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Genova, aveva chiesto il tampone il 13 ottobre ma la Asl lo chiama solo il 26: ora è ricoverato attaccato al caschetto

Immagine di copertina
Credit: ANSA

La Liguria è piccola e i suoi tristi primati non sono noti in Italia, visto che l’informazione predilige i numeri grezzi. Se però i dati dell’epidemia su contagi, ricoveri e decessi fossero valutati sulla base del numero di abitanti si scoprirebbe che la situazione ligure è preoccupante.

S&D

Nel capoluogo ligure alle prese con la seconda ondata di Coronavirus è nato il gruppo Facebook Covid-19 Genova – testimonianze, azioni, soluzioni. Creato il 21 ottobre su iniziativa di alcuni cittadini, in meno di una settimana ha raggiunto mille iscritti e sfornato decine di testimonianze, per lo più agghiaccianti. Una è quella di Maria Paola Cammarata, che abita a Genova e lavora nella didattica universitaria al Policlinico San Martino. Le abbiamo telefonato per farci raccontare la sua storia.

Il suo compagno un giorno arriva a casa dal lavoro con i brividi, prova la febbre: 38,4. Chiama il medico di famiglia al telefono, lui risponde subito, consiglia la Tachipirina. La febbre va su e giù, trascorre il fine settimana e non si vedono grandi miglioramenti. Il medico di famiglia fa domanda per il tampone e manda il codice della richiesta a Maria Paola, dicendole che sarebbe stata contattata dalla Azienda sanitaria locale e che avrebbero fatto poi il tampone anche a lei, per il tracciamento. Siamo al 13 ottobre.

Non si sente nessuno. La sera del 14 la febbre non c’è, ma il compagno di Maria Paola ha una crisi respiratoria: gli manca l’aria, chiamano l’ambulanza. L’ambulanza arriva nel giro di dieci minuti, alle 20.30 circa. “Abitiamo in Valpolcevera – dice Maria Paola – quindi in tempi normali il mio compagno sarebbe stato portato a Villa Scassi” (l’ospedale di Genova Sampierdarena, ndr). Forse però l’ospedale era già in affanno e il malato viene portato al Galliera.

Aspetta diverse ore sull’ambulanza, in coda davanti al Pronto soccorso: l’ultima telefonata di quella sera a Maria Paola risale all’una di notte, e ancora non è riuscito a entrare. Il giorno dopo le dirà di esser entrato nel Pronto soccorso alle due del mattino. Gli fanno subito il tampone e la Tac, ma in reparto non c’è posto: passa la notte su una barella, con la maschera ad ossigeno. Trascorre poi un altro giorno in Pronto soccorso ma in un’altra sala, su un letto un po’ più comodo della barella.

A Maria Paola dall’ospedale dicono che è in attesa di esser trasferito in reparto ma non c’è posto e manca il personale: ci sono solo due infermieri. Lei al telefono chiede che almeno gli venga svuotato il pappagallo, fa un po’ la voce grossa. Svuotano il pappagallo e lo portano nel reparto di Malattie Infettive, dove lo mettono sotto caschetto (il Cpap). La situazione è delicata, Maria Paola lo sa: lavora da sempre a contatto con i rianimatori ed è consapevole che non ti mettono il caschetto se la tua situazione non è seria. “In tempi normali – mi dice – se stai così ti mettono in subintensiva”.

Fortunatamente il compagno di Maria Paola ha un fisico robusto, non è un fumatore, ha 55 anni e alle spalle una vita sana. Piano piano si sente meglio, e in ospedale servono letti: le dicono quindi che lo dimetteranno e la Asl lo seguirà da casa, perché la terapia al cortisone ha fatto schizzare la glicemia. Ma siccome il tampone è ancora debolmente positivo le raccomandano di stare attenta e usare bagni separati. Lei per fortuna ha la disponibilità di una casa vicino a quella dove abita.

Maria Paola nel frattempo non è mai stata contattata dalla Asl per fare il tampone: si è messa in autoisolamento da sola e appena potrà uscire ha già prenotato, privatamente, un test sierologico. Una strada che a Genova stanno percorrendo in molti, ma ormai anche i laboratori privati sono oberati e quindi per avere un tampone, anche se paghi, aspetti parecchio.

Il colpo di scena arriva il 26 ottobre: la Asl 3 chiama Maria Paola e le chiede se il suo compagno è in casa. Lei risponde che non c’è perché è ricoverato per Covid-19 dal 15 ottobre. La Asl evidentemente non lo sapeva. “La cosa veramente grave – mi dice Maria Paola – è che il mio medico di famiglia ha inoltrato la richiesta il 13 ottobre, scrivendo che il paziente era sintomatico. E la telefonata è arrivata dopo due settimane! Non mi lamento del medico di famiglia né dell’ospedale, che ha fatto quel che ha potuto: sono stati anche gentili sia con me sia con lui. Però l’organizzazione non c’è stata”.

“Sono arrabbiata più che altro perché il messaggio politico che viene passato ai cittadini non corrisponde al vero: vogliono far passare i liguri per degli stupidi terrorizzati che senza aver nulla vanno al pronto soccorso, ma non è così”, prosegue. “La verità è che le persone sono abbandonate a casa come nella scorsa primavera, ma stavolta il tempo per organizzarsi c’era: perché non è stato fatto? Dove sono i protocolli per le cure domiciliari di cui parla la Regione? Siamo come in primavera, anzi peggio: perché in primavera non conoscevo nessun positivo al Covid, ora ciascuno di noi conosce diverse persone contagiate. E nei Pronto soccorso genovesi ci sono pochissimi codici verdi, son quasi tutti gialli o rossi. Si vede dal sito”.

“Le persone non sono terrorizzate, sono arrabbiate”, fa notare Maria Paola. “Se si va al Pronto soccorso è perché, in attesa del tampone, magari ci si aggrava e si va in crisi respiratoria e allora si chiama il 112 e ti portano lì, come è capitato al mio compagno. E arrivarci, come hanno detto, solo se si ha una crisi respiratoria, vuol dire arrivarci male, perché in desaturazione. Infatti il mio compagno è finito sotto caschetto. Se dopo 13 giorni un sintomatico non è ancora stato contattato per il tampone, che cura domiciliare possono ricevere le persone? Neanche una telefonata viene fatta dalla Asl ai sintomatici, per monitorare la situazione. Altro che tracciamenti dei contatti stretti dei positivi”.

Abbiamo provato a sentire l’ufficio stampa della Asl 3 genovese in merito: dapprima ci ha risposto una gentile signora che però è passata all’Ufficio relazioni col pubblico e ci ha fornito altri numeri da chiamare. Uno è sempre occupato, all’altro ci ha risposto – sempre gentilmente – un addetto che però si occupa delle pratiche, che ci ha detto che il momento è piuttosto intenso e ci ha fatti ritornare al secondo numero, che però è alternativamente occupato oppure squilla a vuoto.

Leggi anche: Napoli, parla un dipendente del Cardarelli: “Non ci fanno il tampone da due mesi, sarebbe una strage“

L’INCHIESTA DI TPI SUI TAMPONI FALSI IN CAMPANIA

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