. Il primo passo sarà convincere milioni di rifugiati a tornare alle proprie case, il che potrà avvenire soltanto se la sicurezza sarà garantita anche alle minoranze. Questo vorrà dire tenere unita la Siria, coinvolgendo i curdi, con cui bisognerà riaprire il dialogo.
Il rischio altrimenti sarà di trovarsi di fronte a un anti-Iraq, stavolta con una maggioranza araba-sunnita sostenuta da una potenza vicina (in questo caso la Turchia) divisa al proprio interno in fazioni, in perenne lotta con la minoranza da cui provengono i principali sostenitori del vecchio regime (in questo caso gli Alawiti), con un Kurdistan che rivendica la propria legittima autonomia, senza abbandonare il sogno dell’indipendenza e della riunificazione con gli altri territori curdi in Turchia, Iraq e Iran. Uno scenario che alimenterebbe le tensioni, invece di attenuarle.
La crisi dell’impero persiano
Chi esce certamente sconfitto dalla partita siriana invece è l’Iran, per cui è innegabile che il 2024 sia stato un “annus horribilis”. A dire la verità, la tragedia della politica regionale iraniana era cominciata a gennaio in maniera abbastanza positiva per Teheran. Il suo principale avversario, Israele, sembrava intrappolato in un conflitto senza fine, che ne alimentava l’isolamento internazionale, mentre il riavvicinamento mediato qualche mese prima dalla Cina con l’Arabia Saudita, l’ingresso nei Brics e la comune indignazione per quanto accadeva nella Striscia, in nome della solidarietà tra musulmani, contribuiva a mettere fine all’emarginazione internazionale della Repubblica islamica. Da allora però tutto è cominciato ad andare storto.
Proprio il 2 gennaio Tel Aviv ha ucciso in Libano Saleh al-Arouri, vicecapo di Hamas e interlocutore chiave di Teheran. Quindi, il 1° aprile, Israele ha massacrato il comandante dell’intelligence dei Pasdaran, Mohammad Reza Zahedi, e i suoi vice in Siria, uccidendo il 27 settembre il suo successore, Abbas Nilforoushan, nel raid a Beirut in cui è morto anche il leader storico di Hezbollah, Hassan Nasrallah. A seguito della rappresaglia per l’attacco al consolato iraniano di Damasco, il 19 aprile Tel Aviv ha attaccato direttamente una base aerea vicino a Isfahan. Il 19 maggio poi morirono in un incidente il presidente, Ebrahim Raisi, e il ministro degli Esteri, Hossein Amir-Abdollahian, entrambi fedelissimi della Guida suprema, l’ayatollah Ali Khamenei. Quindi, il 31 luglio, durante l’insediamento del successore di Raisi, Masoud Pezeshkian, lo Stato ebraico ha ucciso a Teheran il capo di Hamas, Ismail Haniyeh, procedendo a fine settembre all’invasione del Libano, che con una serie di raid dell’Idf ha portato all’eliminazione di gran parte del gruppo dirigente di Hezbollah. Un massacro a cui Teheran ha risposto il 1° ottobre con un attacco missilistico contro Tel Aviv, che ha reagito il 26 dello stesso mese colpendo le difese aeree iraniane. Il tutto culminato l’8 dicembre con la caduta di Damasco, la prima capitale visitata da Khamenei quand’era solo presidente nel 1984. Un disastro per il cosiddetto “Asse della Resistenza”, ribattezzato dai detrattori di Teheran il nuovo “impero persiano”, a cui resta oggi il solo (e non è poco) sostegno di alcune milizie in Iraq e degli Houthi in Yemen. Già perché il fronte dell’instabilità va ben oltre la Siria.
L’ago della bilancia nel Golfo
Il volto del “nuovo” Medio Oriente non dipenderà infatti solo da Israele, Turchia e Iran. Fondamentale per capire dove penderà l’ago della bilancia sarà l’atteggiamento degli Stati arabi, in primis del Golfo. Non solo a livello diplomatico ma in tema di ricostruzione della Siria, una torta stimata tra i 400 e i mille miliardi di dollari tra ripristino delle infrastrutture danneggiate e nuovi progetti di sviluppo. Dal 2021, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Arabia Saudita ed Egitto si sono spesi molto per riammettere Damasco nella Lega araba e non è un caso che le delegazioni diplomatiche si siano affrettate a mettersi in contatto con i nuovi signori della capitale.
Ma capire dove l’attivismo di Teheran porterà la Repubblica islamica sarà importante anche per gli altri Paesi della regione e non solo. L’appoggio alla guerra degli Houthi nel Mar Rosso per costringere l’Occidente a fermare Israele, ad esempio, ha danneggiato gravemente l’Egitto, che ha già svalutato quattro volte la propria moneta dal 2022 e che ora comincia a mettere sul mercato persino le aziende dei militari.
Malgrado la continua rivalità con l’Iran poi, Riad non intende riaccendere il conflitto in Yemen, dove si è rotta i denti per quasi un decennio e c’è da scommettere che chiederà alla nuova amministrazione americana di non riprendere lo scontro con Teheran, puntando invece sugli investimenti della “Vision 2030” e sullo sportswashing miliardario dei Mondiali di calcio Fifa 2034. In cambio però gli Usa del Trump-bis rilanceranno gli Accordi di Abramo per la normalizzazione con Israele, un altro grande affare sulla pelle dei palestinesi.
Tuttavia, al di là degli appetiti predatori interni ed esterni, esiste ancora una possibilità di vero cambiamento nella regione. È data dalla speranza del popolo siriano di poter finalmente decidere da sé il proprio futuro. Per farlo però tutte le potenze straniere dovrebbero ritirarsi dal Paese, accettandone la volontà di autodeterminazione, e le varie fazioni dovrebbero essere tutte disarmate. Così assisteremmo davvero alla nascita di un nuovo Medio Oriente. Ma chi potrebbe garantire, o meglio imporre, una soluzione del genere? Sembra solo un gran bel sogno, eppure fino a poco fa anche cacciare Assad lo era.