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Fiat Chrysler patteggia negli Usa per il “dieselgate”: ma ora anche la procura di Torino indaga

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In Italia pochi ne parlano ma Fca ha ammesso di aver venduto negli Usa auto truccate per superare i test delle emissioni. Patteggiando una multa da 300 milioni. Anche la Procura di Torino sta indagando. E l’Ue accusa Roma di aver finto di non vedere

È una tranquilla sera di fine estate, il sole è da poco tramontato dietro la pianura, l’ingegner Sergio Pasini, 43 anni, è al volante della sua auto lungo le strade dritte che tagliano la Bassa ferrarese. C’è un posto di blocco dei carabinieri, la paletta si alza, l’auto accosta. Patente, libretto, poi la frase che gela il sangue: «Ingegnere, lei è in arresto». Pasini è un insospettabile dirigente della Vm Motori di Cento, azienda emiliana dell’automotive controllata da Stellantis: su di lui pende un mandato di cattura internazionale del Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti. Insieme a due colleghi italiani – Emanuele Palma e Gianluca Sabbioni – è accusato di aver truccato i test sulle emissioni inquinanti di circa 100mila motori venduti tra il 2014 e il 2016 sul mercato americano, reato per cui si rischia una condanna a vent’anni. Quella sera – la sera in cui Pasini viene arrestato – risale a nove mesi fa: era il 27 settembre 2021. Un paio di giorni dopo la Corte d’Appello di Bologna ordinerà la scarcerazione dell’ingegnere, ma il processo statunitense a lui e agli altri due dirigenti della Vm Motori è tutt’ora aperto in Michigan.

S&D

Le autorità americane puntano il dito anche direttamente contro Stellantis, o meglio contro la sua controllata locale Fca Usa. In questo caso però il processo è già virtualmente chiuso: l’azienda infatti si è recentemente dichiarata colpevole di frode sulle emissioni inquinanti e ha concordato una sanzione da 300 milioni di dollari con la Procura federale nell’ambito di un più ampio patteggiamento da 800 milioni risalente al 2019 (i fatti contestati risalgono sempre al biennio 2014-2016). E dire che, pochi mesi prima di morire, l’ex amministratore delegato Sergio Marchionne aveva definito le accuse contro Fca «stronzate allo stato puro». Ma quello negli Stati Uniti non è l’unico procedimento giudiziario che vede Fiat Chrysler Automobiles – confluita in Stellantis dopo la fusione con Peugeot – indagata per presunte manipolazioni sui motori volte a eludere i limiti alle emissioni inquinanti. La magistratura è al lavoro anche in Germania, in Francia e pure in Italia, a Torino, dove da ormai cinque anni è aperto un fascicolo d’inchiesta contro ignoti per frode commerciale.

All’ombra della Mole Antonelliana, il procuratore aggiunto Vincenzo Pacileo è chiamato a verificare se la casa automobilistica degli Agnelli-Elkann abbia installato sui propri motori un dispositivo di controllo irregolare per aggirare la normativa europea sull’omologazione dei veicoli diesel: un software, cioè, in grado di fornire risultati diversi a seconda che l’autovettura sia in fase di test pre-vendita o sia già circolante su strada, cosicché in condizioni reali di guida le emissioni inquinanti sarebbero superiori a quelle rilevabili in sede di omologazione. L’indagine torinese ha svolto accertamenti a campione su una Fiat 500 prelevandola da un concessionario italiano. E un ingegnere incaricato dal procuratore di svolgere una consulenza tecnica ha effettivamente riscontrato che, in determinate condizioni di guida, l’auto inquina di più rispetto alla fase di test. Resta tuttavia da stabilire se ciò sia dovuto a una manipolazione fraudolenta oppure se il dispositivo che altera i dati serva – legittimamente – a proteggere il motore da danni o avarie e a garantire un funzionamento sicuro del veicolo.

Fonti vicine all’inchiesta riferiscono a TPI che la Procura sabauda è in attesa di una risposta dai colleghi tedeschi di Francoforte, a cui sono stati chiesti tramite rogatoria una serie di dati che potrebbero aiutare a far luce sul punto. Come detto infatti, anche in Germania si indaga sulle anomalie dei motori di Fca. Lo scorso aprile è stata la Guardia di Finanza italiana a svolgere perquisizioni e ad acquisire documenti per conto dei magistrati teutonici negli uffici di Stellantis e della ex controllata Magneti Marelli (oggi di proprietà della giapponese Calsonic Kansei, a sua volta controllata dal fondo americano Kkr). A Francoforte vogliono investigare su un software per le centraline dei motori diesel che è stato venduto negli anni scorsi da aziende della galassia ex Fca alla giapponese Suzuki. Altre perquisizioni erano state svolte nel luglio 2020 nelle sedi Fiat di Mirafiori, al Lingotto e al centro ricerche di Orbassano, dove la Finanza aveva prelevato fra le altre cose una serie di mail che coinvolgono una sessantina di dipendenti: in quel caso – sempre in coordinamento con la Procura di Francoforte – gli accertamenti riguardavano motori diesel Euro 5 ed Euro 6 utilizzati su modelli Alfa Romeo, Fiat e Jeep e propulsori montati in autoveicoli a marchio Fiat e Iveco. A luglio 2021, poi, è emerso che Fca è indagata anche in Francia, insieme ad altre quattro case automobilistiche. Di fronte a queste attività investigative, la multinazionale – che nega qualsiasi irregolarità – ha sempre affermato di «collaborare pienamente alle indagini».

Ma per capire come e perché tutta questa storia ha avuto inizio dobbiamo riavvolgere il nastro e tornare al settembre 2015, quando l’Epa (l’Agenzia governativa Usa per la protezione dell’ambiente) scopre che Volkswagen ha installato sui suoi motori diesel un software (defeat device) progettato per falsificare i controlli sulle emissioni inquinanti. Esplode così lo scandalo che sui giornali di tutto il mondo verrà ribattezzato «Dieselgate». Per Volkswagen è un duro colpo: tra cause civili e penali, si calcola che il Gruppo tedesco – dichiaratosi colpevole – abbia sborsato da allora a oggi una cifra vicina ai 30 miliardi di dollari (senza contare le condanne per alcuni dei suoi ingegneri e manager). Ma restiamo al 2015: il caso Dieselgate esploso in America fa drizzare le antenne alla Commissione europea, che invita gli Stati membri a procedere con gli accertamenti necessari a verificare se anche i veicoli circolanti nel Vecchio Continente siano stati contraffatti.

L’allora ministro dei Trasporti italiano, Graziano Delrio, affida la missione all’Istituto Motori del Cnr di Napoli. Vengono selezionati su base statistica 18 veicoli: due del Gruppo Volkswagen, tre di Renault, due Mercedes, due Ford, una Bmw, una Opel e sette del Gruppo Fca. Si tratta però di auto nuove, messe a disposizione dalle stesse aziende costruttrici: non viene esaminato cioè un campione del parco macchine già circolante su strada. Inoltre, mentre in Germania e Francia le verifiche riguardano sia motori Euro 5 sia motori Euro 6, da noi si analizzano solo gli Euro 5.

L’indagine del Cnr prevede che le emissioni vengano analizzate in due differenti situazioni: con la vettura installata sul banco a rulli (come avviene in sede di omologazione) e durante una prova di guida su pista (simulando quindi la circolazione su strada). Le auto di casa Fca vengono testate in strutture della stessa azienda, mentre per tutti gli altri modelli le prove vengono fatte sulla pista dell’Esercito di Montelibretti, in provincia di Roma, e nei laboratori del Cnr. Ebbene, dopo mesi di verifiche, a febbraio 2017 l’Istituto Motori pubblica le sue conclusioni, che però non fanno chiarezza: «Sulla base dei risultati di prova ad oggi disponibili, non siamo in grado di determinare la presenza di un dispositivo defeat device vietato», scrivono i tecnici. Eppure il ministro Delrio afferma che «non è stato riscontrato alcun sistema di manipolazione non consentito dalla vigente normativa». E qui scoppia una mezza crisi diplomatica con la Germania.

Secondo le indagini svolte dai tedeschi, anche Fca utilizza il software illegale che falsa i dati sulle emissioni: Berlino ritiene che il Governo italiano stia fingendo di non vedere le irregolarità commesse dalla multinazionale della famiglia Agnelli. Ad alimentare questa ipotesi c’è anche uno studio svolto da una rete di ong – Transport & Environment – secondo cui i motori diesel Euro 6 di Fiat (e Renault) sono i più inquinanti, con emissioni fino a 12 volte superiori al limite di legge. Da parte loro, Fca e il Ministero sostengono invece che il dispositivo installato sulle auto non abbia la funzione di alterare i risultati in modo fraudolento ma di proteggere il motore (possibilità consentita da Bruxelles). È proprio in questi mesi, in seguito a un esposto presentato dal Codacos, che la Procura di Torino avvia l’inchiesta sul Dieselgate italiano.

Il caso finisce davanti alla Commissione europea, che a maggio 2017 apre una procedura d’infrazione contro l’Italia «per il mancato adempimento da parte di Fiat Chrysler Automobiles degli obblighi derivanti dalla normativa Ue in materia di omologazione dei veicoli». Il procedimento è tutt’ora aperto e lo scorso dicembre Bruxelles ha inviato a Roma un parere motivato in cui ribadisce l’accusa: «Sebbene abbia disposto il richiamo obbligatorio dei veicoli interessati, l’Italia non ha applicato le disposizioni nazionali in materia di sanzioni ai casi in cui sono stati installati impianti di manipolazione su veicoli omologati in Italia». Se non sarà in grado di convincere la Commissione della legittimità del proprio operato, il nostro Paese verrà deferito alla Corte di Giustizia dell’Ue con il rischio di vedersi comminare una pesante multa.

Intanto, a proposito di emissioni inquinanti, la scorsa settimana il Parlamento europeo ha approvato la proposta della Commissione di vietare dal 2035 la vendita di auto col motore a scoppio: una svolta epocale che però non entusiasma l’amministratore delegato di Stellantis, Carlos Tavares, che pure ha fissato l’ambizioso obiettivo di vendere solo auto elettriche in Europa già dal 2030. Nell’ultimo anno il manager portoghese, che guida la multinazionale affiancato dal presidente John Elkann, ha più volte avvertito delle difficoltà a cui l’industria dell’auto va incontro con la transizione ecologica. «La velocità con cui stiamo cercando di muoverci tutti insieme, per una pur giusta ragione, è così alta che la catena di approvvigionamento e le capacità di produzione non hanno tempo per adattarsi», ha osservato di recente Tavares, pronosticando una carestia di batterie entro il 2025. L’amministratore delegato ha anche dichiarato di attendersi un «sostegno» da parte dei governi europei alla domanda di auto elettriche nei prossimi 4-5 anni, «il tempo necessario a ridurre i costi di produzione dei veicoli elettrici, che sono del 50% superiori rispetto a quelli delle auto termiche».

Nell’ambito di questo processo di riconversione, Stellantis costruirà nei prossimi anni in Europa tre fabbriche di batterie, le cosiddette “gigafctory”: una a Douvrin in Francia, una a Kaiserslautern in Germania, e una in Italia, a Termoli. Nello stabilimento lucano di Melfi, inoltre, dovrebbero entrare a produzione entro il 2024 quattro nuovi modelli elettrici, mentre a Mirafiori è già a regime da quasi due anni la 500 elettrica. Resta invece un enorme punto interrogativo il destino dei dipendenti impegnati nella realizzazione dei motori a scoppio, come la già citata Vm Motori di Cento, in provincia di Ferrara, che secondo la Fim-Cisl negli ultimi cinque anni ha già visto ridursi di molto il proprio organico, passando da oltre 1.200 operai a meno di 800 (-36%). E – in assenza di un piano del Governo sull’auto elettrica – a destare allarme sono anche le situazioni dello stabilimento campano di Pratola Serra, dove lavorano oggi circa 1.700 addetti, e delle 1.500 tute blu che fra Mirafiori e Verrone, in provincia di Biella, producono i cambi del motore, componente destinato ad andare in pensione con il passaggio all’elettrico.

Infine, sempre in tema di svolta ecologica, tra le principali novità degli ultimi giorni c’è la clamorosa decisione di Stellantis di sfilarsi dall’Acea, l’associazione europea dei costruttori di auto, per dar vita al Freedom of Mobility Forum, un evento che avrà cadenza annuale e che si propone di riunire «i vari stakeholder del settore, tra cui fornitori di mobilità e tecnologia, accademici, politici e scienziati», per individuare soluzioni di «mobilità pulita, sicura e conveniente per la società a fronte delle implicazioni del riscaldamento globale». Non sono note le motivazioni alla base del divorzio, ma non si può escludere che tra i fattori scatenanti ci siano le divergenze di vedute con altre case automobilistiche – in primis Volkswagen – che hanno invece accolto positivamente la messa al bando europea delle auto termiche.

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