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Home » Cultura

Il governo delle piattaforme. I media digitali visti dagli italiani: il libro di Giacomini e Buriani

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Di seguito la presentazione di Antonio A. Casilli al libro Il governo delle piattaforme. I media digitali visti dagli italiani di di Gabriele Giacomini e Alex Buriani. Casilli è Professore ordinario di Sociologia presso l’Institut Polytechnique de Paris e dirige il gruppo di ricerca DiPLab (Digital Platform Labor). La sua ricerca si incentra sulle piattaforme digitali, sul lavoro e sui diritti fondamentali. Fra le sue pubblicazioni si segnalano Les liaisons numériques. Vers une nouvelle sociabilité? (Seuil 2010), Against the hypothesis of the end of privacy (con Paola Tubaro e Yasaman Sarabi, Springer 2014) e En attendant les robots. Enquête sur le travail du clic (Seuil 2019).

S&D

Nella media theory le tecnologie sono viste come strumenti di “mediazione tecnologica” fra i soggetti politici, i cittadini o le collettività che se ne servono. Ne “Il governo delle piattaforme. I media digitali visti dagli italiani” (Meltemi 2022), invece, gli autori Giacomini e Buriani decidono di “fare un passo indietro”, prendendo in considerazione l’ipotesi di coloro che vedono la tecnologia come uno strumento di disintermediazione. La questione a cui dare inizialmente risposta è proprio quella sollevata da tale doxa diffusa, dall’impressione di dissoluzione di istituzioni e logiche politiche, lì dove invece la tecnologia coagula interessi e poteri. La disintermediazione di cui si parla nei giornali o nei dibattiti pubblici è l’oggetto centrale di questa analisi. La piattaforma digitale, per l’opinione comune, ne sarebbe l’ipostasi concreta, la sostanza che si manifesta sotto forma di app sui nostri smartphone o di algoritmi nei nostri software.

Facebook, WhatsApp, Google, Amazon, sono tutti esempi di piattaforme che permettono la circolazione di messaggi e contenuti multimediali, merci e servizi, lavoro e piacere. La piattaforma fa da luogo di scambio fra pubblici diversi, di volta in volta produttori e consumatori, cittadini con opinioni politiche da esprimere con urgenza (e a volte veemenza) o anonimi “senza opinione” perché presi dalle loro passioni private. E contenuti, terabytes di contenuti, vengono caricati da professionisti dei media, influencers di Instagram, creators di Youtube, ma anche (e soprattutto, se guardiamo i numeri) da aspiranti, hobbisti o utilizzatori qualunque che non spiccano particolarmente per qualità artistiche e competenze comunicative. Nel corso degli ultimi vent’anni, il più importante effetto di queste strutture sulle nostre società è stato quello di fornire occasioni di comunicazione, descritta da guru informatici e industriali del digitale come libera, senza attrito, capace di superare ogni barriera.

Questa opportunità senza eguali di una comunicazione decentralizzata, però, mette di fronte al rischio percepito da alcuni: quello di un’espressione senza il contrappeso istituzionale delle strutture tradizionalmente preposte al controllo e alla validazione delle informazioni di qualità. Il bene collettivo, che è Internet, si fa allora “terra di nessuno” dove si annida la nozione di fake news, germinano le teorie del complotto, imperversano gli anonimi e i troll. Come sempre nell’immaginario occidentale, dove c’è una terra incognita, lì pullulano i mostri.

Percorrere il libro di Giacomini e Buriani, e leggere i risultati del loro sondaggio su un campione rappresentativo dei nostri concittadini (nel testo si possono consultare 42 grafici), permette di comprendere in che misura questa “nuova normalità”, fatta di interazioni a distanza, ha profondamente cambiato non soltanto i comportamenti degli italiani, ma anche le loro inclinazioni e aspettative. E l’Italia – che difficilmente si scrolla di dosso l’immagine di Paese periferico, pur essendo una delle nazioni più sviluppate e importanti nello scacchiere internazionale – dimostra di essere molto più vicina al “centro” perché partecipe della stessa tendenza in termini di adozione di tecnologie digitali.

Pur passando per le grandi piattaforme mainstream, la comunicazione degli italiani è marcata da un’attenzione crescente al rispetto di determinate regole, come ad esempio quelle sulla privacy o sulle condizioni generali. Il segnale più forte è dato dal ripetersi dei riferimenti al Regolamento generale sulla protezione dei dati (o GDPR), che a livello europeo assicura dal 2018 un quadro giuridico coerente per la protezione delle informazioni personali. Il secondo di questi segnali è, invece, l’apprensione che si concentra sulle Condizioni Generali d’Uso, le famigerate CGU alle quali gli utilizzatori di piattaforme, più che conformarsi, si rassegnano. Una certa dose di frustrazione è ineliminabile di fronte alla loro scarsa leggibilità, che diventa per di più motivo di stigmatizzazione nel discorso comune: non sarebbero i cavilli legali e le clausole vessatorie che le compongono ad essere opachi, ma irresponsabili gli utilizzatori che non riescono a leggerle.

Il modello sottostante all’analisi di Giacomini e Buriani è, in ultima analisi, fondato sul disallineamento tra i comportamenti online degli italiani e le loro aspirazioni. Il risvolto più sorprendente della loro inchiesta è che gli italiani non possono evitare di usare le piattaforme, ma sono abbastanza consapevoli dei rischi ad esse associati. Sono ragionevolmente critici e difendono un insieme di rivendicazioni: ad esempio, che le piattaforme non abusino della fiducia dei loro abbonati, che le società sottostanti paghino agli Stati le tasse sui profitti realizzati a partire dai dati personali, che gli algoritmi non compiano volutamente scelte discriminatorie.

È interessante leggere questo disallineamento non in termini di “schizofrenia”, piuttosto in termini di digital divide. Sebbene la nozione di divario digitale sia stata inizialmente riferita alla separazione tra utilizzatori e non utilizzatori di una certa tecnologia, ricerche più recenti (condotte anche da colui che scrive) ne hanno mostrato la complessità. Non siamo di fronte ad un solo, ma a diversi digital divide. In seno ad ogni popolazione esistono degli scarti in termini di capacità di servirsi degli strumenti tecnologici, oppure in termini di accessibilità alle informazioni. Non si tratta solo di disposizioni personali, bensì di effetti della stratificazione sociale. La posizione di privilegio relativo, di cui godono alcune persone per il loro genere, la cultura, il patrimonio, la razza, l’abilità fisica o l’età, si manifesta anche nell’utilizzo di tecnologie digitali. È evidente, allora, che coloro che sono esclusi e marginalizzati in base a questi stessi parametri socioeconomici, sono esclusi anche dall’utilizzazione piena delle tecnologie digitali. In trasparenza, si intravedono ben altre fratture. Non si può, allora, comprendere il divario digitale se non si studia quello che Laura Robinson definisce una inequality stack, ovvero una sedimentazione di diseguaglianze, digitali o no. Schiacciati da questo “accatastamento” di divari sociali sono coloro che hanno accesso alle tecnologie ma non alla agency, alla “potenza d’agire” collegata ad esse, coloro che possono accedere a delle informazioni ma che, pur essendo coscienti della loro limitatezza, non possono completarle o correggerle.

Come combattere queste diseguaglianze? Il governo delle piattaforme non sposa tesi radicali, ma fa prova di un ottimismo riformista. Esso rappresenta, al di là dell’adesione o del dissenso di ciascun lettore, una boccata d’aria rispetto alle posture tecnocritiche massimaliste, tanto esagerate quanto inefficaci, che sembrano prevalere nel mercato editoriale italiano. Ciò porta gli autori a riconoscere che per gli italiani una dimensione “cittadina” è ineliminabile dalla presenza online. Forse è questo l’insegnamento più importante di questo libro: che i cittadini-utilizzatori sanno sviluppare strategie formali e informali per riconoscere le fake news, per preservare il loro anonimato o per avere accesso a contenuti non accessibili in un determinato Paese. E che, proprio a partire dagli orientamenti dei cittadini, le istituzioni hanno spazio per proporre innovazioni legislative (ad esempio, sulla protezione dei dati personali, sugli strumenti antitrust o sulla tassazione dei profitti delle piattaforme) in grado di affrontare le rilevanti sfide poste dalle tecnologie digitali.

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