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Home » Economia

Mangia, consuma, crepa: ecco quanto vale il business (iniquo) dell’agroalimentare

Immagine di copertina
Credit: Food for Profit

La filiera che va dalle fattorie ai piatti in tavola fattura oltre 600 miliardi all’anno in Italia. Ma il settore è segnato da speculazioni e disuguaglianze. A guadagnarci davvero sono pochi grandi colossi

Nella ricca Emilia-Romagna il paese di Castelnuovo Rangone, 15mila abitanti in provincia di Modena, è il quinto Comune con il reddito pro-capite più alto: 29.941 euro all’anno per ciascun contribuente. Al centro della piazza principale, tra il Torrione medievale e la chiesa di San Celestino, è posizionata una statua in bronzo che raffigura l’eroe di questa benestante comunità: non un patriota del Risorgimento o un principe rinascimentale, bensì un maiale. Un suino. Un porco.

La statua fu donata al Comune ventisette anni fa dall’Ente Esportazioni Carni Olandese come «segno di riconoscimento per la qualità del lavoro delle tante aziende di Castelnuovo impegnate nella lavorazione delle carni suine». E i castelnovesi, orgogliosi della loro tradizione contadina e norcina, decisero di posizionarla proprio lì, in bella vista nel bel mezzo del paese, quasi a voler ricordare ogni giorno a loro stessi che gli agi di cui godono derivano dal fango delle porcilaie.

Un po’ di numeri
Nel 2023 in Italia sono stati macellati poco meno di 10 milioni di maiali. Di questi, circa il 40% è stato macellato in Emilia-Romagna, dove in media ciascun allevamento ospita un migliaio di capi. Un altro 30% è stato macellato in Lombardia, dove si contano quasi 4 milioni di suini suddivisi su appena 2.400 aziende agricole: ci sono realtà, nel triangolo Brescia, Cremona, Mantova, con anche 2.500 esemplari rinchiusi in un’unica gigantesca porcilaia. Ma gli allevamenti di suini sono un’attività ampiamente diffusa in tutto il Paese, dal Friuli Venezia Giulia alla Sardegna, dalla Toscana all’Umbria. Non a caso, ogni regione ha i suoi salumi tipici: un comparto che a livello italiano vale oltre 8 miliardi di euro all’anno.

Alla Lombardia spetta il primato della densità anche per i bovini: dei 5 milioni e mezzo di vacche presenti sul territorio nazionale, più di un quarto si trova in questa regione. Nel 2023 in Lombardia sono stati macellati 650mila capi e sono state munte 6 milioni di tonnellate di latte, circa la metà della produzione italiana complessiva. Altri 800mila bovini sono stati macellati in Veneto, dove sono state prodotte 1,2 milioni di tonnellate di latte, mentre la Campania ha il record di allevamenti di bufalini (quasi 1.200 per un totale di oltre 300mila capi). Il settore lattiero caseario vale da solo complessivamente 17 miliardi di euro all’anno e quello dalle carne bovina si aggira sui 6 miliardi.

Tra suini, vacche, bufalini e pollame, il comparto zootecnico genera ricavi per circa 20 miliardi di euro. I vegetali, invece, fatturano 37 miliardi con in testa vino, frumento, olio, pomodori e mele.

Carni, latte, uova, frutta e verdura vengono poi lavorati dall’industria alimentare, che li trasforma in bistecche, salumi, formaggi, pasta, bevande e così via. I prodotti fatti e finiti entrano poi nel circuito della distribuzione e del commercio ed eventualmente finiscono nelle sale della ristorazione.

La filiera completa che va dalle fattorie ai piatti in tavola vale complessivamente 621 miliardi di euro (dato Crea relativo al 2022). E c’è dentro di tutto: dal piccolo allevatore biologico alla grande multinazionale senza scrupoli, dall’operaio sottopagato al manager che dà del “tu” al presidente della sua Regione.

Di quei 621 miliardi: 62 vengono dalla ristorazione, 72 da agricoltura e allevamenti, 145 dal commercio al dettaglio, 163 da attività di intermediazione e 179 dall’industria alimentare, che rappresenta così la prima manifattura del Paese.

Su circa 1,3 milioni di aziende agroalimentari, 60mila operano nel settore industriale, impiegando quasi mezzo milione di addetti e generando circa il 9% dell’export complessivo nazionale grazie soprattutto alla vendita di pasta, vino e prodotti ortofrutticoli, destinati in primis a Germania, Stati Uniti e Francia.

La bilancia commerciale dell’industria alimentare l’anno scorso è stata positiva per 12 miliardi di euro, ma il saldo è più che azzerato se si considera lo squilibrio registrato dal comparto dell’agricoltura, dove le importazioni hanno superato le esportazioni di 13 miliardi.

Tra campi coltivati, allevamenti e stabilimenti industriali, l’agroalimentare produce un valore aggiunto di oltre 65 miliardi di euro all’anno, pari al 3,7% del valore aggiunto dell’intera economia italiana. E un apporto determinante arriva dall’Unione europea, con i circa 37 miliardi di euro distribuiti nell’ambito della Politica agricola comune (Pac). Il business, insomma, è finanziato anche con i soldi dei contribuenti.

Zone d’ombra
Tuttavia siamo al cospetto di un settore che, più di molti altri, è segnato da profonde disuguaglianze: pochi grandi operatori la fanno da padrone, e ai piccoli – è proprio il caso di dirlo – non restano che le briciole. Basti segnalare che secondo i dati della Rica (Rete d’informazione contabile agricola) il reddito netto medio di un’azienda agricola in Italia è pari ad appena 35mila euro, mentre un colosso della lavorazione carni come Aia è arrivato a fatturare nel 2022 più di 4 miliardi di euro.

Stando ai numeri di Eurostat, il reddito orario netto dell’imprenditore agricolo nel nostro Paese è strutturalmente inferiore di quasi il 40% rispetto al salario medio di un lavoratore dipendente in un altro settore. L’Inps ci dice inoltre che un operaio agricolo guadagna in media 10mila euro all’anno, contro i 17mila di un operaio extra-agricolo.

D’altra parte, è anche vero che l’agricoltura – sebbene goda di sgravi fiscali e regimi forfettari – si rivela spesso terreno fertile per l’evasione fiscale, in particolare quella da lavoro irregolare: secondo gli ultimi dati del Ministero dell’Economia, il settore assorbe da solo circa il 17% dell’evasione fiscale stimata a livello nazionale.

A ciò si aggiunge il noto strapotere dei colossi della Grande distribuzione organizzata, che con il coltello dalla parte del manico impongono dall’alto prezzi e condizioni di acquisto agli agricoltori da cui su riforniscono. Un esempio? Oggi un litro di latte viene pagato 50 centesimi di euro all’allevatore, mentre viene venduto a 1,7 euro al consumatore.

Se nel suo capolavoro “La fattoria degli animali” George Orwell aveva immaginato di applicare lo stalinismo a un allevamento, oggi l’industria agroalimentare, per com’è articolata, rappresenta semmai lo specchio della deriva più estrema del capitalismo, dove gran parte della ricchezza è concentrata in poche mani.

In Italia tra i giganti del settore troviamo Barilla (pasta, sughi, biscotti, merendine), Ferrero (dolciumi), Lavazza (caffè), il Gruppo Veronesi (che oltre all’omonima azienda di mangimi possiede i marchi della carne Aia e Negroni), il Gruppo Cremonini (cui fanno capo le carni di Inalca, la distribuzione di Marr e le catene della ristorazione Chef Express e Roadhouse), ma anche multinazionali straniere che hanno acquisito società italiane, come Nestlè (che controlla fra gli altri i cioccolatini Perugina, la pasta Buitoni e le acque Panna, Levissima e Sanpellegrino) e Lactalis (che ha comprato diversi brand del lattiero-caserario come Parmalat e Galbani).

A livello globale, la Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo (Unctad) ha recentemente pubblicato un’indagine da cui emerge che i primi quattro gruppi del Food – gli statunitensi Cargill, Archer Daniels Midland, Bunge e la francese Louis Dreyfus – controllano da soli circa il 70% del mercato agricolo mondiale e hanno contribuito alla finanziarizzazione del settore, alimentando la speculazione.

Nel 2022, grazie anche all’incremento dei prezzi delle materie prime, questi giganti – che operano nell’agricoltura, nel commercio di semenze e fertilizzanti e nella lavorazione industriale – hanno cumulato utili per 17 miliardi di dollari, il triplo rispetto al 2020.

«Se una manciata di aziende continuerà a detenere un potere smisurato sui sistemi alimentari mondiali – avverte l’Unctad – qualsiasi politica volta a mitigare gli effetti a breve termine dell’impennata dei prezzi dei prodotti alimentari risulterà inutile a lungo termine».

Amici e nemici
Nei mesi scorsi, in tutta Europa, gli agricoltori hanno dato vita a dure proteste contro una serie di misure che, a loro dire, li danneggerebbero. In Germania e Francia sono finiti nel mirino i disincentivi ambientali all’utilizzo di gasolio per i trattori. Nei Paesi Bassi gli allevatori si sono rivoltati contro gli abbattimenti di bestiame previsti dal Governo per ridurre le emissioni di anidride carbonica. In Belgio i coltivatori hanno chiesto misure per compensare gli effetti dell’inflazione.

E le mobilitazioni sono arrivate anche davanti alla sede del Parlamento europeo di Bruxelles, dove sono andate in scena violente azioni dimostrative contro il Green New Deal varato dall’Ue. Tanto che la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, ha infine ceduto, almeno su un punto, ritirando la proposta di legge che prevedeva di dimezzare l’uso di pesticidi entro il 2030.

Ma gli agricoltori europei sono preoccupati anche per il sempre più probabile ingresso nell’Unione – e quindi nel mercato comune – dell’Ucraina, tra i principali produttori mondiali di olio di girasole, grano, colza e mais. La questione è tutt’ora aperta. Si vedrà.

Anche in Italia i trattori hanno bloccato strade e manifestato per settimane, avanzando una lunga serie di rivendicazioni, tra cui la contrarietà alla redistribuzione dei fondi della Politica Agricola Comune europea (per il nostro Paese 37 miliardi di euro in sette anni) e il No alla cancellazione dell’esenzione Irpef per i redditi agricoli. Dopo un incontro a palazzo Chigi con i rappresentanti della categoria, quest’ultima richiesta è stata accolta dal Governo Meloni, che ha ripristinato lo sgravio fiscale fino a 10mila euro di reddito annuo.

Nel suo primo anno e mezzo all’esecutivo, la destra italiana ha dimostrato profonda sensibilità alle istanze provenienti dal mondo dell’agroalimentare. Siamo ad esempio l’unico Paese al mondo ad aver vietato la produzione e la commercializzazione della carne coltivata, un provvedimento che ci è costato una bacchettata da parte della Commissione europea e che era stato formalmente richiesto da Coldiretti.

La potente associazione degli agricoltori vanta tradizionalmente ottimi rapporti con tutti i governi, ma con quello attuale la sintonia sembra totale. Non a caso, Giorgia Meloni, il primo ottobre 2022 fece la sua prima uscita pubblica da presidente del Consiglio in pectore partecipando proprio a un evento della Coldiretti al Castello Sforzesco di Milano. E il ministro dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida, ha voluto come suo capo gabinetto un ex dirigente dell’associazione, Raffaele Borriello.

Lollobrigida – che di Meloni, oltreché ministro, è anche cognato – si è reso protagonista di diverse gaffe in questi mesi. L’ultima risale a qualche settimana fa, quando ha ventilato l’ipotesi di «imporre un piatto dedicato al formaggio nei menu degli esercizi di ristorazione». Dove per formaggio si intende ovviamente solo e soltanto quello italiano, in nome della sovranità alimentare. Siamo al cacio obbligatorio, insomma. Così, dopo la repubblica delle banane e la terra dei cachi, rischiamo di diventare anche il premierato del caglio.

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