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Prezzi esagerati, Cina e ritardo sull’elettrico: da dove nasce la disfatta europea dell’auto

Immagine di copertina
Credit: AGF

Ecco perché l’industria continentale delle quattro ruote vive la sua ora più buia. E, oltre ai problemi del settore, Stellantis paga la scelta di privilegiare il taglio dei costi agli investimenti in ricerca e sviluppo

Prezzi esagerati, Cina e ritardo sull’elettrico: da dove nasce la crisi europea dell’auto

Otto giorni dopo le dimissioni del suo amministratore delegato Carlos Tavares, Stellantis ha annunciato che costruirà una fabbrica di batterie per auto elettriche in Spagna, a Saragozza. La gigafactory sarà realizzata in joint venture con i cinesi di Catl, leader mondiali nella produzione di batterie al litio ferro fosfato (Lfp), meno potenti ma più economiche rispetto alle celle agli ioni di litio (che pure ad oggi sono maggiormente diffuse sul mercato). L’investimento sarà di 4 miliardi di euro, con il Governo spagnolo che ha concesso alla multinazionale franco-italo-americana (ma con sede legale ad Amsterdam) quasi 358 milioni di euro in sovvenzioni per la decarbonizzazione.

La notizia ha aggravato i timori dei 2mila operai Stellantis di Termoli, che da ormai più di tre anni aspettano che si concretizzi il progetto dell’azienda di insediare una gigafactory nell’area dove oggi sorge la fabbrica molisana di motori endotermici. L’iter si è ufficialmente arenato la scorsa estate, quando Stellantis – capofila della joint venture Acc, che include anche Mercedes e Total – ha fatto sapere che il piano di riconversione da 2 miliardi di euro è sospeso in attesa di sviluppare nuove batterie meno costose. Che potrebbero essere proprio quelle Lfp su cui si è appena deciso di investire insieme ai cinesi a Saragozza. 

I lavoratori di Termoli temono che l’azienda alla fine li scaricherà a beneficio dei loro colleghi spagnoli. Un sospetto ulteriormente irrobustito dalle indiscrezioni secondo cui Stellantis ha deciso di raddoppiare la produzione nella sua fabbrica di batterie Acc a Douvrin, nella Francia nord-orientale.

Ma la questione non riguarda soltanto il destino degli operai termolesi: come aveva spiegato il mese scorso a TPI Michele De Palma, segretario generale della Fiom-Cgil, se Stellantis davvero  rinunciasse a dotare il nostro Paese di una gigafactory, sarebbe un segnale sconfortante per l’intera galassia degli stabilimenti italiani, che si ritroverebbero pericolosamente scoperti dinnanzi all’obbligatoria elettrificazione dell’industria automobilistica europea.

Per conoscere i prossimi sviluppi bisognerà attendere con ogni probabilità la nomina del nuovo amministratore delegato.

Le dimissioni di Tavares hanno definitivamente squarciato il velo sulle difficoltà della multinazionale nata dalla fusione tra Fiat-Chrysler e Peugeot, che negli ultimi dodici mesi ha perso circa il 40% in borsa. Ma quella di Stellantis è una crisi particolare che divampa all’interno di un settore a corto di ossigeno in tutta Europa.

Crisi auto: dopo il Covid quanta polvere sotto al tappeto

Rispetto a cinque anni fa le immatricolazioni nei 27 Stati membri dell’Unione europea sono diminuite di un quarto: se nel 2019 erano state vendute complessivamente 13 milioni di autovetture, nel 2023 ci si è fermati a 10,5 milioni

Una forte spallata è arrivata dalla pandemia di Covid-19, che, oltre a paralizzare il mercato per diversi mesi, ha innescato un’imprevista carestia di materie prime (grave in particolare quella dei semiconduttori) e un’ondata di inflazione che ancora oggi produce i suoi effetti sui portafogli dei consumatori.

Di fronte al calo della domanda, i costruttori europei – che avevano necessità di rientrare dalle perdite subite in periodo pandemico – hanno reagito alzando ulteriormente i prezzi delle automobili e puntando su modelli di fascia alta destinati ai clienti più abbienti. Il ragionamento era più o meno questo: siamo consapevoli del fatto che, comunque vada, siamo destinati a vendere meno macchine di prima; ma allora, da quelle poche che riusciremo a piazzare, dobbiamo cercare di ricavare il massimo guadagno. 

Secondo l’ong Transport & Environment, tra il 2019 e il 2022 i prezzi delle auto in Europa sono aumentati tra il 17 e il 14% in più rispetto all’inflazione: una Peugeot 208, ad esempio, è passata da una quotazione media intorno ai 10mila euro a quasi 16mila. E se i costosi Suv nel 2010 rappresentavano appena il 9% delle auto nuove vendute nel vecchio continente, nel 2022 la loro quota era schizzata al 47%.

Il “giochino” inizialmente ha funzionato: Stellantis nel 2022 ha visto le vendite in Europa calare del 16,7%, eppure i corrispondenti ricavi sono aumentati del 7%. Di fatto, si stava buttando la polvere sotto al tappeto, e lo stavano facendo pressoché tutte le case automobilistiche nell’Ue.

Con il passare del tempo, tuttavia, i nodi sono venuti al pettine. I produttori si sono ritrovati con sempre più vetture invendute, e a un certo punto il calo della domanda si è fatto talmente forte da non poter essere compensato con i prezzi elevati. A ciò si sono aggiunti poi gli squilibri finanziari determinati dagli onerosi investimenti fatti sull’elettrificazione del settore, al quale il mercato sta rispondendo però in modo tiepido, per non dire freddo.

È nel corso del 2024 che la situazione si è fatta esplosiva. Nei primi sei mesi dell’anno l’utile di Stellantis è crollato del 48% su base annua e nel terzo trimestre la frenata è stata ancora più brusca, con consegne precipitate del 20% a livello globale, zavorrate dalla pessima performance in Nord America (-36%).

Lo scorso autunno Volkswagen, per la prima volta nella sua storia, ha paventato la possibilità di chiudere tre stabilimenti in Germania, licenziando circa 15mila lavoratori, e ha in programma un piano di riduzione degli stipendi del 10%. Misure che spaventano anche centinaia di migliaia di lavoratori nella filiera della componentistica italiana, che vende i propri prodotti principalmente ai tedeschi.

Nel terzo trimestre di quest’anno il Gruppo di Wolfsburg ha registrato un calo dell’utile quasi del 60%, causato in parte da un costoso piano di ristrutturazione interna e in parte da una flessione a due cifre in Cina, dove ormai sono le aziende di casa a farla da padrone. 

La concorrenza dalla Cina sulle auto elettriche

Nel 2000 un veicolo su tre nel mondo era fabbricato in Europa e la Cina rappresentava appena il 4% del mercato globale. Ventidue anni dopo la quota del Vecchio Continente si è dimezzata al 15% e quella del Paese del Dragone è decollata al 32%.

Pechino ha il dominio assoluto nel campo dei mezzi elettrici, forte di costi di produzione notevolmente inferiori e del controllo assoluto sulle materie rare necessarie ad assembleare la batterie. Nel 2023 sono stati prodotti in Cina quasi 9 milioni di veicoli elettrici, pari a circa i due terzi del totale mondiale. In termini di vendite, quest’anno si prevede che addirittura il 76% delle immatricolazioni di auto a batteria sarà registrato nel territorio della Repubblica Popolare. 

La cinese Byd ha superato la statunitense Tesla di Elon Musk per numero di consegne e per ricavi. E i dazi imposti di recente dall’Ue difficilmente riusciranno a fermare la valanga sinnica che sta per abbattersi sul vecchio continente. Anche perché molti costruttori cinesi sono pronti ad aggirare le tariffe incrementando le esportazioni di vetture ibride (non sottoposte ai dazi) o aprendo fabbriche direttamente su suolo europeo.

Il Made in China oggi assorbe il 15% delle importazioni di auto nell’Unione europea, percentuale che sale al 21,7% se si considerano solo i veicoli a batteria.

Di fronte a questa impetuosa avanzata, i malandati colossi dell’automotive europeo – che dal 2035 non potranno più vendere nell’Ue auto nuove a combustione – sono evidentemente in difficoltà. Anche perché, a differenza dei loro concorrenti cinesi, loro non possono contare su una domanda interna in crescita. Nei primi nove mesi di quest’anno le vendite di auto elettriche nell’Ue sono diminuite del 4,9% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente e la quota di mercato rimane ben sotto il 15%. 

Le case automobilistiche europee sono in un cul de sac: da un lato hanno costi di produzione (manodopera ed energia) più elevati, dall’altro si scontrano con una domanda che arranca. E in tutto questo devono pure investire per tentare di stare al passo coi tempi: cosa che, colpevolmente, non hanno fatto abbastanza nell’ultimo decennio.

Le ricadute sociali di questa crisi rischiano di essere catastrofiche: parliamo di un’industria che dà lavoro a quasi 14 milioni di persone nell’Ue, pari al 6% dell’occupazione totale.

La crisi di Stellantis in Italia

All’interno di questo contesto a dir poco turbolento, il caso Stellantis presenta delle specificità che sono solo sue. La più evidente è che la gestione dell’ormai ex amministratore delegato Carlos Tavares ha preferito concentrarsi sul tagliare i costi, anziché investire.

Da quando la multinazionale è operativa – gennaio 2021 – il manager ha ottenuto risparmi per 8,4 miliardi di euro, assai più dei 5 miliardi che, al momento della fusione, aveva dichiarato di voler raggiungere entro cinque anni. 

I lavoratori se ne sono accorti. In particolare quelli italiani, che erano abituati a lavorare – se non altro – in stabilimenti puliti e ben riscaldati. Da quando Fca è passata in mano ai francesi, nelle fabbriche le condizioni igieniche sono peggiorate e le temperature nella stagione invernale si sono fatte gelide, tanto che a Mirafiori in più occasioni sono partiti scioperi spontanei per protestare contro le peggiorate condizioni di lavoro.

Ma questa è solo una minima parte della questione. Le sforbiciate di Tavares – in accordo con il presidente John Elkann – hanno infatti dato vita anche al cosiddetto fenomeno della “fuga da Stellantis”: dal 2021 a oggi i sindacati stimano che, solo in Italia, circa 7mila tra operai, impiegati e ingegneri siano stati convinti a lasciare l’azienda con incentivi all’esodo. Significa che la forza lavoro della casa automobilistica nel nostro Paese è stata ridotta del 14% nel giro di quattro anni.

Pure ai fornitori è stato chiesto di sacrificarsi applicando sconti fino al 7% sugli ordini. 

Nel frattempo la produzione di alcune automobili simbolo del Made in Italy è stata affidata a stabilimenti nei quali la manodopora ha costi inferiori: la Topolino elettrica ad Amy, in Marocco; la Grande Panda elettrica a Kragujevac, in Serbia; la Lancia Ypsilon a Saragozza, in Spagna; la Seicento a Tichy, in Polonia, dove è assemblata anche la Alfa Romeo Junior, che avrebbe dovuto chiamarsi “Milano” prima del battibecco sull’italianità avuto col Governo Meloni. Nota a margine: tutte queste vetture – tranne la Topolino – hanno motori francesi realizzati da Peugeot.

La scorsa estate, inoltre, Stellantis ha venduto al fondo statunitense One Equity Partners il gioiello torinese dell’automazione industriale Comau: un copione che sembra ricalcare quello che nel 2018 – ai tempi di Fiat-Chrysler – portò alla dismissione di Magneti Marelli. 

Tagli, tagli e ancora tagli, dunque. Ma intanto gli azionisti e lo stesso Tavares si riempivano le tasche di soldi. Dal 2021 al 2024 i soci di Stellantis hanno incassato 23 miliardi di euro tra dividendi e riacquisto di azioni proprie, mentre l’amministratore delegato maturava compensi  per circa 20 milioni di euro all’anno, classificandosi come il manager più pagato – di gran lunga – dell’intero settore automotive mondiale.

L’azienda in questi anni ha tratto giovamento in primis dalle vendite di auto di grossa taglia sul mercato nordamericano (con i marchi Jeep, Ram, Dodge e Chrysler) e, quando questo si è inceppato, anche il bilancio ne ha risentito. 

L’errore più grave, peraltro, è stato forse sottovalutare l’importanza di investire in ricerca e sviluppo. Nel 2023 Stellantis ha stanziato in r&s 5,6 miliardi di euro, pari al 2,9% dei ricavi. Per Volkswagen la percentuale è stata del 6,7% e per Renault dell’8,4%.

Auto in crisi e politica assente

Da almeno un anno a questa parte Stellantis è entrata in rotta di collisione con il Governo italiano, dal quale pretenderebbe un maggior sostegno sul fronte degli incentivi all’acquisto di auto elettriche. 

Le aziende della filiera dell’automotive, insieme ai sindacati, chiedono a gran voce, invece, che lo Stato accompagni con fondi pubblici la riconversione industriale del settore: stimolare, in altre parole, l’offerta, più che la domanda.

Il Governo Draghi nel 2021 aveva stanziato un Fondo per l’auto da 8 miliardi di euro in otto anni, ma non aveva elaborato alcun piano preciso su come spendere quei soldi, che finora – di conseguenza – sono stati utilizzati nel modo più basilare, ossia per finanziare gli eco-incentivi all’acquisto (secondo Stellantis, in misura insufficiente).

Nella bozza di Legge di Bilancio varata lo scorso ottobre l’esecutivo Meloni, anziché correre ai ripari, ha pensato bene di tagliare quel fondo dell’80%, riducendolo alla miseria di 1,2 miliardi di euro. Poi c’è stata una parziale retromarcia e, dopo l’incontro del 17 dicembre con i vertici di Stellantis, sono stati trovati 1,6 miliardi per il triennio 2025-2027, di cui 1,1 miliardi utilizzabili nel 2025.

La faccenda, peraltro, lo diciamo ancora una volta, travalica i confini nazionali: quella dell’automotive è una crisi di portata europea. Come si legge nel Rapporto di Mario Draghi sulla competitività nell’Ue, «la spinta verso una rapida penetrazione del mercato da parte dei veicoli elettrici non è stata seguita nell’Ue da una spinta sincronizzata verso la conversione della filiera».

La Cina ha iniziato a prepararsi alla nuova era già dal 2012, stanziando centinaia di miliardi di euro. E adesso anche gli Stati Uniti si apprestano ad accelerare: vedi i maxi-finanziamenti pubblici dell’Inflaction Reduction Act e i dazi del 100% sulle auto cinesi. Nel vecchio continente, invece, siamo ancora fermi al divieto di vendere auto nuove endotermiche a partire dal 2035. Quel che manca – drammaticamente – è una strategia d’insieme per arrivare a quella data con un’industria automobilistica ancora viva.

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