Rompere il silenzio sulla violenza di genere: oltre 250 sopravvissute si raccontano nel nuovo progetto fotografico “Let’s Talk About Rape”
La raccolta “Let's Talk About Rape” della fotografa e attivista Jadwiga Brontē trasforma il trauma in guarigione attraverso centinaia di autoritratti, permettendo a chi ha subito violenza, dai fronti di guerra alle mura domestiche, di riappropriarsi delle proprie storie
Olena è sopravvissuta allo stupro e alla tortura durante la guerra in Ucraina, Dominga alle violenze carnali sotto il regime militare in Guatemala ed Elisabeth a un’aggressione in Kenya. Halima ha subito la schiavitù sessuale dell’Isis in Iraq. Ellie invece è stata vittima di violenza sessuale e maltrattamenti domestici in Scozia, mentre Shumu è sopravvissuta ad abusi sessuali quand’era ancora una bambina in Bangladesh. I loro autoritratti e le loro storie, insieme ad altri 250, sono stati raccolti dalla fotografa e attivista Jadwiga Brontē per il progetto “Let’s Talk About Rape”, che sfida il silenzio e lo stigma che ancora circondano la violenza di genere, un problema mai risolto anche in Italia.
«Utilizzando la fotografia come terapia, il progetto promuove un profondo coinvolgimento personale, creando immagini potenti che esigono riconoscimento, mostrando forza e dignità», ha spiegato Jadwiga Brontē. «Le storie dei sopravvissuti, dagli stupri legati alla guerra agli abusi sessuali su minori, rivelano la verità: la vergogna appartiene al carnefice, non al sopravvissuto».
Al centro del progetto infatti c’è la collaborazione con le vittime, a cui “Let’s Talk About Rape” offre uno spazio sicuro perché possano riappropriarsi delle proprie narrazioni. Nelle intenzioni di Brontē si tratta di «un atto di guarigione attraverso l’espressione creativa». «La fotografia diventa uno strumento terapeutico che permette alle sopravvissute di affrontare il trauma e di canalizzare le proprie esperienze in qualcosa di motivante», ha sottolineato la fotografa e attivista. «L’atto di essere viste, ascoltate e convalidate in uno spazio libero da giudizi è importante tanto quanto l’opera d’arte stessa. Impegnandosi in questo processo, le partecipanti non solo creano arte, ma sperimentano anche una forma di catarsi, prendendo possesso delle proprie storie e ridefinendosi come sopravvissute, non come vittime». «Ogni storia condivisa è un passo verso la guarigione», aggiunge Brontē, «un modo per onorare il passato e al contempo tracciare un nuovo percorso per il futuro».
Conflitti armati
Gli autoritratti e le storie raccolte nel progetto raccontano donne provenienti da contesti socioeconomici, etnici e religiosi diversi: dalle aggressioni in ambito domestico, alle torture in guerra, allo stupro fino agli abusi su minori. L’obiettivo è sfidare stereotipi e tabù sociali che circondano la violenza di genere.
Quella di Olena Apchel, arrestata e torturata nell’estate del 2018 da due guardie di frontiera illegali lungo il fronte ucraino, è «la storia di una ragazza che è sopravvissuta a più di quanto molti ritengano possibile e che sta imparando ad accettare le sue cicatrici». «Non mi lasciavano andare un attimo, non mi colpivano forte, ma quasi senza sosta», ha raccontato. «Mi chiedevano costantemente: “Ami la Russia? Ami Putin? Ami l’Ucraina? Ami Aksënov? Ami Yatsenyuk? Ami la Crimea? Ami Porošenko?”. E continuava così, in un loop, decine di volte. A ogni risposta, uno di loro mi colpiva in faccia o all’orecchio. Non forte, ma metodicamente. Non importava se rispondevo “sì”, “no” o “non lo so”. Nessuna risposta era giusta». Le aggressioni però non si riducevano a questo. «Quando uno dei due si stancava di picchiarmi, l’altro iniziava a ficcarmi le dita nelle orecchie, nelle narici e in gola. A volte frugava prima nei suoi pantaloni, a volte nei miei», ha ricordato Olena. «A un certo punto, uno di loro mi ha colpito troppo forte. L’altro lo ha fermato, ha iniziato a toccarmi e ha aggiunto: “Ragazze come questa non hanno bisogno di essere picchiate, ma di essere rieducate e domate”. Dopo l’interrogatorio, uno di loro ha aperto la porta. Non sapevo perché mi avessero lasciato andare». Ma la libertà non mise fine alla violenza. «Corsi dalle nostre guardie di frontiera, cercai di raccontare loro cosa era successo, ma mi interruppero, dicendo che era colpa mia per essere “andata lì”. Sapevo che era una mia responsabilità, ma non una mia colpa. Ma rimasi in silenzio. Per diversi anni», ha aggiunto. «Ho dovuto fare molta strada per trovare un sostegno».

Una violenza che riecheggia anche nelle parole di Dominga Concepción Martínez Díaz, che nel 1985 viveva nel villaggio Maya Ixil di Poyí, in Guatemala, durante il regime del generale Ríos Montt. «I soldati arrivarono nella comunità e distrussero tutto. Bruciarono la casa dove vivevo con mia madre, ma il loro regno di brutalità non finì lì. Volevano causare più dolore possibile e lo fecero rubando la mia innocenza. Avevo 17 anni quando mi violentarono e rimasi incinta», ha ricordato. «I militari sono rimasti a lungo e hanno visto i nostri corpi come oggetti da usare per il loro piacere e per soddisfare se stessi». Ma il suo calvario non è finito lì. «In seguito ho iniziato una relazione con un uomo che non mi ha dato una bella vita. Mi sono confidata con lui e gli ho detto che ero stata violentata. La sua reazione è stata di disgusto e ha iniziato a maltrattarmi e picchiarmi per quello che mi avevano fatto. Mi rimproverava sempre e mi diceva: “Non sei una brava donna; sei contaminata perché i soldati ti hanno violentata”. Non capiva che non potevo fare nulla; non era qualcosa che volevo», ha continuato la 56enne. «Con lui ho avuto tre figli e anche tre aborti spontanei a causa di tutte le percosse che mi ha inflitto. Una volta mi ha quasi uccisa. In quel momento sono uscita di casa e mi sono separata da lui». Da 27 anni Dominga vive con un altro uomo, che l’ha sempre sostenuta, ma la violenza supera le generazioni. «Ora mia figlia ha 38 anni. La cosa più difficile per me è stata raccontarle le sue origini, ma lei capisce anche che non è stata colpa mia», ha concluso. «Mi racconta che suo marito le chiede di suo padre; l’unica cosa che lei gli dice è che non lo conosceva e che è morto molto tempo fa. Mi fa profondamente male che mia figlia debba portare questo peso. Ma non è colpa sua».

Guerre domestiche
La violenza di genere però non è confinata ai fronti bellici o all’arbitrarietà dei regimi dittatoriali ma spesso comincia in famiglia, come nel caso di Shumu Haque. «Sono nata in una famiglia bengalese molto privilegiata, istruita e progressista nel 1980, quando la società non era ancora stata devastata dall’islamizzazione radicale e dalle idee regressive sui diritti delle donne che l’hanno afflitta negli ultimi due decenni. Eppure, è successo anche a me», ha ricordato. «A soli 5 anni, un adulto di cui avrei dovuto fidarmi ha abusato sessualmente di me in modo selvaggio e brutale, e ha continuato a farlo per i successivi 6 anni». Anche perché la famiglia era al corrente. «Quando mia madre ha assistito personalmente agli abusi, ha dato in primis la colpa a me, perché a quanto pare avevo sedotto il mio aggressore. Era costantemente sospettosa nei miei confronti per qualsiasi interazione con un uomo, indipendentemente dal mio rapporto o dalla sua età. Spesso, questi sospetti si traducevano in violente percosse», ha aggiunto. Abusi che hanno lasciato segni gravi su Shumu. «A 23 anni mi è stata diagnosticata l’endometriosi, che mi ha causato dolori lancinanti, emorragie e altri sintomi fisici che hanno gravemente limitato la mia istruzione e la mia scelta professionale, costringendomi a sottopormi a un’isterectomia completa a 38 anni», ha continuato. «Ci sono voluti anni di terapia, a cui mi sono rivolta personalmente quando ero una studentessa straniera in Canada, e diverse relazioni molto violente, prima di imparare finalmente a rispettarmi un po’». Alla fine però è riuscita a riconquistare l’autorità su se stessa. «Avevo 33 anni quando finalmente ho imparato ad accettare il mio corpo e la mia sessualità come qualcosa di normale, non come una maledizione, e ho iniziato a interagire con gli altri alle mie condizioni, anziché secondo quanto la mia famiglia e la società mi avevano insegnato fino ad allora», ha proseguito. L’anno dopo scrisse pubblicamente degli abusi subiti da bambina su un portale femminista, attirandosi forti critiche. «Mia madre si è rifiutata di parlarmi per tre mesi, nonostante vivessimo sotto lo stesso tetto. Il nostro rapporto è tornato in qualche modo normale solo dopo che, a 37 anni, me ne sono andata definitivamente da casa», ha concluso. «Devo dire, a difesa di mia madre, che molto probabilmente continuava a comportarsi come sua madre e in seguito suo marito si erano comportati nei suoi confronti e stava semplicemente proiettando su di me il comportamento appreso come vittima di abusi, anche se me ne sono resa conto solo quando sono diventata adulta e da bambina non riuscivo a trovare alcuna giustificazione per le percosse e gli abusi a cui mi sottoponeva, rendendoli ancora più dolorosi».

Anche Ellie Wilson ha dovuto lottare per la propria vita e libertà tra le mura di casa. Tutto cominciò nel 2017 durante il suo penultimo anno di università a Glasgow, in Scozia. Allora, ha ricordato, era una ragazza sicura di sé, forse un po’ ingenua ma molto determinata: «Sognavo di cambiare il mondo. Pensavo che un giorno sarei potuta diventare Primo Ministro». Poi conobbe Daniel. «Eravamo inseparabili, dipendevo da lui, non potevo immaginare la mia vita senza. Pensavo che un giorno l’avrei sposato. Mi prometteva tutto ciò che avevo sempre sognato», ha aggiunto. Gli abusi invece cominciarono quasi subito. «La prima volta avvenne alle prime ore del giorno di Capodanno del 2018. Avevo bevuto troppo ed ero svenuta. Invece di aiutarmi, si approfittò di me. Successe di nuovo a febbraio. Non stavo bene e gli dissi di no, che non volevo. Ogni volta che dicevo di no, lui rispondeva semplicemente di sì», ha ricordato. «Violenza sessuale, abusi emotivi e aggressioni fisiche erano all’ordine del giorno nella nostra relazione. Successe tutto così in fretta che mi sentii impotente». Poi però nel giugno 2020 trovò la forza di denunciare e il suo aguzzino fu arrestato. Ma ci vollero quasi due anni per arrivare a processo, durante il quale la difesa dell’imputato provò a colpevolizzarla. L’uomo intanto era stato rimesso in libertà ed Ellie viveva nel terrore. Alla fine il procedimento si concluse con una condanna a 5 anni. «La sentenza mi sembrava accettabile, finché non ho capito che avrebbe potuto essere rilasciato dopo averne scontato solo la metà. Quel giorno, dopo la mia enorme battaglia per la giustizia, ho lasciato il tribunale con un senso di sconforto. Certo, sembrava giustizia, ma non la percepivo. Ero traumatizzata e caddi in depressione», ha ricordato. Quindi, nel luglio 2022, si rivolse ai media. «Ho parlato di quello che mi era successo e dei fallimenti che avevo sperimentato nel sistema. Non ho smesso di parlare e non ho smesso di lottare per il cambiamento. In qualche modo la mia storia ha iniziato ad avere un impatto e sono apparsa sui notiziari di tutto il mondo», ha aggiunto. «Le mie richieste di cambiamento iniziarono ad avere un impatto anche in politica. Incontrai il Primo Ministro scozzese e testimoniai in Parlamento. Vidi le politiche che avevo sostenuto entrare in vigore. Forse la vittoria più grande fu ottenere un risarcimento dall’avvocato di Daniel, che fu condannato per le domande aggressive e i commenti inappropriati nei miei confronti. Questo segnò una svolta giuridica nel trattamento delle vittime in tribunale». Per questo ha voluto farsi fotografare fuori dall’Alta Corte di Glasgow, dove si svolse il processo iniziale, per il progetto “Let’s Talk About Rape”. «Era un luogo che un tempo mi terrorizzava, ma oggi sento di averlo conquistato. Mi sono riappropriata di me stessa e ora sono io quella al comando». «Questo è più di un progetto artistico», ha spiegato non a caso la fotografa e attivista Jadwiga Brontē, «è un invito all’azione: parliamo di stupro».
