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    Pregliasco a TPI: “Il Covid-19 ci ha spiazzati, ma al Pio Albergo Trivulzio si è fatto tutto il possibile”

    Il Prof. Fabrizio Pregliasco, presidente di A.N.P.AS. e supervisore del Trivulzio

    Il noto virologo, presidente di A.N.P.A.S., in una lunga intervista affronta a 360° tutti i temi più "caldi" riguardanti il Coronavirus e la Lombardia: dalla "Baggina", di cui è supervisore, alle polemiche sui dati, l'uso delle mascherine e le dichiarazioni di Zangrillo

    Di Lorenzo Zacchetti
    Pubblicato il 8 Giu. 2020 alle 20:47 Aggiornato il 9 Giu. 2020 alle 10:50

    Milanese classe ’59, Fabrizio Pregliasco è ormai diventato un volto familiare per tutti gli italiani. Nel corso della lunga pandemia di Covid-19 è stato chiamato a più riprese dai media a commentare un’escalation di difficile valutazione, anche per i professionisti più esperti. Presidente nazionale di A.N.P.AS. (Associazione Nazionale Pubbliche Assistenze) dal 2013, nel pieno dell’emergenza Pregliasco ha assunto il ruolo di supervisore scientifico del Pio Albergo Trivulzio.

    Il virologo e divulgatore aveva già ricoperto incarichi con analoghi livelli di responsabilità: dal 2009 al 2015 è stato direttore scientifico della Fondazione Sacra Famiglia di Cesano Boscone, nel milanese, e direttore sanitario della contigua Casa di Cura Ambrosiana; mentre dal 2015 è direttore sanitario dell’Istituto Ortopedico Galeazzi, uno dei principali ospedali della città. Tuttavia, il ruolo assegnatogli alla “Baggina” è particolarmente delicato, vista anche l’inchiesta giudiziaria che ha coinvolto lo storico istituto milanese. Per quanto diverse altre RSA siano sotto esame da parte della magistratura, il Trivulzio rappresenta un caso particolare, sia per le sue dimensioni che per il suo già citato blasone.

    Come sta evolvendo la situazione del Pio Albergo Trivulzio?
    Sicuramente le cose stanno andando molto meglio. Al di là di quello che poi dirà l’autorità giudiziaria, che è stata coinvolta, io credo che al Pio Albergo Trivulzio sia stato fatto quanto possibile sulla base delle informazioni dell’epoca. Il fatto che in tutto il mondo la mortalità si sia concentrata nelle RSA dipende dalla loro natura di luoghi a rischio, perché permeabili dall’esterno. Questa caratteristica delle RSA è necessaria, perché in “tempi di pace” è giusto che favoriscano l’interazione con i familiari e i volontari, per garantire agli ospiti una vita per quanto possibile comunitaria. Trattandosi però di soggetti fragili, l’epidemia li ha colpiti più che in altri contesti. Ho visto però colleghi competenti che hanno affrontato la situazione, seppure con i limiti del caso, anche in termini di disponibilità di DPI. Ora però c’è una sistematica presa in carico dei pazienti e una suddivisione che è piuttosto complessa. Tra gli anziani si nota una sintomatologia simil-Covid anche in soggetti che però non sono positivi al tampone. Quindi c’è stata l’esigenza di creare setting diversificati non solo tra pazienti positivi e negativi al Covid, ma anche ambiti specifici per questi soggetti più incerti, nell’ottica di minimizzare la possibilità di diffusione.

    Il Comitato Verità e Giustizia per le vittime del Trivulzio sta chiedendo da tempo la possibilità di riprendere le visite ai degenti, seppure in ambito protetto. Visto che stiamo vivendo una fase meno critica della pandemia, crede che questo si possa fare a breve?
    Stiamo discutendo di una modalità che sia adeguata con l’Associazione dei Parenti, quella storica, che da tempo ha una sua rappresentanza. Peraltro Regione Lombardia ancora ribadisce il “no” alle visite dei parenti, salvo situazioni di distanziamento sociale garantito. Nei prossimi giorni avremo ulteriori momenti di confronto con i parenti, ma anche tra di loro ci sono diverse perplessità sulla possibilità di guardare il loro familiare attraverso uno spioncino. Speriamo di poterci organizzare in modo che, con le opportune protezioni, si possano organizzare incontri diretti tra gli ospiti della struttura e i loro familiari.

    A proposito della fase-3, le parole del suo collega Alberto Zangrillo hanno suscitato accese polemiche. Eppure anche lei ha sottolineato come il virus si manifesti in modo piuttosto diverso rispetto a qualche settimana fa. Come stanno le cose?
    Zangrillo ha usato toni forti, per enfatizzare l’aspetto positivo della questione: ovvero la diminuzione consistente dei casi e la riduzione proporzionale della loro gravità. È un dato di fatto: la casistica si sta riducendo e molti soggetti che arrivano in ospedale presentano una carica virale inferiore. Non sappiamo ancora se si tratti di una variabile virale, ma presumibilmente non lo è: siamo certo che sia stato il lockdown a facilitare questa situazione. Era giusto rimarcare questi aspetti positivi, ma lo stesso Zangrillo ha preso atto dell’acceso dibattito suscitato dalle sue parole e ha voluto invitare tutti a non abbassare la guardia, cosa sulla quale concordo in toto. Dobbiamo riuscire a convivere col virus.

    Questo significa prepararsi a una seconda ondata in autunno, come molti paventano?
    Non è certo che succeda. Potrebbe verificarsi se non attuassimo misure adeguate a contenere focolai come quello verificatosi presso il San Raffaele Pisano a Roma: 31 casi, tra cui pazienti, operatori, familiari e un focolaio che è stato isolato coinvolgendo oltre 700 soggetti nell’inchiesta epidemiologica. Dobbiamo continuare a operare in questo modo, per impedire l’ulteriore diffusione del virus.

    Si è discusso molto anche dei sospetti avanzati da Fondazione Gimbe sui dati epidemiologici della Lombardia. Qual è il suo punto di vista in merito?
    Come Zangrillo, anche Nino Cartabellotta è un amico, visto che ci occupiamo delle stesse cose, ci conosciamo e ci confrontiamo spesso. Credo che anche lui abbia enfatizzato un elemento che però è insito in qualunque raccolta di dati riguardante indagini epidemiologiche. Anche quando capita un’epidemia gastroenterica o una salmonellosi in una scuola, i casi riportati non corrispondono esattamente ai casi reali. Nel caso specifico, la natura del Covid-19 ha aggiunto difficoltà all’analisi delle notifiche, soprattutto se fatta su base giornaliera. Lo stesso Cartabellotta ha ammesso che la definizione “magheggio” fosse un po’ infelice. In effetti, il dato raccontato così può creare un’inquietudine che peraltro già c’è e che, a mio avviso, vede l’istituzione Regione Lombardia colpita un po’ eccessivamente. Qui poi si inseriscono elementi di comunicazione e di giudizi politici discordanti, ma in Lombardia c’è stato un vero e proprio tsunami che ha devastato il servizio sanitario. C’è stata un’emergenza istantanea, un iceberg che fin da subito si è manifestato con una quota, purtroppo rilevante, di casi complessi. Sicuramente, all’inizio dell’epidemia i dati reali erano di dieci volte superiori rispetto a quelli notificati. Inoltre la Fondazione Gimbe lavora solo sui dati pubblici ed effettivamente quelli della Protezione Civile sono comunicati in modo un po’ stringato. Rispetto al tabellone riassuntivo che tutti vediamo, alcuni dati possono efficacemente essere esaminati con maggiore profondità, come Cartabellotta sa fare benissimo. Dobbiamo quindi cogliere il suo stimolo per evidenziare l’esigenza di una comunicazione un po’ più ampia, con una granulazione più fine rispetto a quella che viene fornita al pubblico, per avere la possibilità di un confronto con strutture indipendenti come la sua.

    Tuttavia, gli equivoci sui dati a mio parere dipendono anche dal fatto che il campione analizzato non sia mai stato costante. Non solo il numero di tamponi eseguito è stato altalenante, ma sono cambiati anche i cluster. Adesso che, finalmente, si fanno i controlli anche nelle RSA è più alta la probabilità di trovare dei positivi, rispetto alla popolazione generale. Sbaglio?
    È così e questo è un dato legato all’invasività di questo virus. Ci siamo man mano resi conto dell’importanza di indagare gli asintomatici e i convalescenti, ai quali dicevamo che potevano uscire dopo 14 giorni di quarantena. Adesso che si fanno i tamponi, si vede che questi soggetti invece continuano ad essere positivi. Questo virus ci ha proprio spiazzato. Fare le diagnosi è stato difficile, sia per la natura del virus che per la tipologia dei test. Parliamo genericamente di “tamponi”, ma quello che c’è dietro è veramente complesso e inoltre serve a scattare una “fotografia” istantanea, che può variare nel tempo. Un ruolo importante è stato giocato dalla difficoltà della diagnosi laboratoristica e dall’indeterminatezza della definizione del caso clinico.

    Lei ha auspicato che la fase-3 sia di “vigile serenità”. Tuttavia l’arrivo della stagione calda favorisce comportamenti a rischio, come gli assembramenti e il mancato uso delle mascherine. C’è anche chi dice che, a questo punto della pandemia, le mascherine non siano più utili. Ci aiuta a fare chiarezza?
    La mascherina deve diventare un’abitudine. Molti ancora la portano lasciando il naso scoperto e questo non va bene. Capisco bene che, con il caldo, sia più fastidioso usarla, ma è necessaria come protezione complementare, quando non c’è la possibilità di rispettare il distanziamento sociale. Se non vado errato, oltre alla Lombardia anche Campania e Trentino hanno mantenuto l’obbligo di usarla all’aperto. Su questo tema, l’OMS non è stata molto efficace sul piano della comunicazione. All’inizio si è detto che la mascherina dovevano usarla i malati, cosa che anche io ho sostenuto. Poi, però, bisognava specificare meglio l’evoluzione delle cose: la prescrizione non è cambiata, ma in questo momento dobbiamo considerarci tutti malati, nel senso che anche gli asintomatici possono contagiare gli altri. Da qui la necessità di un uso diffuso: anche all’aperto, se non si possono mantenere le distanze. Ricordiamoci che le mascherine chirurgiche servono per proteggere gli altri. Sono infatti nate per evitare il contagio da parte del medico nei confronti del paziente che si trova a manipolare. La loro capacità filtrante, dall’interno verso l’esterno, è del 95%, mentre in senso contrario proteggono solo al 20%. La mia raccomandazione è quindi di portarsela sempre appresso, ma non certo di portarla al collo, come spesso si vede! Capisco però il fastidio, anche perché nel momento in cui la tolgo non posso certo metterla in tasca, in quanto l’appallottolamento potrebbe contaminarla.

    Come ci si deve regolare, invece, negli spazi chiusi?
    Negli ambienti chiusi la mascherina va sempre usata, tranne ovviamente quando si è da soli. Lo stesso vale quando si è soli in auto: con una battuta, potremmo dire che al volante la mascherina va usata solo la macchina l’hai rubata! Direi quindi che ne va fatto un uso ragionato, ma non la si può certo dimenticare.

    Rispetto al rischio di contagio attraverso le mani, è meglio proteggersi con i guanti o con il gel igienizzante?
    Tutto sommato, devo dire che i guanti, se malgestiti, peggiorano il problema, perché danno un falso senso di sicurezza. In alcune situazioni, come i supermercati, sono obbligatori, ma per il resto bisogna distinguere. Il guanto protegge le mani, ma il problema non è questo: il Covid-19 fa sì che le mani contaminate, se non lavate, rappresentino un veicolo di contagio. I guanti possono essere utili, ma se gestiti bene, anche al momento di sfilarseli: bisogna farlo come i chirurghi, pizzicando il palmo della mano sinistra, estraendolo in modo da rovesciarlo e poi passare alla mano destra. Non è scontato che tutti lo sappiano fare e quindi il rischio è che ci si contagi persino di più.

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