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Home » Cultura

“Vi racconto gli anni d’oro dell’arte a Roma”: intervista inedita a Massimo Piersanti

Immagine di copertina
Foto di Costanza Molini

Nel novembre 2016 abbiamo incontrato il fotografo Massimo Piersanti – classe 1939 – per farci raccontare la sua sul mondo dell’arte e del collezionismo. Dal 1968 ad oggi,  infatti, Massimo è stato protagonista della scena artistica avendo intessuto rapporti con i più noti artisti, collezionisti, galleristi e curatori italiani ed internazionali.

Tra le altre cose, ci ha descritto attentamente la sua esperienza nella vivace Roma degli anni Settanta, centro propulsore dell’Arte contemporanea, contraddistinta dalla collaborazione con gli Incontri Internazionali d’Arte – nota associazione culturale fondata da Graziella Lonardi Buontempo – nell’ambito di alcune straordinarie mostre tra cui vale la pena ricordare Vitalità del Negativo (1971) e Contemporanea (1974). Aneddoti, opinioni e critiche si mescolano, creando un’analisi attenta del contesto artistico contemporaneo.

Oggi, a pochi giorni dalla sua scomparsa, abbiamo voluto pubblicare questa intervista inedita, che costituisce una coraggiosa testimonianza del mondo dell’arte contemporanea.

Come nasce Massimo Piersanti fotografo?
“Sono nato per caso. Ero uno a cui piaceva fare fotografia, ma una fotografia quasi familiare. Potrei fare libri solo di foto familiari: vacanze, nipoti, fratelli, gli amici etc. Mio padre era un conserviere a Nocera Inferiore e quando mi sono sposato per la prima volta mi disse ‘Vieni a lavorare!’. Io stavo facendo letterature comparate a Londra, ma per  7/8 anni ho fatto il  lavoro di mio padre. Quando poi hanno ceduto la società ho cercato di seguire quella che era la mia passione e sono venuto a Roma nel 1968″.

E sei diventato Massimo Piersanti fotografo.
“Sì. A Roma ho cominciato a fotografare. Facevo ritratti e sono un bravissimo ritrattista, lo posso dire senza presunzione. Fotografavo soprattutto attori e attrici tra cui Dalila Di Lazzaro che aveva appena girato Il mostro è in tavola… barone Frankenstein, film in 3D – parliamo del 1973/1974! – prodotto da Andy Warhol e Paul Morrissey. Poco dopo mi chiamarono a Milano e cominciai a lavorare per realizzare pubblicità di grandi brand come Alitalia, il mio primo grosso cliente”. 

Come hai vissuto il passaggio alla pubblicità?
“La pubblicità è stata sicuramente un rischio, ma non ho mai sbagliato una campagna! C’è gente che torna indietro con le campagne contestate, a me fortunatamente non è mai successo. Questo mi ha dato esperienza per fare qualunque cosa, nonché la possibilità di sviluppare tanti altri progetti”.

Ad esempio?
“A Roma abitavo in via dei Greci, nei palazzi che erano dei Beni Stabili, e andavo sempre alla libreria Bocca in piazza di Spagna della Famiglia di Fabio Mauri. Lì incontrai Bruno Corà, che vi lavorava insieme ad Elio Pecora, il poeta. Un giorno Corà mi disse: ‘Senti Massimo, abbiamo fatto questa mostra Vitalità del Negativo (1971, ndr), perché non vieni a fare un po’ di foto?’. Io andai e la cosa mi piacque e mi divertì molto, conobbi Achille (Bonito Oliva, ndr) e Graziella Lonardi Buontempo, con la quale feci subito amicizia. Il lavoro andò benissimo e Graziella mi disse di andare a Palazzo Taverna (sede degli Incontri Internazionali d’Arte) e così iniziai. Finivo il lavoro in studio e poi la sera prendevo la Nikon e andavo da Graziella a fare le foto, così, con molto entusiasmo e pochissimi soldi, ma guadagnavo e non c’era problema”.

Con gli Incontri Internazionali d’Arte hai collaborato a lungo.
“Sì. Dopo Vitalità sono andato alla VII Biennale di Parigi (1971, ndr). Lì scattai molte foto con Gino de Dominicis, Vettor Pisani e Achille (Bonito Oliva, ndr) giovanissimo. Quando arrivò Contemporanea (1973-1974, ndr) mi proposero di essere il fotografo ufficiale della mostra. La mostra era enorme ed io facevo le foto per Graziella. Mi ricordo queste pile di 18X24 cm da vendere ai giornali. Poi naturalmente ci fu l’intervento di Christo. Questo fu speciale perché lui numerò e firmò le foto che avevo fatto. Ce ne sono quattro serie numerate da 1 a 50. Si trovano ancora adesso, varranno 6/7.000 euro. Da allora non mi sono più fermato, sono andato avanti con Graziella più o meno fino al 1988″. 

E poi?
“Poi mi chiamò Bruno Zevi per collaborare alla realizzazione del libro Comunicare l’architettura (1984-1986, Edizioni SEAT, ndr). Fu pesantissimo come lavoro! Ad esempio abbiamo fotografato in dettaglio la Basilica del Redentore e la Basilica di Santa Maria della Salute a Venezia. In seguito ho fatto alcuni progetti per qualche studio di Milano, ma non vogliono pagare e non posso farlo se non c’è una committenza che paga. Poi sono subentrati gli anni di crisi e i problemi, e mi sono trasferito a Barcellona. Quando sono arrivato lì, Jannis  Kounellis disse a Gloria Moure, che cercava un fotografo per le sue mostre: ‘C’è solo uno che può fare le cose che vuoi ed è venuto a vivere a Barcellona, è Massimo Piersanti’. Lei mi chiamò e non mi ha mollato per ben venti mostre, ma venti mostre grandi!”.

La tua è dunque una produzione molto eclettica che spazia tra fotografia, pubblicitaria, documentaristica, architettonica.
“Alla fine una cosa ha aiutato l’altra. Ad esempio, la pubblicità mi ha aiutato tantissimo ad imparare come illuminare i grandi spazi”.

E come hai imparato?
“Non sono mai andato in uno studio e non ho mai avuto un maestro. Mi sono ‘scofanato’ libri tecnici fino al collo. Ma negli ultimi anni le cose sono molto cambiate dal punto di vista tecnico. Il passaggio da pellicola a digitale è stato brusco per noi fotografi”.

Negativo o positivo?
“Negativo. La qualità può anche essere la stessa, ma ormai chiunque può fotografare e questo toglie legittimità a chi lo fa per lavoro. Noi avevamo pellicole che avevano una certa sensibilità, dovevamo lavorare con determinate condizioni. Oramai uno mette 6000 iso e fotografa, poi le immagini vengono una schifezza, però intanto fotografa. Di conseguenza è cambiata la figura del fotografo professionista. Quando lavoravo per un servizio fotografico a Barcellona – mica tanto tempo fa! – prendevo una cifra corrispondente a circa 4.000 euro. Oggi chi ti paga?”. 

In effetti… Tornando a te, hai conosciuto alcune tra le più importanti personalità artistiche del mondo contemporaneo. Com’era il rapporto con questi artisti?
“Alcuni erano molto amici, altri un po’ meno, ma direi che il rapporto è sempre stato buono con tutti, non ho mai litigato con nessuno”. 

C’erano invidie nell’ambiente dell’arte?
“Prima non le ho mai sentite, c’era lavoro e si pensava a lavorare e basta. Oggi le cose sono cambiate. Negli anni Settanta c’erano rivalità, ma era tutto molto così. Ad esempio Gino de Dominicis era bravissimo a vendere, mentre Vettor Pisani non ci riusciva e ne soffriva”. 

A quali artisti eri più legato?
“Luciano Fabro senz’altro – sono ancora molto legato alla figlia – e sono stato molto amico di Gino (de Dominicis, ndr).  Lui era pazzo completo! Insieme facevamo le squadre di pallone degli artisti. Ho conosciuto anche John Cage. Stava male – aveva avuto una lesione alla spina dorsale – ma era uno sciamano grandioso, simpaticissimo. Raccontava delle storie incredibili”. 

E come l’hai conosciuto?
“Era stato invitato a fare una mostra a Barcellona nel 1992 in occasione delle Olimpiadi e dovevo fotografarla. La sua mostra era veramente un rito, è difficile raccontarla! C’erano delle sedie acquistate al mercato delle pulci dislocate ogni giorno in modo diverso ed illuminate da fasci di luce in movimento. Una voce di sottofondo recitava un testo di Thoreau (Henry David, ndr) sulla disobbedienza civile nella guerra fra Usa e Messico, ma la lettura era resa quasi incomprensibile così da diventare un mantra. Non c’era mai la stessa situazione, lo stesso suono. Incredibile.
Cage era veramente fantastico. Lui forse di tutti gli artisti che ho conosciuto è quello che mi ha fatto più impressione. Lui e anche Jannis Kounellis… Forte, una personalità!”.

Come ti sei trovato a lavorare con gli artisti?
“Boltansky (Christian, ndr) diceva che il lavoro del fotografo non rispecchia mai quello dell’artista, è sempre un’interpretazione. Certo, artista e fotografo possono confrontarsi… Ad esempio Boltansky voleva che le sue opere fossero fotografate solo di notte per far entrare le luci dalle finestre, però lui sapeva che io avrei dato una mia interpretazione alle cose”.

E oggi cosa fotografi?
“Le foto più richieste al giorno d’oggi sono quelle degli artisti al lavoro. Ne sto accumulando a migliaia, tante di giovani artisti che magari scompariranno. Al momento è difficile orientarsi nel mondo dell’arte, ognuno va un po’ per i fatti suoi”. 

Che vuoi dire?
“Che non ci sono più movimenti artistici, ma i singoli. Ad esempio, Luca Vitone è uomo veramente intelligente e anche Barruchello (Gianfranco, ndr) che continua ad oltre 90 anni. Me lo ricordo che portava Duchamp in cabriolet, quando veniva in Italia. Sicuramente mancano delle figure di critici carismatici che riescano ad indirizzare le tendenze dell’arte come negli anni passati”.

Questo era un bene?
“Beh, i critici erano come delle guide alpine. Non va dimenticato che la definizione Arte Povera è di Celant (Germano, ndr), mentre la Transavanguardia l’ha ‘inventata’ Achille (Bonito Oliva, ndr). Oggi i critici sono poco coraggiosi, si riparano all’interno di strutture che gli assicurano uno stipendio, ma la cosa non funziona. Se vuoi essere un battitore libero devi avere il coraggio di rischiare. Certo, non nego che sia molto dura”.

E gli artisti accettavano senza polemiche la presenza forte dei critici?
“Gli artisti avevano bisogno di questo spirito guida. Magari lo maledivano e lo mandavano a quel paese, ma di fatto serviva anche a loro. Il critico orientava anche le scelte dei collezionisti che oggi non sanno più dove sbattere la testa. Di fronte ad un’opera di un giovane artista che chiede una cifra importante rimangono un po’così… Sembra che manchi una guida un po’ per tutti”.

Anche le gallerie d’arte influenzavano il lavoro degli artisti?
“Certo! Praticamente li mantenevano permettendo loro di continuare a lavorare. La Tartaruga di Plinio (De Martiis, ndr), La Salita, L’Obelisco, L’Attico di Fabio Sargentini sono state realtà importanti per l’arte di quegli anni. Sargentini in particolare lasciava agli artisti grandi possibilità di sperimentazione”.

Con tutte queste gallerie ci dovevano essere tanti collezionisti!
“Sì. C’era molta gente che comprava! Ad esempio i Franchetti che sono imparentati con Cy Twombly, la Marchesa Verusio, un pochino la Marzotto (Marta, ndr), anche se visto il legame che aveva con Guttuso (Renato, ndr) prendeva le cose che gli consigliava lui. Poi c’era Graziella (Lonardi Buontempo, ndr). Lei è stata un fenomeno! Per la verità quando iniziò, non capiva molto d’arte, ma aveva una grande capacità di captare le situazioni.  Era veramente un’entusiasta, non si tirava mai indietro. Ha anche aiutato molti artisti come Pistoletto, Kounellis, Penone”.

Oggi è cambiato il mondo del collezionismo?
“Forse oggi è cambiato il tipo di collezionismo. Ci sono personaggi che hanno molto denaro e vogliono speculare. Non come negli Usa dove le cose si fanno sì per denaro, ma con un progetto. Gavin Brown, ad esempio, è bravissimo con gli artisti, cerca di facilitarli. Possiamo dire che ricalca la figura del mecenate”. 

Quindi sostieni che il collezionista di oggi è più interessato all’investimento che al valore artistico dell’opera?
“Guarda, la maggior parte dei collezionisti che ho conosciuto – non dico tutti, ma la maggior parte – sono speculatori. Ieri ed oggi. Pensa ad un collezionista come è stato Gianni Agnelli. Non ci capiva niente, comprava quello che gli dicevano. I veri appassionati sono spesso quelli che non hanno i mezzi per farlo. Ad esempio, ho un amico che tutti i Sabato notte tra le 3 e le 4 va a Porta Portese. Ha trovato delle foto di una mostra che Piero Manzoni fece nel ‘77 alla Gnam pagate 20 euro. Incredibile!”.

E tu, Massimo, come lo vedi il tuo lavoro? Lo consideri arte?
“Questa è una bella domanda! Susan Sontag dice che è difficile capire qual è la differenza tra una foto con intento artistico ed una con intento documentaristico. Ad esempio, le foto che ho scattato a Contemporanea (1973-1974, ndr) sono diventate iconiche con il tempo. Fotografando lo scheletrone di Pascali presi per caso un arabo che guardava l’opera. Quella foto è diventata qualcosa che va al di là della documentazione. Lo stesso per la serie di Christo. In mille abbiamo fatto le foto all’opera di Christo, perché ovviamente era all’aperto, però nessuno è salito in cima all’Hotel Flora. Sono andato a rompere le scatole al direttore per i permessi! Quelle fotografie, le mie, sono diventate le più significative dell’intervento di Christo a Roma”.

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