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Sui social sembriamo una grande comunità e invece è solo solitudine di massa

Immagine di copertina
Credit: Pixabay

Una silenziosa metastasi si diffonde tra selfie ossessivi e app d’incontri: la solitudine di massa. Come un fiume carsico scava voragini sotto la superficie della normalità in cui predomina il consumismo emotivo, fatto di pseudo-relazioni usa e getta e di community che comunicano il niente (o il magone da mal di vivere: si pensi a Omar Palermo, noto come “Youtubo anche io”, morto di recente dopo aver cercato di riprendersi da abbuffate in diretta su cui si accanivano haters e fan sadici, o al “Forum dei Brutti”, che raduna gli incel italiani, celibi involontari in polemica contro l'”ingiustizia” affettivo-sessuale che subiscono da donne e uomini insensibili, fatui, indifferenti).

Trasversale a età, reddito e classe sociale, la nient’affatto beata solitudo si accanisce su chi ha meno mezzi economici. Da fatto individuale diventa così fenomeno politico. Il Regno Unito, che se n’è accorto per primo istituendo un apposito e un po’ discutibile ministero della Solitudine (“Circoscrivono il più ineffabile dei problemi dell’uomo e trovano la soluzione più fredda e burocratica che c’è”, ha ironizzato il comico americano Stephen Colbert), ha scoperto di avere 9 milioni di cittadini che si sentono isolati.

Negli Stati Uniti, dove un quarto degli adulti non è sposato, il presidente dell’American Enterprise Institute, Arthur C. Brooks, scriveva nel 2018 sul New York Times che “l’America sta soffrendo per un’epidemia di solitudine”. In Spagna l’Istituto Nazionale di Statistica ha rilevato che nel 2016 più di quattro milioni e mezzo di spagnoli vivevano da soli, la maggior parte dei quali sotto i 65 anni.

L’isolamento imprigiona in bolle individuali che prosciugano la voglia di stare al mondo. Fino a uccidere, in senso letterale. La cronaca nera fornisce la punta insanguinata dell’iceberg. Non esistendo l’obbligo di cura, se non per casi di allarme sociale (per i quali scatta il Tso), chi vive intrappolato in un bunker d’ansia e depressione può giungere al suicidio (maggio 2021, sedicenne di Genova si butta dalla finestra lasciando scritto “la solitudine mi ammazza”), all’omicidio (23 giugno, trentaquattrenne nel Trevigiano accoltella a morte sconosciuta sulla riva del Piave, aveva smesso le cure al centro di salute mentale), all’omicidio-suicidio (13 giugno 2021, ad Ardea, in provincia di Roma, trentaquattrenne a cui era stato solo consigliato di farsi curare spara a due fratellini e a un passante e si finisce con un colpo alla tempia).

Altro dato sinistramente indicativo, le morti solitarie: ogni tanto si registrano decessi “dimenticati”, come il 48enne disoccupato del Maceratese scoperto l’8 marzo in decomposizione avanzata, o la signora di 53 anni di Torino trovata il 18 luglio dopo sei mesi dal malore che l’aveva stroncata mentre guardava la tv sul divano.

Benché non ancora scientificamente provate, le prime evidenze dicono tuttavia che la segregazione da Covid un impatto lo ha avuto: secondo una ricerca della Fondazione BRF (Istituto per la Ricerca in Psichiatria e Neuroscienze), da metà marzo a metà giugno 2020 sarebbero stati 62 i suicidi correlati all’assenza di rapporti umani.

A dare i contorni del tarlo che rode la “civiltà del benessere” è il numero spaventosamente cresciuto di famiglie cosiddette “monopersonali”, non-famiglie costituite da una sola persona: secondo l’annuario Istat 2020, in Italia rappresentano un terzo del totale (33,3%), in crescita di oltre 10 punti rispetto a vent’anni fa. Una massa imponente che ha superato la famiglia-tipo (padre, madre e due figli).

Già nel 2017, un rapporto Eurostat segnalava che la percentuale di italiani che affermavano di non poter chiedere aiuto a nessuno in caso di bisogno era più che doppia rispetto alla media dei 28 Stati esaminati (13% contro 6%). “L’impressione di fondo”, commentano gli autori del dossier, “è che il nostro Paese non riesca ad assecondare un desiderio visibile nella società che può realizzarsi solamente rimuovendo tutti quegli ostacoli che hanno impedito in questi anni, a uomini e donne, di costruire la propria indipendenza, di avere i figli che volevano e di tradurre in realtà un loro desiderio”.

Una frustrazione esacerbata dalla tempesta raggelante della pandemia. In un sondaggio dell’Ipsos sul senso comunitario ferito da quarantene e distanziamento sociale, l’Italia si posiziona agli ultimi posti: solo il 18% degli intervistati ritiene che nella seconda metà del 2020 esso sia aumentato. Il 41% dice di soffrire di solitudine, tanto più patita quanto più il nostro Paese, sia pur nel contesto dell’individualismo occidentale, mantiene un ancoraggio tutto sommato solido alla dimensione familiare, di rione, di piazza.

La digitalizzazione, però, incede inarrestabile. Nell’ultimo anno la quasi totalità degli italiani è stata online (50 milioni), con 35 milioni di persone sui social. Grosso modo un italiano su due si è buttato a capofitto, comprensibilmente, sulle app pur di ammazzare, come si dice, la solitudine, chattando e videochiamando, acquistando e facendosi recapitare a domicilio i pasti e quasi ogni genere di merci (dati Report Digital di We are social-Hootsuite, febbraio 2021).

Durante il primo lockdown (marzo-maggio 2020), secondo lo psichiatra Paolo Crepet il ricorso agli psicofarmaci pare sia aumentato del 20%. Prima del virus, nel 2019, il 10% della popolazione faceva largo uso di ansiolitici a base di benzodiazepina, una dipendenza d’inquietante “normalità” che, secondo specialisti come il professor Mario Lugoboni, che lavora a Verona, ha conosciuto “un vero boom negli ultimi anni”.

Maggiormente esposti a smarrimento e depressione sono, va da sé, i più fragili. Stefano Vicari, responsabile di Neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza dell’ospedale Bambin Gesù di Roma, ha fatto presente l’incremento notevolissimo, dall’ottobre scorso in poi, di giovani in Pronto Soccorso per disturbi mentali, tentativi di suicidio e atti di autolesionismo. Idem al Centro di Neuropsichiatria della Fondazione Mondino IRCCS di Pavia, in cui gli accessi di adolescenti sono saliti del 50% rispetto all’anno precedente.

Stando a una ricerca del Sole 24 Ore del novembre 2020, è fra i 18 e i 34 anni che si riscontra il maggior numero di individui (32%) che dichiarano di subire “spesso” una sensazione di abbandono. La solitudine affonda le sue radici nel vissuto soggettivo di ognuno.

L’etimologia rimanda alla separazione primigenia, al taglio del cordone ombelicale che unisce il bambino alla madre subito dopo il parto. La persona sola è scissa, è due in uno, tormentata da un incessante soliloquio con la parte impaurita di sé che assilla la mente con un rumore interno di tristezza, rabbia, autocompassione.

Protrarre nel tempo lo stato di isolamento affettivo accende la “substantia nigra”, area del cervello che si mette in moto esattamente come per il cibo. Siamo disperatamente bisognosi di presenza e attenzione reciproca per attivare l’ossitocina, l’ormone dell’attaccamento, indispensabile per sentirci al sicuro. Una stretta di mano, una carezza, un abbraccio, una conversazione a cuore aperto, sapere soprattutto di avere qualcuno di fidato al proprio fianco: sono questi, i veri antidoti alla disperazione.

Evidente che non si tratti di una questione banalmente chimica, ma spirituale. Quella che va pazientemente sanata, infatti, è una perdita di fiducia radicale. Nei casi più difficili, impossibile senza un aiuto terapeutico. Nella prima fase di questa sciagurata annata di chiusure, a rimanere sbarrati sono stati il 20% dei centri ambulatoriali di salute mentale, il 30% dei consulti psichiatrici ospedalieri, il 60% delle psicoterapie individuali, fino a un picco del 90% di quelle di gruppo e degli interventi psicosociali (fonte: Società Italiana di Psichiatria, su Bmc Psychiatry).

La dottoressa Silvia De Napoli, psicoterapeuta al centro diurno per dipendenze all’Asl Roma 5 e cofondatrice dell’Associazione Progetto Rossano Onlus, lavora ogni giorno con gli “ultimi tra gli ultimi”, come riporta il titolo di una sua pubblicazione di due anni fa: tossicodipendenti, senza fissa dimora, emarginati. Ma anche, se si può dir così, uomini e donne normalmente e faticosamente sole.

La sua visuale di operatrice in trincea non è confortante: “Il Servizio Sanitario Nazionale non è in grado di far fronte alla richiesta, posso dirlo per esperienza. A controprova basta un solo dato: in autunno, a Roma e in alcune Regioni, sono stati indetti concorsi per assumere psicologi dopo vent’anni che non se facevano più. Ogni concorso prevede soltanto 200 posti circa”. Troppo pochi.

L’assistenza pubblica, oberata dal sovraccarico di pazienti, non è sufficiente, e questo è un dramma per coloro che non possono permettersi le tariffe da 70-80 euro all’ora del privato (che schizzano fino a 120 euro e oltre, se presso uno psichiatra).

A parte la percentuale di soggetti con gravi patologie, è il filo rosso della solitudine a contrassegnare il balzo in avanti dei disturbi della psiche: “L’origine comune è sempre la stessa: sentirsi abbandonati, che genera un’incapacità relazionale che porta alla chiusura verso il mondo. A domanda sul perché arrivano qui, la risposta più frequente è: ‘Non ho nessuno con cui parlare’. D’altra parte, bisogna purtroppo registrare il fatto che Comuni, Asl, Caritas, cooperative non comunicano fra loro, perciò seguire il singolo paziente a volte diventa un’impresa”.

“Faccio un esempio che conosco personalmente”, prosegue la dottoressa De Napoli. “Un paziente cocainomane, prima di venir qui, non aveva detto di esserlo a un’associazione a cui prima si era rivolto. Non trasferendo le informazioni, è impossibile inquadrare correttamente il soggetto, che magari passa pure da un Comune all’altro”.

Il Covid ha dato il colpo di grazia ai solitari apparentemente efficienti che si dannavano per rimuovere la propria condizione: “Secondo una piccolissima casistica fatta con alcuni colleghi, abbiamo visto che coloro che avevano intrapreso un percorso prima hanno attraversato questo periodo come se nulla fosse successo, compresi gli ipocondriaci. Diverso è stato, invece, per chi, poniamo, viveva in gran parte di lavoro o di mille impegni. Per questi si è aperto un vuoto che li ha mandati in crisi”.

Un vuoto che la De Napoli, autrice di uno studio specifico (“La solitudine, fonte di benessere ma di altrettanta patologia”, State of Mind, 2019), spiega con l’idea del “fare prestazionale, il bisogno indotto di dover riuscire per forza”. Il riempirsi di obbiettivi, appuntamenti, distrazioni, oggetti e dipendenze, male del secolo, come dimostrano i giocatori d’azzardo che sono sempre di più.

La relazione sana, al contrario, è “saper stare con l’altro senza obbligo di fare nulla, ma con l’impegno di prendersene cura”. Non basta ingoiare una pillola ormonale, come il pregnenolone anti-stress della ricercatrice statunitense Stephanie Cacioppo.

I minori sono una voce in crescita: “Come attestano suicidi e bullismo in aumento – continua la De Napoli – sicuramente sono stati i più colpiti dai lockdown perché hanno meno appigli a cui aggrapparsi. Ma ciò non tanto a causa dell’abuso di tecnologia online (che invece mostrano di saper gestire piuttosto bene: quando vengono in seduta spengono il cellulare, a differenza dei cinquantenni che se lo rigirano continuamente fra le mani), bensì perché alle spalle hanno famiglie poco strutturate, genitori disfunzionali e poche certezze sociali. È vero che il virtuale permette di nascondersi dietro immagini superficiali e cautelanti, ma la chiave per superare lo stallo si trova in situazioni pregresse, legate al contesto familiare”.

Certo, non siamo ai livelli dello sventurato Giappone iper-efficientista (2.500 i morti soli, ogni giorno, a Tokio), dove è sorta quella sindrome culturale che ha nome hikikomori: circa un milione fra venti, trenta e quarantenni si trascinano in una vita claustrale dentro la cameretta, scambiando il giorno con la notte e socializzando esclusivamente in Rete.

Il giornalista Mattia Ferraresi ha opportunamente scritto che la “natura paradossale della solitudine odierna” consiste nell’essere “figlia legittima di una precisa, e prevalente, concezione della libertà” (“Solitudine. Il male oscuro delle società occidentali”, Einaudi, 2020″).

Stiamo parlando della libertà che isola l’individuo su un piedistallo, lo spoglia della sua appartenenza e lo illude di potere far a meno di tutto, tranne che dell’unica dotazione che non può mancare, pena la rovina materiale e psicologica: il denaro.

La questione, insomma, è il nostro modello di vita, scintillante fuori e marcio dentro. “Ho letto di recente che sarei un solitario”, scriveva Albert Camus, solitario per sofferta vocazione. “Forse, ma lo sono come milioni di uomini che reputo miei fratelli e al cui fianco cammino”.

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