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Ricordando Antonio Russo, il “radicale giornalista” ucciso 20 anni fa a Tbilisi

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Il 16 ottobre del 2000 veniva assassinato Antonio Russo, corrispondente di guerra di Radio Radicale. Il suo cadavere fu rinvenuto a una trentina di chilometri da Tbilisi col torace sfondato. Mandanti ed esecutori dell’efferata esecuzione non sono mai stati consegnati alla giustizia. La verità è rimasta sepolta sotto le sommarie inchieste della Procure romana e georgiana, sulle quali hanno prevalso i rapporti diplomatici ed economici che legano Italia e Russia e i fragili equilibri tra gli Stati del Caucaso.

Antonio stava documentando la seconda guerra russo-cecena: l’escalation dell’azione militare, le distruzioni, le violazioni dei diritti umani, il numero delle vittime. Dal territorio georgiano, a causa dell’impossibilità più volte forzata di varcare il confine ceceno, in particolare dall’impervia valle del Pankisi dove riparavano i profughi ceceni e la resistenza si riorganizzava. Limitazione logorante per Antonio Russo che preferiva stare sul campo dove la tragedia si consumava, confondersi tra la gente comune che la guerra la subiva quotidianamente perdendo averi, affetti, dignità e non ultima la vita. Allo scopo ripudiava gli alloggi in hotel, i salotti istituzionali e i “travelling tour” organizzati negli scenari di guerra una volta ripuliti dagli orrori. Orrori che aveva testimoniato in modo puntuale ed articolato, spostandosi in autonomia, imparando la lingua locale, cercando fonti proprie. In tutte le missioni precedenti.

Iniziando dalla Bosnia, durante la fase terminale dell’assedio di Sarajevo, anche qui ospite di un amico, a condividere gli stessi disagi quotidiani: il razionamento di acqua ed energia elettrica, il freddo, la penuria di generi alimentari, i pericoli costanti, anche di essere colpito dai cecchini attraversando la città agonizzante in balia della follia nazionalista che da un giorno all’altro aveva messo l’uno contro l’altro amici e vicini di casa. A Cipro nel ’96, dove fiutando la tensione crescente lungo la linea verde istituita dall’Onu che divide dal 1974 il nord turco dal sud greco, documentò in prima linea le schermaglie che sfociarono nella morte assurda di due giovani. In Africa, nella regione dei grandi laghi, per testimoniare la fine del regime di Mobutu e il drammatico destino dei profughi ruandesi dopo il genocidio del ’94, ammassati in condizioni disumane nel campo di Kisangani, nel cuore della foresta congolese, che persino le organizzazioni umanitarie penetravano con difficoltà. E in Algeria, teatro di aspro conflitto tra potere militare e miliziani islamici, di cui riuscì pericolosamente a denunciare i retroscena eludendo a stento serrati controlli. E poi in Kosovo dove nel ’99 guadagnò un quarto d’ora di popolarità decidendo di restare a Pristina, malgrado il fuggi fuggi generale dei giornalisti internazionali, per raccontare al mondo la pulizia etnica messa in atto dal governo serbo contro i civili albanesi e in particolare le ritorsioni perpetrate a seguito dell’intervento Nato. Condivise fino in fondo la sorte del popolo kosovaro, sfuggendo ai rastrellamenti, mimetizzandosi tra le colonne dei deportati in Macedonia. “Ho deciso di restare nonostante i pericoli – dirà qualche settimana più tardi durante un’assemblea dei Radicali a Monastier – perché ho reputato scandaloso che si abbandonasse un Paese massacrato, torturato, invaso militarmente, e ritenuto inammissibile che i giornalisti della stampa internazionale fossero posizionati come i corvi alla frontiera macedone a riprendere la vetrina dei profughi, gente privata dei più elementari diritti, anche quello alla sopravvivenza”.

Le sue testimonianze furono decisive per l’incriminazione di Milosevic ed altri gerarchi serbi presso il Tribunale internazionale per l’ex Jugosglavia. E gli valsero numerosi riconoscimenti, fra cui il premio Andrea Barbato, dove durante l’assegnazione pronunciò il discorso che racchiude il suo peculiare registro giornalistico: “Forse per un giornalismo quale quello che amo di più, ovvero il giornalismo di guerra, dove a livello di evento della storia si verifica l’epokè di qualsiasi istituzione, politica, sociale, giuridica, e di rispetto dei diritti universali dell’uomo, in quel momento il silenzio è totale, non c’è più parola che possa esprimere il gioco anarchico delle assenze, e in quel momento si inserisce il corrispondente di guerra. Lì è un’etica della scelta, in cui l’impegno è cercare di difendere i valori dell’umanità, il rispetto dei diritti umani, e questo forse è uno dei compiti più ardui e difficili, perché si rischia di essere presi dai giochi delle parti, anche involontariamente, perché è un grande gioco degli scacchi in cui le regole si inventano di volta in volta”.

Le coraggiose e meticolose corrispondenze di guerra di Antonio Russo sono custodite nell’archivio di Radio Radicale. Marco Panella coniò per lui la definizione di “radicale giornalista”, partigiano di un giornalismo appassionato, teso alla ricerca della verità e sempre dalla parte delle vittime. Propensione maturata in gioventù. Nel periodo universitario fu alla Sapienza tra gli animatori del movimento della Pantera, fondò riviste e una casa editrice autogestita a disposizione di docenti e ricercatori come spazio critico libero e di confronto. Di idee libertarie e progressiste, amava definirsi un ‘cane sciolto della sinistra’ ed era convinto sostenitore del movimento federalista europeo e di una comunità internazionale super partes capace di dirimere i conflitti, affermare i diritti e risolvere crisi economiche e problematiche sociali.

La sua morte si intreccia con la richiesta russa di espellere dall’Onu il Partito Radicale. La verità sul suo omicidio è seppellita assieme al contenuto evidentemente scottante delle videocassette trafugate nella notte tra il 14 e il 15 ottobre 2000 nella sua abitazione di Tbilisi. Nel silenzio colpevole, nell’oscurità più torbida, perlomeno riconosciamogli l’impegno civile e il servizio reso all’informazione. Viva Antonio Russo.

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