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L’età della tecnica: il filo rosso che lega Steinbeck agli algoritmi

Immagine di copertina

I mezzadri costretti all’esodo verso un futuro beffardo ed illusorio ed un rider morto in strada e licenziato per non aver ultimato la consegna. Storie diverse, epoche diverse, stesso denominatore: l’età della tecnica. Le dinamiche che la regolano sono state descritte minuziosamente da John Steinbeck, premio Nobel nel 1962, in The Grapes of Wrath, passato alla storia in Italia con il titolo di Furore, ideato da Valentino Bompiani. Si tratta della storia di migliaia di famiglie costrette dalle banche ad abbandonare la propria terra, priva ormai di fertilità, e ad inseguire l’illusione di una nuova vita nel West, in California. Illusione che si rivelerà tale soltanto alla fine del romanzo.

S&D

Alle vicende che animano il viaggio della poverissima famiglia Joad, protagonista del romanzo, Steinbeck alterna dei capitoli più “giornalistici” che vanno dritti al cuore della questione: come lo strapotere delle banche e dei latifondisti abbia innescato una corsa al profitto trasformatasi presto in una lotta di sopravvivenza tra uomini. Di fronte al trattorista inviato dalla Banca per sostituirli nel loro lavoro e costringerli alla resa, i contadini pensano di imbracciare il fucile perché a trovarsi sotto minaccia è la “loro” terra. La loro storia. Si tratta di logiche che travalicano la semplice sfera materialistica: “Mio nonno ha preso questa terra e ha dovuto uccidere gli indiani e cacciarli via. E mio padre è nato qui, e ha liberato questa terra dalla gramigna e dai serpenti. […] E noi siamo nati qui. Lì, sulla soglia: quelli sono i nostri figli, nati qui. […] Anche se non serve più a niente, è ancora nostra. Ecco cosa la rende nostra: esserci nati, lavorarci, morirci. E’ questo a darcene il possesso, non un pezzo di carta con sopra dei numeri”.

Quella terra non è soltanto un cumulo di coltivazioni. Quella terra è la storia di generazioni. Ed i contadini sentono il peso della Storia sulle loro spalle. Ma ignorano che la tecnica non vuole storie, sentimenti, affetti. La tecnica vuole se stessa. Ieri la banca, oggi l’algoritmo. Di fronte a giustificazioni estranee alla logica produttiva, come d’altronde è la morte di Sebastian, rider di Glovo, Steinbeck risponde che le banche, o più in generale la tecnica, “respirano profitti; mangiano interessi sul denaro. Se non lo fanno, muoiono esattamente come morireste voi senza aria, senza carne. E’ triste ma è così. Non ci si può fare niente”. Questa frase oggi si traduce in: “Gentile Sebastian, siamo spiacenti di doverti informare che il tuo account è stato disattivato per il mancato rispetto dei termini e delle condizioni”. L’algoritmo non sa che Sebastian è morto durante il servizio (non è il caso di chiamarlo lavoro), ma questo non importa. Profitto vuole profitto. Se lo ostacoli sei fuori.

L’uomo servo della macchina

L’uomo vive nell’illusione di essere padrone della tecnica. Non sa di esserne servo. L’uomo non è più in grado di controllarla, che si parli, a seconda delle epoche, di un trattore o di un cellulare. Il solito Steinbeck, descrivendo il cinismo con cui il trattorista, che agli occhi dei contadini rappresenta la banca espropriatrice, sta iniziando a lavorare la terra, ci offre un grande esempio di lungimiranza: “Per deviare bastava tirare una leva, ma la mano del trattorista non poteva tirarla, perché il mostro che aveva costruito il trattore, il mostro che aveva mandato il trattore, era riuscito a penetrare nelle mani del trattorista, nel suo cervello e nei suoi muscoli, lo aveva bendato e imbavagliato – gli aveva bendato la mente, imbavagliato la parola, bendato la sensibilità, imbavagliato la protesta”. La tecnica è riuscita ad impossessarsi di noi. E negli anni lo ha fatto sempre più insistentemente. Diverse modalità, diversi strumenti, stesse implicazioni.

Una critica non isolata, quella di Steinbeck, ma già espressa più volte, spesso controcorrente, durante l’epopea del positivismo. Esempio lampante ne sia il celebre romanzo pirandelliano I quaderni di Serafino Gubbio operatore, rappresentazione plastica della deriva positivistica di fine Ottocento: “L’uomo che prima, poeta, deificava i suoi sentimenti e li adorava, buttati via i sentimenti, ingombro non solo inutile ma anche dannoso, e divenuto saggio e industre, s’è messo a fabbricar di ferro, d’acciajo le sue nuove divinità ed è diventato servo e schiavo di esse”. Se è vero che la tecnica ha cambiato il nostro modo di pensare ed è riuscita a penetrare in ogni sfera della società, bisognerebbe a questo punto accordarsi sul significato di “progresso”. Anche in politica questo termine è tornato alla ribalta. La sinistra si definisce “progressista”. Ma il progresso, per dirla con Sartori, non può essere quantitativo, ma qualitativo. Continuare a correre, a fare profitti, a produrre, non può essere la via. Un treno che corre illimitatamente e alla massima velocità prima o poi si schianta. La pandemia e l’inflazione hanno rappresentato proprio il deragliamento del treno. La premessa per uscirne è accorgersi che è successo. Altrimenti la tecnica diventerà “il mostro”. Lo scriveva già Steinbeck nel ’39: “Gli uomini la creano, ma non possono controllarla”.

Le contraddizioni delle società libere

Con lo scoppio della guerra in Ucraina molti osservatori hanno rivendicato la loro appartenenza ad una società libera, quella occidentale, da contrapporre alla dittatura russa o cinese. Cullarsi di questa dimensione libertaria e civile sarebbe un errore, un eccesso di consapevolezza. Sarebbe più proficuo aiutare il compimento delle società libere evidenziandone le contraddizioni e le ipocrisie. Come ci siamo affrettati ad esaltare la democrazia nonostante venisse ostacolato il diritto di voto per 5 milioni di fuorisede, allo stesso modo crediamo di vivere in società libere e garanti dei diritti fondamentali salvo poi dimenticare i morti sul lavoro o gli sfruttati che lavorano a cottimo. Contraddizione già presente nella Storia. Cresciuti con il culto della grecità, abbiamo spesso esaltato la democrazia di Atene innalzandola a modello per la contemporaneità. Tuttavia, anche ad Atene persistevano contraddizioni analoghe a quelle che viviamo oggi: la pratica della democrazia e della libertà civile e sessuale coesistevano con la schiavitù, spesso imposta dagli stessi che decantavano il primato di Atene, con la negazione dei diritti delle donne e dei meteci, che, non avendo avuto la fortuna di essere nati nella città di Pericle, non godevano di diritti politici. Una democrazia poco compiuta, insomma. Allo stesso modo, con le dovute proporzioni e i positivi cambiamenti in tema di diritti, anche oggi dobbiamo fare i conti con episodi, spesso sistematici, che smentiscono l’illusione di avere garantito ogni tutela per i lavoratori. La morte di Sebastian e di tutti coloro che sono morti sul posto di lavoro è lì, a farci ogni giorno da promemoria. Facciamo che la catena si arresti. Facciamolo per Sebastian, come Tom Joad lo ha fatto per i suoi compagni.

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