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Home » Esteri

Crisi e oscurantismo: ecco come si vive in Afghanistan a un anno dal ritorno dei talebani

Immagine di copertina
credit: Lorenzo Tugnoli/The Washington Post/contrasto

Il 2 agosto Joe Biden annuncia al mondo la morte di Al-Zawahiri, capo di Al-Qaida e stratega degli attacchi dell’11 settembre, ucciso a Kabul da un drone americano. Il 15 agosto i talebani festeggiano il primo anniversario della presa del potere. Se la morte di Al-Zawahiri chiude una storia lunga vent’anni, la fuga degli Stati Uniti da Kabul e la vittoria dei talebani ne ha aperto un’altra che nessuno sa quanto durerà. In mezzo, il popolo afghano.

S&D

“Siamo liberi”

La bandiera bianca dell’Emirato islamico campeggia all’ingresso di quella che fino ad un anno fa era l’ambasciata degli Stati Uniti. Un complesso monumentale, lasciato incompiuto dalla precipitosa fuga dell’agosto 2021, e oggi vuoto. Le mura di cinta un tempo ospitavano messaggi in favore dei valori di cui l’Occidente si faceva portatore: democrazia, libertà, diritti umani. Oggi sono coperte di slogan che inneggiano alla sconfitta dell’invasore e alla vittoria dell’Islam. Il 15 agosto, davanti a quelle mura, i talebani celebrano il primo anniversario della presa del potere. Il piazzale porta il nome di Ahmad Shah Massoud, il mujaheddin del Panshir, nemico giurato del primo Emirato islamico. Qui i talebani convergono da tutta la città in un tripudio di blindati, carri, jeep, carichi di combattenti che volteggiano le armi sottratte agli eserciti fuggiti solo un anno fa. L’accompagnamento sonoro è costituito dai clacson e dalle grida «Allah u akbar», accompagnate dalla costante presenza del taranà, l’unica forma di musica permessa, che consiste in canti dal tono epico di sole voci maschili modificate elettronicamente. Bambini avvolti nella bandiera bianca dell’Emirato che riporta la shahada – la testimonianza di fedeltà all’Islam – vengono sollevati sopra i mezzi militari ed esposti alle fotografie di tutti. Anche della stampa straniera.

Dal giorno del nostro arrivo a Kabul, il 4 agosto, è la prima volta che vediamo questa disponibilità da parte dei talebani a farsi fotografare. Di solito, non è così. Bisogna stare attenti a dove si punta l’obiettivo. Ma oggi è un giorno di festa qui, e tutto il mondo lo deve vedere. «Questo è il nostro giorno della liberazione, stiamo celebrando la vittoria dell’Emirato islamico dell’Afghanistan», ci dice Eziat. «Allah ci ha donato questa vittoria. Abbiamo cacciato ventiquattro Paesi da tutto il mondo che volevano solo occupare la nostra terra», gli viene dietro Ahmad Asmar. «Siamo liberi, nessuno al mondo è più libero di noi. Che Allah preservi la nostra libertà», conclude Sharif, il più giovane dei tre.

Senza soldi

In realtà, basta allontanarsi di qualche isolato per capire che, in giro per la città, non c’è gran voglia di festeggiare. Le strade sono vuote. Sembra che gli abitanti di Kabul abbiano preferito sfruttare il giorno di festa per stare a casa piuttosto che per scendere in piazza. Chiediamo ad Anas, il nostro fixer, quale sia la situazione nelle altre città del Paese. La sua risposta è lapidaria: «Come qui, anche meno». Anche a Kandahar, la culla del movimento talebano? «Sì, sì. Poca gente anche lì. Ci sono solo loro. È una festa fatta dai talebani per i talebani», aggiunge Anas ridendo.

Nonostante i proclami dell’Emirato, a Kabul la popolazione non sembra sostenere il nuovo regime. Perlomeno, ha altro a cui pensare. Solo due giorni prima delle celebrazioni, un gruppo di attiviste è sceso in strada per chiedere il rispetto dei loro diritti allo studio e al lavoro. La polizia ha reagito sparando in aria. Per loro il 15 agosto non c’è nulla da festeggiare. Ma, soprattutto, dalla presa del potere in poi l’intera popolazione è stata travolta da una crisi economica senza precedenti. Per le strade della capitale afghana i suoi segni sono non solo visibili negli eserciti di mendicanti ad ogni angolo di strada, ma tangibili. «Se le banconote sono troppo deteriorate non le prende nessuno», ci dice Suleiman, uno studente di legge di 21 anni, a cui chiediamo indicazioni per Sarai Shahzada, il mercato dei cambia valute di Kabul. Già, l’Afghani, la moneta del Paese. Quando tieni una banconota devi stare attento perché si sbriciola. Gli stessi biglietti sono in circolo da troppo tempo senza che vengano ricambiati: quelle nuove, non vengono più stampate. «Per questo sono ridotte così. A volte anche i cambia valute rifiutano di prenderle per quanto sono rovinate», racconta Suleiman. La distruzione materiale della moneta afghana è uno dei tanti segni della crisi economica. Anche prima dell’arrivo dei talebani, le banconote venivano stampate all’estero. Da un anno a questa parte, però, i contratti non esistono più e le banconote in circolo sono sempre le stesse.

Il mercato di Sarai Shahzada, che sorge sulle rive del fiume, è una specie di termometro della situazione del Paese. La sua struttura è l’immagine della sua complessità. Un formicaio dove si intrecciano scale, passerelle, balaustre calpestate da centinaia di persone. Un labirinto a cielo aperto dove, in minuscoli esercizi o semplicemente in strada, cambiano dollari, euro, afghani, ogni tipo di valuta. Incontriamo Haji Hamadullah Hamdard, da 33 anni portavoce del mercato: «È vero, la moneta non è più stampata. Le banconote sono vecchie e si stanno deteriorando. Ma speriamo che presto la Banca centrale firmi un contratto con un Paese affinché inizi a stamparle per noi». Gli chiediamo del perché ci siano file così lunghe davanti alle banche: «Sono stati messi dei limiti, si possono ritirare solo 200 dollari a settimana. C’è un serio problema». «Siamo in crisi», continua. «Il mondo ha tagliato le relazioni con noi e noi dobbiamo ricostruirle. Con la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale e le Banche centrali degli altri Paesi. È il solo modo per uscire da questa situazione».

Il crollo dell’economia afghana ha travolto il Paese. I negozi hanno problemi nell’importare forniture e i clienti non hanno i soldi con cui pagare. Il Pil è caduto del 34 per cento dal 2020 al 2022, secondo le proiezioni della Banca Mondiale. Le conseguenze ovviamente ricadono sulla popolazione. Per l’Onu oltre il 90 per cento degli afghani non mangia a sufficienza e almeno la metà soffre di malnutrizione. Una crisi umanitaria che, secondo l’International Rescue Committee potrebbe provocare più morti che gli ultimi vent’anni di guerra.

Vietato domandare

Da un anno i talebani e la comunità internazionale si rimpallano le responsabilità del disastro. Per gli Stati Uniti il regime è incapace di gestire il Paese. Per il regime le cause sono nelle politiche degli ultimi vent’anni, nelle sanzioni imposte all’Afghanistan e nel blocco di 9 miliardi di dollari da parte della Banca centrale. Un muro contro muro che si traduce in una crisi umanitaria senza precedenti. Quando usciamo dal mercato incontriamo di nuovo Suleiman che sta tornando a casa: «In questo momento va molto male, la gente è diventata molto povera. Non ha soldi per comprare cibo, vestiti. Non ha nulla. A noi giovani hanno tolto anche la voglia di vivere».

Di questa crisi, però, i talebani non fanno parola. Tanto meno durante i festeggiamenti del 15 agosto. Mentre i soldati della rivoluzione sono in strada, gli alti esponenti del regime mettono in scena la propria autocelebrazione negli studi della televisione di Stato. Dopo molti misteri e temporeggiamenti hanno deciso di invitare anche la stampa straniera. Non era scontato. Sono giorni in cui nessuno degli esponenti di governo rilascia interviste. Tutti temono di esporsi o dire una parola sbagliata in un momento cruciale per la vita dell’Emirato. Per raggiungere il luogo della conferenza, uno studio televisivo spoglio e polveroso, bisogna passare una miriade di check point, controlli, perquisizioni. Lo stato di militarizzazione della città, di solito già su livelli altissimi, è stato innalzato a livelli esasperanti. Alla conferenza non si possono fare domande, solo assistere al bilancio di un anno di governo.

I vari ministri sfilano sul palco uno dopo l’altro parlando dei successi dei propri dicasteri. Molti di loro, forse poco noti all’Occidente, sono protagonisti del movimento sin dalla sua nascita nel 1994. Alcuni hanno combattuto gli Stati Uniti per decenni, altri hanno passato anni nel carcere di Guantanamo. L’accento è messo soprattutto sul ritorno della sicurezza: oggi, dichiarano con orgoglio le autorità dal palco, «si può andare ovunque in Afghanistan perché il regime ha pieno controllo del Paese». Non si può negare. Ma è anche vero che, fino a un anno fa, la causa dell’instabilità erano gli stessi che sono oggi al potere. Ovviamente i talebani replicano che era l’occupazione straniera a costringerli a quelle azioni. Non appena gli invasori sono andati via, sono finiti anche gli attentati. Insomma, in materia di sicurezza si replica il muro contro muro internazionale già visto altrove.

Bombe continue

Il giorno del nostro arrivo, in realtà, è coinciso con l’inizio di una campagna di attentati dell’Isis contro gli sciiti che si preparavano a festeggiare l’Ashura. In una settimana, solo a Kabul, le bombe di Daesh esplose nelle moschee e nei quartieri sciiti hanno provocato la morte di decine di persone. E le esplosioni sono continuate anche nei giorni successivi contro clerici vicini al regime come Sheikh Rahimullah Haqqani, a testimonianza della guerra in corso tra i talebani e il sedicente “Stato islamico”.

E non c’è solo Daesh a minare i proclami sulla sicurezza dell’Emirato. Oltre al conflitto in atto nel Panshir contro l’Alleanza del Nord guidata dal figlio di Massoud, in tutto il Paese ci sono una serie di sotterranei conflitti interconfessionali tra vari gruppi. La bomba che esplode il 17 agosto in una moschea nel nord di Kabul, e che uccide venti persone tra cui l’imam, sarebbe parte di una guerra tra sufi e salafiti. Insomma, se il regime fa della sicurezza la sua bandiera, le sfide in realtà sono ancora molte. Nel frattempo, a morire, sono sempre gli afghani. Non una parola neanche su questo alla conferenza stampa.

Lotte intestine

Il 15 agosto l’Emirato si è presentato come un blocco monolitico. Eppure, nel giorno delle celebrazioni della grande vittoria contro gli Stati Uniti, ci sono state assenze importanti. Su tutti Abdul Ghani Baradar, vice primo ministro del governo, capo del gruppo di Kandahar ma soprattutto tra i fondatori del movimento nel lontano 1994. E poi Sirajuddin Haqqani, potentissimo Ministro degli Interni, figlio del leader mujaheddin Jalajuddin Haqqani e a capo della rete Haqqani. Un gruppo autonomo dai talebani che, negli ultimi dieci anni, ha teorizzato e messo in pratica la guerra di attentati suicidi contro gli occupanti occidentali. Per questo sulla sua testa pende una taglia da 10 milioni di dollari dell’Fbi.

Anche se tenute sotto silenzio, le assenze di Baradar e Haqqani mostrano che il gruppo è tutt’altro che unito. Come ci racconta un giornalista locale che vuole rimanere anonimo, «è in atto è un vero e proprio scontro per la conquista del potere tra il gruppo Haqqani e il gruppo di Kandahar. Nell’ottica di questa lotta va letta anche la morte di Al-Zawahiri, stanato in una casa che sembra sia di proprietà di Haqqani, a cui è storicamente legato». Ufficialmente il regime nega di aver trovato il corpo del leader di Al-Qaida. Nei giorni successivi hanno delimitato l’area e minacciato chiunque volesse avvicinarsi. Per il giornalista «intorno alla sua morte ci sono due narrazioni. Nel primo caso l’uccisione di Al- Zawahiri nascerebbe da una soffiata da parte del gruppo di Kandahar per incastrare Haqqani. Nel secondo caso, che reputo molto più probabile, sarebbe stato Haqqani a vendere l’amico al- Zawahiri agli americani, per potersi accreditare in vista di uno scontro finale con Baradar».

Per frenare l’ascesa del giovane e ambizioso Haqqani, il gruppo di Kandahar può far leva sul sostegno del leader supremo Akhundzada, anche lui assente alle celebrazioni. Dalla sua nomina un anno fa, è rimasto nascosto nel suo ritiro di Kandahar, da dove regna come una sorta di re-sacerdote. Da anni, nessuno ne conosce il volto, di lui circolano solo vecchie foto. I suoi rari interventi in occasioni pubbliche avvengono con il capo coperto e spalle al pubblico o, più semplicemente, con messaggi radiofonici o proclami scritti. È lui la voce dell’ortodossia talebana, l’uomo che con un proclama ha deciso improvvisamente di sospendere la riapertura delle scuole femminili sostenuta da Haqqani. Ed è sempre lui, nell’ultimo messaggio pubblicato il 18 agosto, a dichiarare che «il mondo occidentale non vuole alcun limite ai diritti umani, per noi invece c’è. Ed è la legge islamica. E l’Emirato è pronto di nuovo a far la guerra agli Stati Uniti se dovessero provare ad interferire con la sharia in Afghanistan. Non c’è posto qui per i valori democratici».

Ad un anno dalla fuga degli Usa e dalla vittoria dei talebani, sembra sia rimasto ben poco dell’Occidente in Afghanistan. E sebbene la popolazione non supporti un regime che è profondamente diviso al suo interno, sembra che non ci siano alternative all’orizzonte. Come ci dice ancora il giornalista: «Nonostante le divisioni e i problemi, i talebani continueranno a governare per i prossimi anni perché non c’è alternativa. Anche se non li sostiene, il popolo ha ancora vivo nella mente la corruzione, gli abusi e la fuga ignominiosa del governo precedente. Non c’è alternativa».

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