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Home » Esteri

Ucraina, Europa, America, Iran: ecco cosa dobbiamo aspettarci dall’anno che verrà

Immagine di copertina
REUTERS

Possiamo confidare nella pace in Ucraina? L’Europa saprà rendersi finalmente autonoma? Negli Usa l’era Trump è già tramontata? Il regime iraniano cadrà sotto le proteste? E come sarà il ritorno di Lula in Brasile? Ecco cosa dobbiamo attenderci dal 2023

Se ne va un anno di guerra; e s’annuncia un anno di guerra. Il 24 febbraio l’invasione ci colse quasi di sorpresa, nonostante mesi di allarmi e di preparativi. Adesso l’invasione pare non potere avere fine, essersi incancrenita e cronicizzata.

Dal conflitto in Ucraina non s’intravvede una via d’uscita. E, anzi, trecento giorni e passa dopo l’inizio dell’aggressione russa, già si prospetta una stagione, all’uscita dall’inverno, di offensive e controffensive.

La pace ci coglierà quando saremo ormai rassegnati alla guerra? Possiamo sperarlo. Non abbiamo motivo di crederlo.

Non c’è al momento un’iniziativa diplomatica di pace, o di tregua, strutturata: non si muovono in tal senso né gli Stati Uniti né la Cina, le uniche due potenze globali che possono condizionare i comportamenti di Russia e Ucraina; l’Europa non fa il peso, e non ha autonomia rispetto a Washington; attori di buona volontà, ma comprimari in questo contesto, Papa Francesco, il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan offrono i loro buoni uffici.

Ma la “pace del grano” conclusa a Istanbul il 22 luglio, per consentire l’export dei cereali ucraini, è l’unico risultato concreto stabile finora raggiunto. 

La guerra ha conosciuto varie fasi. Nel primo mese, si pensava che l’invasione potesse risolversi con la disfatta dell’Ucraina e c’era una certa urgenza di avviare negoziati.

Ma, alla fine di marzo, quando i russi si ritirarono dal nord dell’Ucraina e abbandonarono l’idea, se mai l’avevano avuta, di prendere Kiev, l’Occidente e i suoi vari corpi della governance internazionale, il G7, la Nato, l’Ue, entrarono nel mood, in cui sono tuttora, della “lunga guerra”, da combattere fuori campo, indebolendo la Russia con sanzioni e aiutando l’Ucraina anche con l’invio di armi.

In primavera e per parte dell’estate, il conflitto vide l’avanzata sul terreno – mai, però, con ritmi da blitz krieg –  delle truppe russe, che occuparono il Donetsk e il Lugansk, le repubbliche filo-russe del Donbass già auto-proclamatesi indipendenti, e anche la aree di Zhaporizhzhia e di Kherson, la cui annessione fu proclamata a fine settembre dopo referendum farsa.

Era ormai in atto la controffensiva ucraina, che ha portato alla liberazione di Kharkiv, nel nord-est, ma soprattutto di Kherson, nel sud-est. Ed è a quel punto che è scattata la fase attuale, delle raffiche di attacchi russi con aerei, droni e missili, sulle infrastrutture energetiche ucraine, per fiaccare lo spirito di resistenza degli ucraini all’arrivo del Generale Inverno, esponendo la popolazione civile al gelo e al buio. 

Il conflitto ha già fatto, secondo stime occidentali, centinaia di migliaia di vittime al fronte, soldati caduti o feriti; e migliaia di vittime civili, centinaia di bambini. I due protagonisti, i presidenti russo Vladimir Putin e ucraino Volodymyr Zelensky, non si sono mai parlati in dieci mesi e non pare che intendano farlo a breve.

Chi muoverà un passo verso la pace? Chi dirà una parola di tregua? Chi è nelle condizioni di farlo è il presidente Usa Joe Biden: ha davanti a sé un anno senza l’ingombro d’elezioni e di campagne elettorali; ha un Congresso in cui i repubblicani non vogliono più dare “assegni in bianco” a Kiev; e potrebbe avere l’ambizione di legare il suo nome a una cessazione dell’ostilità che non premi l’invasore e che non assecondi gli oltranzismi degli aggrediti. Biden vorrà farlo? Saprà farlo? Il 2023 ce lo dirà. 

Dalla pandemia al Qatar
Semmai ce ne fosse bisogno, la geo-politica del pallone non lascia dubbi: l’Europa non se la passa bene. Dal 2002, cioè dai Mondiali in Giappone e Corea del Sud, la Coppa del Mondo era sempre stata vinta dalla squadra di un Paese dell’Ue: dopo il Brasile, Italia, Spagna, Germania, Francia, cioè il quadrilatero calcistico dell’Unione europea; e addirittura, nel 2006 in Germania e nel 2018 in Russia, tutte e quattro le semifinaliste erano state europee (Italia, Francia, Germania e Portogallo e poi Francia, Croazia, Belgio e Inghilterra, che non aveva ancora fatto la Brexit). Questa volta, invece, il titolo se n’è tornato, vent’anni dopo, in America latina, in Argentina; e c’erano solo due semifinaliste Ue, Francia e Croazia.

Dunque, Qatar 2022 certifica un aspetto, certamente non grave, ma appariscente, del disagio, dell’impaccio, della crisi europea. 

Doveva essere il Mondiale della denuncia della discriminazione e dei misfatti dell’Emirato, almeno dal punto di vista del rispetto dei diritti umani, sociali e di genere. Invece, i soloni del calcio hanno imposto la sordina a ogni forma di protesta, per quanto giusta e civile e non violenta fosse.

E, oltre che con la sconfitta sul campo, Qatar 2022 si chiude, a maggiore scorno di noi europei, nel segno della corruzione nelle istituzioni di Bruxelles: pagano gli emiri, e non solo; ma i soldi li prendono gli eletti del popolo, i nostri rappresentanti.

Verrebbe da ricordare che, a volere guardare la pagliuzza nell’occhio del vicino, non si vede la trave nel proprio. Ma qui non ci sono pagliuzze: la discriminazione, come la corruzione, sono due cancri che corrodono l’umanità ovunque nel mondo: umiliano e mortificano chi ne patisce le conseguenze; squalificano e infangano chi le pratica. 

Il Vecchio Continente, che talora dimostra l’età che ha, ne ha viste di tutti i colori nel XXI Secolo: successi – l’entrata in vigore dell’euro, la moneta unica, e l’allargamento ai Paesi dell’Europa dell’Est, un modo per ancorarli alla democrazia, con il risultato, però, di zavorrare l’integrazione –  e insuccessi – il fallimento del tentativo di dotarsi di una Costituzione, surrogata da quell’obbrobrio giuridico-istituzionale del Trattato di Lisbona –; la crisi economica del 2008/2012, che ha fatto danni gravi; la Brexit, la pandemia, ora la guerra in Ucraina con i suoi succedanei, crisi energetica e ritorno dell’inflazione. 

Alla pandemia, l’Ue ha saputo reagire con un colpo di reni senza precedenti nella sua storia, muovendosi in fretta e bene: ha messo in comune il debito contratto per rinforzare i sistemi sanitari nazionali e per fare ripartire le economie. Risultato: il Next Generation Eu e il nostro Pnrr.

Invece, la guerra non ha visto una reazione altrettanto rapida e coesa. Questo perché l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha messo in evidenza due debolezze dell’Ue di cui tutti erano a conoscenza, ma cui nessuno aveva mai voluto davvero por mano: l’energia e la difesa; cioè, da una parte, la dipendenza, per le forniture di gas, dalla Russia (valeva per molti Paesi, fra cui la Germania e l’Italia, i due più popolosi); e, dall’altra, la dipendenza quasi totale dagli Stati Uniti per la nostra sicurezza.

Di Unione dell’Energia e di Europa della Difesa si parla da anni: la prima è stata impostata e avviata nella seconda metà degli anni Dieci, ma resta incompiuta, come la crisi in atto dimostra; la seconda doveva essere il grande tema dell’attuale legislatura della Commissione e del Parlamento europei, se non ci fossero stati la pandemia prima e la guerra ora.

Il conflitto ha reso evidenti tutte le carenze dell’integrazione europea: l’Ue è un gigante economico, dalle dimensioni comparabili a quelle di Usa e di Cina, in termini di Pil cumulato. Ma dipende dall’import di energia, a meno di fare la scelta del nucleare come la Francia: nel mondo non è facile trovare energie fossili sicure e “democratiche”, visto quali sono i Paesi esportatori (si salvano, giusto giusto, Norvegia e Stati Uniti, ma a che prezzi!). E, militarmente, dipende dagli Stati Uniti nell’ambito dell’Alleanza atlantica.

Significativo che Mosca voglia garanzie da Washington per il rispetto delle “esigenze di sicurezza” all’origine dell’invasione dell’Ucraina, dopo che le garanzie europee franco-tedesche sugli Accordi di Minsk del 2014 e 2015 si sono rivelate inadeguate.

Può darsi che il conflitto e l’inverno inneschino scelte europee più efficaci e radicali in materia d’energia: diversificazione degli approvvigionamenti, marginalizzazione delle fonti fossili e incentivazione delle energie alternative, anche per rispondere alle altre minacce incombenti, cambiamento climatico e riscaldamento globale, quelle che mettono a rischio di scomparsa milioni di specie sul Pianeta, compreso l’uomo.

Il conflitto in Ucraina finirà, ma la “battaglia del clima” durerà generazioni, se ve ne saranno ancora. Sul fronte della difesa, invece, la guerra fa da tappo: l’Occidente in senso lato, la Nato e l’Ue, ma anche Canada e Oceania, Giappone e Corea del Sud, s’è rannicchiato sotto la copertura statunitense; e lì resterà finché girano minacce, anche solo evocate per esorcizzarle, di conflitto nucleare.

Ma bisognerà poi porsi il problema d’una capacità di difesa europea per non continuare a essere subordinati alle scelte americane, anche quando esse ci impongono sacrifici economici. Tanto più nella prospettiva di un mondo in cui l’Atlantico diventi più largo del Pacifico e l’attenzione di Washington sia rivolta più a Pechino che a Mosca, per non parlare di Bruxelles, o Berlino, Parigi, Roma.

L’Unione dell’Energia e l’Europa della Difesa non sono però risultati che «cadranno dal cielo», per citare Altiero Spinelli sull’Unione europea: per renderli possibili e concreti, bisogna che noi europei capiamo che la nostra vera sovranità, oggi, è quella europea, mentre quelle nazionali sono solo ingannevoli simulacri) e che il consolidamento dell’Unione passa per il superamento dei vincoli dell’unanimità e del diritto di veto. Ci arriveremo? Sicuramente. Ma non nel 2023. 

Intanto alla Casa Bianca…
Forse non è il capolinea per Donald Trump. Forse è solo l’ultimo atto di un’indagine politica. Ma fa impressione sentire accusare l’ex presidente degli Stati Uniti d’incitamento all’insurrezione e di altri crimini federali. È la prima volta nella storia degli Usa che la Camera fa un passo del genere: chiedere al Dipartimento della Giustizia di incriminare un ex comandante in capo.

L’iniziativa, essenzialmente politica, della commissione d’inchiesta della Camera, che ha indagato per 18 mesi sulla sommossa del 6 gennaio 2021, quando migliaia di facinorosi sobillati dall’allora presidente diedero l’assalto al Campidoglio di Washington per rovesciare l’esito delle presidenziali, potrebbe non avere seguito.

Ma Trump è già braccato: dai giudici federali per i documenti riservati sottratti dalla Casa Bianca e mai riconsegnati all’Archivio nazionale (c’è voluta una perquisizione dell’Fbi nella sua residenza di Mar-a-lago in Florida per recuperarli); dai giudici statali della Georgia per le pressioni esercitate sulle autorità locali perché sovvertissero i risultati elettorali; dai magistrati ordinari di New York per i conti e le tasse della Trump Organization, la holding di famiglia.

Infine, le sue dichiarazioni fiscali, difese per sei anni con le unghie e con i denti, sono da qualche giorno, con la benedizione della Corte Suprema, nelle mani d’una commissione della Camera, che potrebbe anche renderne pubblici stralci imbarazzanti. 

Il magnate ex presidente, che è specialista in fughe in avanti, ha già annunciato la sua candidatura alla nomination repubblicana a Usa 2024. Ma il voto di midterm dell’8 novembre ha visto crescere, nelle fila repubblicane, un ex trumpiano, ora anti-Trump – Ron DeSantis – e ha dimostrato, dall’Arizona al Nevada, dalla Georgia alla Pennsylvania, che i trumpiani vincono le primarie ma perdono le elezioni.

Coi repubblicani usciti ammaccati dal midterm – aspettavano la “onda rossa”, hanno perso al Senato e vinto di misura alla Camera – e alla prese con le paturnie presidenziali, il presidente Biden, che deve ancora sciogliere la riserva sulla sua ricandidatura a Usa 2024, si gode un buon momento: erano decenni che un presidente in carica democratico non faceva così bene a metà mandato. 

C’è chi si chiede a Washington come mai i democratici entrino nel 2023 sorridendo e i repubblicani digrignando i denti: il Congresso alle ultime battute sta licenziando il bilancio senza rischiare shutdown delle attività federali; e Biden ha appena potuto firmare la legge che dà legalità federale ai matrimoni interraziali e omosessuali, blindandoli da colpi di coda reazionari della Corte Suprema dopo quello sull’aborto – la Costituzione del 1776 non ne fa, ovviamente, cenno –. Piccoli successi che fanno morale, in attesa di affrontare nell’anno nuovo, i problemi grossi: l’inflazione, la Cina, la guerra – o la pace? – in Ucraina. 

Un anno senza elezioni
Il 2023 è un anno, sulla carta, senza elezioni politiche o presidenziali nei Paesi che più contano nello scenario internazionale, anche se la situazione politica, e le consuetudini, in alcuni Paesi, come la Gran Bretagna, non escludono che si vada alle urne. Il 2024, invece, sarà un anno campale, dal punto di vista elettorale: le presidenziali negli Usa, le parlamentari nell’Ue.

Le elezioni, però, non sono l’unica fonte di incognita politica e di fermento. In Iran, ad esempio, ci s’interroga sull’impatto che la fiammata di proteste in atto dalla metà di ottobre avrà sugli assetti della Repubblica teocratica, che nel XXI Secolo altre volte è stata scossa da fremiti insurrezionali, tendenzialmente laici e progressisti, che si sono però poi stemperati e spenti.

In tutta la regione, nel Medio Oriente, non mancano gli spunti d’inquietudine. L’ennesimo ritorno, in Israele, di Benjamin Netanyahu riaccende le tensioni con Teheran e torna ad allontanare soluzioni alla questione palestinese, mentre la Siria vive un conflitto ormai endemico e cronico e l’Iraq resta una potenziale polveriera. 

In Brasile, il primo gennaio segna l’apertura di una nuova era, che è un ritorno al passato: s’insedia alla presidenza Luiz Inacio Lula da Silva, già presidente per due mandati dal 2003 al 2011 e poi finito sotto accusa e in prigione per un’inchiesta di corruzione politicamente motivata, che lo tenne fuori dalla competizione elettorale nel 2018, quando prevalse Jair Messias Bolsonaro, omofobo e ultra-conservatore, negazionista della pandemia (anche se il Covid a momenti se lo portava via) e incline alla violenza.

Nelle elezioni di ottobre, Lula ha sconfitto Bolsonaro: dopo Trump, il 2022 ci ha liberato di molti suoi cloni: Rodrigo Duterte nelle Filippine, Boris Johnson nel Regno Unito, Bolsonaro in Brasile. Non ne sentiremo la mancanza, nel 2023.

LEGGI ANCHE ESCLUSIVO – Guerra nucleare, l’ex consigliere di Obama a TPI: “Ecco cosa farebbe Biden”

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