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Home » Economia

L’Italia non è un Paese per madri lavoratrici: siamo la maglia nera in Europa

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Credit: Unsplash

L’Italia è all’ultimo posto in Europa per tasso di occupazione femminile. Nel nostro Paese quasi una lavoratrice su tre è impiegata part-time (spesso contro la sua volontà). E una donna su cinque, dopo essere diventata madre, esce dal mercato del lavoro.

Mettere in fila questi dati aiuta a comprendere quanto la nostra società sia ancora profondamente segnata dalla disparità di genere: l’uomo a lavorare, la donna a casa a occuparsi dei figli e uno Stato che troppo poco fa per supportarli.

“Mi sono licenziata perché con la seconda gravidanza sarebbe diventato impossibile conciliare il lavoro e la famiglia”, racconta Miriam, madre di Torino intervistata nell’ambito del rapporto Le Equilibriste, la maternità in Italia, realizzato dalla ong Save the Children. “Le mie figlie vanno al nido fino alle 12.15, quindi devo trovare un lavoro che non mi impegni più di quelle tre/quattro ore al giorno”, spiega invece Donatella, di Bari.

Numeri impressionanti
In Italia, nella fascia d’età tra i 20 e i 64 anni, lavora solo il 55% delle donne, a fronte di una media nell’Unione europea del 69,3%: un divario di quasi quindici punti percentuali che per gli uomini si riduce magicamente a sei (l’occupazione maschile è pari al 74% a livello nazionale, contro una media Ue dell’80%). Eppure le donne in Italia raggiungono livelli di istruzione maggiori rispetto agli uomini.

La crescita del lavoro femminile degli ultimi anni ha interessato quasi esclusivamente i settori in cui le donne erano già sovra-rappresentate. Le lavoratrici costituiscono l’85% degli occupati nel sociale, il 75% nell’istruzione e il 68% nella sanità, ma sono appena il 18% dei professionisti e il 28% dei manager.

Nel settore privato persiste una netta disparità salariale a sfavore delle donne lungo tutto il percorso di carriera, con un vantaggio retributivo maschile che oscilla intorno al 40% negli stipendi annuali e al 30% nelle retribuzioni giornaliere.

Questo gender gap si riflette anche sulle condizioni di lavoro. Nel nostro Paese solo il 6,6% degli uomini occupati ha un contratto part-time, mentre per le lavoratrici femmine la quota schizza al 31,3%. La metà delle donne impiegate a tempo parziale, inoltre, accetta o subisce questa forma contrattuale per necessità o per assenza di altre possibilità (si parla in questi casi di “part-time involontario”). Ed essere o meno madre incide molto: è impiegata part-time il 36,7% di chi ha figli, a fronte del 23,5% di chi non ne ha.

Ed eccoci al dato forse più rilevante: il rapporto di Save the Children rivela che nella fascia d’età compresa tra i 25 e i 54 anni, le donne senza figli che lavorano raggiungono il 68,7%, mentre fra quelle con due o più figli minori ha un impiego solo il 57,8%: una differenza di ben nove punti. Al contrario, per gli uomini della stessa età, il tasso di occupazione va dal 77,3% per coloro che sono senza figli, fino al 91,3% per chi ha un figlio minore e al 91,6% per chi ne ha due o più. In altre parole, diventare madre diminuisce le probabilità di lavorare, mentre diventare padre sembra aumentarle.

Non a caso, nel 72,8% dei casi le convalide delle dimissioni dei neogenitori riguardano le donne, che indicano come motivazione principale per la rinuncia al lavoro la difficoltà nel conciliare lavoro e cura del bambino.

Se questo è lo scenario nazionale, va detto peraltro che il quadro cambia radicalmente da Sud a Nord. Nel Mezzogiorno l’occupazione femminile è al 48,9% per le donne che non hanno figli e al 40% per le madri di due o più figli minori. Nel Centro Italia lavora invece il 74,4% delle donne senza figli e il 68,3% di coloro che hanno prole. E nelle regioni settentrionali siamo rispettivamente a quota 79,8% e 73,2%. Secondo l’Indice delle Madri elaborato dall’Istat per Save the Children, i territori in cui per le mamme è più facile vivere sono la Provincia Autonoma di Bolzano, l’Emilia-Romagna e la Toscana, mentre quelli in cui le condizioni sono più difficili sono Basilicata, Campania e Sicilia.

“In Italia si parla molto della crisi delle nascite, ma non si dedica sufficiente attenzione alle condizioni concrete di vita delle mamme, equilibriste di oggi, sulle quali grava la quasi totalità del lavoro di cura. Un Paese nel quale le madri sono ancora troppo in affanno, ancora diviso tra Nord e Sud. Occorre intervenire in modo integrato su più livelli”, osserva Daniela Fatarella, direttrice generale di Save the Children Italia.

“Oggi la nascita di un bambino rappresenta nel nostro Paese uno dei principali fattori di impoverimento. Bisogna sanzionare ogni forma di discriminazione legata alla maternità, rendere obbligatorio il family audit e promuovere l’applicazione piena della legge sulla parità di retribuzione. Occorre, inoltre, assicurare ai nuovi nati l’accesso ai servizi educativi per la prima infanzia così come alle cure pediatriche”.

Confronto Italia-Europa
L’Italia è la nazione europea in cui si diventa madri più tardi: a quasi 32 anni, a fronte di una media Ue di 29,7. Nel 2023 il nostro Paese ha registrato un nuovo minimo storico delle nascite, ormai stabilmente ferme sotto le 400mila all’anno (per dare un’idea, negli anni Sessanta in Italia nascevano oltre 900mila bambini all’anno).

Il numero medio di figli per donna è oggi pari a 1,2, molto lontano dal dato del 2010, quando era stato raggiunto il livello massimo degli ultimi vent’anni: 1,44. In Francia siamo a quota 1,68 e in Germania a 1,46.

Nel 2022, l’Eige (European Institute for Gender Equality) ha condotto un’indagine in ciascun Paese europeo sulle ore settimanali dedicate da donne e uomini alla cura dei figli. In Italia, nella fascia d’età 25-49 anni, una madre su cinque (il 20,5%) dedica oltre 10 ore al giorno (per 7 giorni alla settimana) alla cura dei figli, contro il 6% degli uomini.

Tuttavia è interessante notare che il 6% degli uomini si dedica ai figli a tempo pieno è un dato di gran lunga superiore a quanto avviene ad esempio in Germania (2,8%) e in Francia (3,8%): in entrambi questi Paesi è più bassa anche la percentuale delle donne (16,3% e 13,4%). Cosa significa? Che ai genitori tedeschi e francesi sono offerte  maggiori possibilità di accesso ai servizi (come l’asilo nido) e a un costo tale da incentivare uomini e donne rimanere nel mercato del lavoro anche con figli piccoli.

Dal 2019 a oggi più del 60% dei governi a livello globale ha adottato politiche finalizzate a influenzare il livello della fecondità. Nel rapporto di Save the Children si analizzano in particolare quattro Paesi: Francia, Finlandia, Germania e Repubblica Ceca.

Dal 2000 ad oggi, la Francia è l’unica nazione europea rimasta stabilmente vicina alla soglia di 2 figli per donna (benché dal 2015 il Paese abbia visto gradualmente scendere il suo tasso di fecondità). L’approccio di Parigi alla questione della natalità è incentrato su un articolato sistema di sostegno finanziario alle famiglie e sulla garanzia di accesso a servizi per l’infanzia di qualità e tarati su diverse esigenze familiari. I servizi scolastici ben organizzati e con orari favorevoli alle famiglie – insieme a una serie di bonus calibrati sul reddito e a un solido sistema di sostegno all’edilizia abitativa – svolgono un ruolo cruciale, ma un elemento significativo è rappresentato anche dalla riduzione dell’orario di lavoro a 35 ore settimanali.

La Finlandia, pur avendo registrato una flessione nell’andamento demografico nel corso del 2022, ha sperimentato tra il 2019 e il 2021 una netta ripresa del tasso di natalità. Il Paese due anni fa ha adottato una delle riforme sul congedo più innovative d’Europa, che prevede lo stesse quote di congedo per ciascun genitore (con la possibilità di trasferire parte della quota all’altro genitore), un congedo parentale complessivamente più lungo e una maggiore flessibilità nell’utilizzo. L’accesso ai servizi per la prima infanzia è inoltre garantito a una percentuale di bambini molto elevata, soprattutto nella fascia tra i 2 e i 3 anni (69,6%).

In Germania il tasso di fecondità è aumentato tra il 2020 e il 2021, ma ha avuto un drastico calo di nuovo nel 2022, passando da 1,58 a 1,46 figli per donna. Berlino ha previsto un supporto economico per le famiglie con figli e la possibilità di usufruire di un congedo parentale part-time mentre si lavora per il resto del tempo compensando la perdita di reddito al 67%. Inoltre, tutti i bambini a partire da primo anno di età hanno diritto a un posto in un asilo nido o in un servizio simile.

La Repubblica Ceca dal 2011 ha progressivamente aumentato il tasso di fecondità, fino ad arrivare a 1,83 figli per donna nel 2021, anche se nel 2022 anche qui il tasso è tornato a scendere. Il Paese, con un tasso di partecipazione ai servizi per l’infanzia 0-2 anni del 6% nel 2020, ha privilegiato un modello di cura tradizionale, favorendo lunghi periodi di astensione dal lavoro delle madri.

“In Italia – fa notare Antonella Inverno, responsabile Ricerca e Analisi Dati di Save the Children Italia – nonostante negli ultimi anni si sia passati da strumenti estemporanei a politiche strutturali come ad esempio con l’Assegno Unico, il rischio di misure una tantum pensate ad hoc per specifici target, come le famiglie numerose o le lavoratrici dipendenti, rimane alto”.

“La buona notizia è che rispetto al 2022 i divari territoriali sono diminuiti. Anche il valore complessivo dell’Italia come sistema Paese è aumentato, segno di una maggiore consapevolezza sul tema del supporto alla genitorialità dopo anni di dibattito pubblico. In questa direzione va anche il recente provvedimento che finanzia circa 25mila posti nella rete dei servizi educativi all’infanzia, anche se non siamo ancora agli obiettivi fissati inizialmente dal Pnrr. Non bisogna abbassare il livello dell’attenzione – mette in guarda Inverno – anche perché rispetto alla condizione delle mamme permangono forti disparità soprattutto tra il Sud e il Nord del Paese”.

LEGGI ANCHE: Il lavoro part-time non lo si sceglie, lo si subisce: ecco cosa dicono i numeri

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