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Home » Ambiente

A qualcuno piace caldo: in Italia tira un brutto clima ma la politica non interviene come dovrebbe

Immagine di copertina
Credit: AP

Le temperature raggiunte nel 2022 nel nostro Paese sono le più alte dal 1800. Ma il governo se la prende con gli attivisti invece di affrontare l’emergenza. E mentre si moltiplicano le catastrofi ambientali, in Ue c’è chi tifa ancora per il fossile

Prima degli inizi dell’Ottocento le rilevazioni climatiche venivano effettuate in maniera non omogenea, mancavano registri ufficiali sui quali annotare i valori principali come precipitazioni, pressione atmosferica o temperatura, nonostante i moderni termometri fossero già diffusi.

Verso la metà del secolo c’erano però già moltissime stazioni per la misurazione del calore in Europa e negli Stati Uniti, ed è per questo motivo che si utilizzano quegli anni come riferimento per parlare del clima in valori assoluti.

Così, con indiscutibile certezza, l’Istituto di scienze dell’atmosfera e del clima (Isac) in capo al Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) ha dichiarato il 2022 l’anno più caldo in Italia dal 1800, pubblicando i dati di un’analisi preliminare che verosimilmente colloca i 365 giorni appena trascorsi al primo posto per temperatura media più alta della storia.

Il trend è infatti in costante crescita, ed è difficile immaginare che i livelli preindustriali fossero superiori a quelli della storia recente. Un primato, quindi, che il climatologo Bernardo Gozzini – direttore del Consorzio Lamma – afferma riguardare sia le temperature massime che quelle medie. Per quanto riguarda le minime, infatti, il record appartiene al 2018, al secondo posto dopo il 2022 tra gli anni più caldi mai registrati.

Venendo ai numeri, la fotografia dell’Isac mostra un disavanzo di 1,15 °C rispetto al periodo compreso tra il 1991 e il 2020, il trentennio che l’Organizzazione meteorologica mondiale (Wmo) indica come standard per i confronti climatologici. Nel Nord-Ovest del Paese, nella zona tra Piemonte, Valle d’Aosta e parte della Liguria, le rilevazioni hanno superato addirittura la soglia massima utilizzata dall’Istituto nei grafici, che corrisponde a +1,7°C.

Ma le anomalie termiche sono distribuite su tutto lo stivale, con picchi al centro-nord dove si oscilla tra il +1,37°C e il +1,13°C, mentre il Sud risente meno del surriscaldamento, registrando un surplus di “soltanto” un grado. Nei report dell’Isac anche un’analisi delle precipitazioni medie annue, che mostra un aumento della siccità in particolare nei mesi di luglio, agosto e ottobre.

Trend in crescita
Uno studio che suona come un campanello d’allarme, di fronte al quale però la politica continua a dimostrarsi incapace di agire, preferendo prendersela con chi punta il dito contro il problema – non da ultimo le condanne pressoché unanimi dell’intero arco parlamentare al gesto degli attivisti di Ultima Generazione, che hanno imbrattato con vernice lavabile l’edificio del Senato – invece che mettere in cima alle priorità da affrontare l’emergenza climatica, ormai sempre più difficile da ignorare.

Le elevate temperature di quest’anno confermano infatti una tendenza che va avanti ormai da tempo: nel secondo decennio del ventunesimo secolo si sono registrate le ondate medie di calore più alte della storia del nostro Paese, basti pensare che ad oggi la classifica dei primi sei anni più caldi di sempre comprende, nell’ordine, il 2022, il 2018, il 2015, il 2014, il 2019 e il 2020. I sei anni “peggiori” si sono verificati tutti negli ultimi otto anni. La definizione più pura di “emergenza” che si possa immaginare.

Ma l’afa e la siccità sono soltanto i sintomi più tangibili del cambiamento climatico, che in Italia mai come nell’ultimo anno ha avuto un impatto particolarmente negativo sul tessuto socio-economico. Basterebbe citare le piogge torrenziali che hanno provocato la frana di Ischia, la più grave secca del Po negli ultimi 70 anni denunciata dall’Osservatorio sulla crisi idrica del fiume, l’alluvione nelle Marche di metà settembre.

Secondo l’Osservatorio Città Clima di Legambiente, nel 2022 gli eventi climatici estremi che hanno causato danni e vittime nel Paese sono aumentati del 55 per cento rispetto al 2021. L’associazione ha elaborato una mappa del rischio climatico rilevando 310 calamità, che in totale hanno causato 29 morti. Preoccupante anche il dato complessivo degli ultimi tempi: dal 2010 a luglio 2022 nella Penisola si sono verificati 1.318 eventi estremi, con impatti molto rilevanti in 710 comuni italiani.

Indifferenza
Gli esiti spesso nefasti sono una concausa di fenomeni ambientali fuori scala e politiche troppo permissive che hanno indebolito il territorio: il rischio idrogeologico nel nostro Paese è cosa nota, al punto che esistono mappe dettagliate per l’edilizia e professionisti che avrebbero tutte le conoscenze per intervenire, ciò che manca è la volontà di prendere decisioni anche impopolari ma che potrebbero mettere in salvo numerose vite.

Si preferisce invece percorrere la via dell’indifferenza, se non addirittura quella della legittimazione degli abusi, come ad esempio nel 2018, quando durante il governo giallo-verde fu approvato un maxi-condono che sanò la posizione di moltissime abitazioni, una parte delle quali – quelle di Ischia – crollate nella frana dello scorso 26 novembre.

Per ridurre la fragilità del territorio servirebbero misure come le delocalizzazioni degli insediamenti residenziali e produttivi più a rischio. In un appello al governo, Legambiente ha chiesto di istituire il divieto di edificazione nelle aree a rischio, oltre ad avanzare istanze sulla riapertura dei fossi e dei fiumi tombati illegalmente in passato.

Il recupero della permeabilità del suolo attraverso la diffusione di sistemi di drenaggio sostenibile, che andrebbero a sostituire l’asfalto e il cemento, permetterebbe di arginare gli effetti delle piogge torrenziali, stesso effetto garantito dal ripristino delle aree di esondazione naturale dei corsi d’acqua.

Il tutto senza sottovalutare l’importanza di una campagna di educazione alla convivenza con il rischio, per quelle persone che nelle aree in pericolo già ci vivono: piani di emergenza, comportamenti da adottare quotidianamente o in situazioni critiche, potrebbero contribuire a evitare che eventi estremi si traducano automaticamente in tragedie dal punto di vista umano.

Il piano
Venendo incontro alle richieste di attivisti e amministratori locali, il governo ha recentemente aggiornato – con colpevole ritardo – il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici (Pnacc), rimasto in stand by dal 2018, quando era Presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni.

È stato pubblicato sul sito del Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza energetica lo scorso 28 dicembre ed è ora in attesa di consultazione pubblica nell’ambito della procedura di Valutazione Ambientale Strategica prima di essere approvato definitivamente con decreto del ministro Gilberto Pichetto Fratin. «Si tratta – spiega il membro dell’esecutivo Meloni – di uno strumento di programmazione essenziale per un paese come il nostro, segnato da una grave fragilità idrogeologica. Le recenti tragedie di Ischia e delle Marche hanno ricordato quanto sia assolutamente necessaria in Italia una corretta gestione del territorio e la realizzazione di quelle opere di adattamento per rendere le nostre città, le campagne e le zone montuose, le aree interne e quelle costiere più resilienti ai cambiamenti climatici».

Il piano prevede l’istituzione di un Osservatorio Nazionale, che dovrà garantire la sua immediata operatività. Il documento è diviso in cinque capitoli, di cui il quarto è quello maggiormente rilevante perché descrive le misure e le azioni che è possibile intraprendere per adattare il Paese alle condizioni imposte dal clima.

Si fa differenza tra misure “soft”, che includono azioni di persuasione, giuridiche, sociali, gestionali, finanziarie, che possono modificare il comportamento e gli stili di vita dei cittadini «contribuendo a migliorare la capacità adattiva e ad aumentare la consapevolezza sui temi del cambiamento climatico»; misure “verdi”, che prevedono azioni basate sulla natura, che «impiegano i servizi multipli forniti dagli ecosistemi naturali per migliorare la resilienza e la capacità adattiva»; misure “infrastrutturali e tecnologiche”, vale a dire interventi fisici e misure costruttive «utili a rendere gli edifici, le infrastrutture, le reti, i territori, più resilienti ai cambiamenti climatici».

In termini generici, le azioni soft sono quelle che non richiedono interventi strutturali e materiali diretti ma che “preparano il terreno” per la loro realizzazione, come azioni di informazione, sviluppo di processi organizzativi e partecipativi.

Le azioni green e infrastrutturali, invece, implicano interventi materiali, con la differenza che le prime propongono soluzioni basate sulla natura, consistenti nell’utilizzo o nella gestione sostenibile di risorse ambientali, mentre le seconde riguardano interventi antropologici su impianti, materiali e tecnologie, o su infrastrutture o reti.

Ciak, azione
In totale, il Pnacc presenta 361 azioni di adattamento che vanno dalla diversificazione delle fonti primarie alla realizzazione di infrastrutture di protezione contro gli incendi boschivi, fino alla creazione di “aree cuscinetto inondabili” per contenere gli “eventi di inondazione” nelle zone costiere o alla riforestazione delle aree urbane.

Nonostante sia infarcito di buoni propositi, il documento prende anche atto della difficile realtà attuale parlando di decisioni da assumere sull’accettazione della «perdita di specifici beni culturali» identificando «soluzioni idonee a renderla accettabile per la comunità»: non vengono menzionati nello specifico i siti interessati, ma è probabile che si tratti di opere o luoghi in zone a rischio, visto che viene menzionata anche la possibilità di delocalizzarli in posti «lontani da siti minacciati dal cambiamento climatico».

Vengono poi valutate le proiezioni climatiche future, illustrando diversi scenari. In quello peggiore, che vede una crescita delle emissioni ai ritmi attuali, entro 70 anni la temperatura media aumenterà di 4-5 gradi rispetto ai livelli preindustriali, con conseguenze catastrofiche per gli insediamenti umani.

Nelle prospettive migliori invece, rispettando gli accordi di Parigi che prevedono il dimezzamento delle emissioni entro il 2050, sarebbe «improbabile che si superino i 2°C di aumento della temperatura media globale rispetto ai livelli pre-industriali». Si tratta di una sfida che l’Italia non combatte ovviamente da sola, ma insieme a tutti gli altri Paesi più sviluppati del mondo, molti dei quali coincidono con i partner europei.

Scenari internazionali
Il vecchio continente infatti detiene il record di riscaldamento globale: negli ultimi 30 anni le temperature sono aumentate di oltre il doppio della media globale, a un ritmo di circa mezzo grado per decennio, con effetti evidenti come la perdita di 40 metri annui di ghiacciai nelle Alpi occidentali.

Come per l’Italia, il 2022 è stato l’anno più caldo mai registrato anche in Francia, dove le rilevazioni sono iniziate nel 1900, in Spagna, che paragona i dati a partire dal 1961, in Irlanda e nel Regno Unito, che per la prima volta ha visto la sua temperature media annuale superare i 10 °C. Il Met Office, il servizio meteorologico nazionale, prevede che nel 2023 la temperatura media globale sarà superiore alla media del periodo 1850-1900 per un valore compreso tra 1,08 °C e 1,32 °C.

Di fronte a questa prospettiva sarebbe automatico auspicarsi che i governi di tutti i Paesi che maggiormente contribuiscono al cambiamento climatico prendano coscienza dell’emergenza e agiscano per scongiurare il pericolo, ma c’è anche chi con lo scopo di perseguire battaglie ideologiche prova a dirigersi nella direzione opposta.

È il caso della Svizzera, che nonostante abbia vissuto i 365 giorni più caldi da quando – nel 1864 – ha iniziato a rilevare le temperature in maniera omogenea, a breve sottoporrà i suoi cittadini a un referendum contro la legge di recepimento degli Accordi di Parigi per la neutralità climatica entro il 2050. Il Partito popolare sovranista ed euroscettico Svp-Udc, componente più numerosa della coalizione di governo a Berna, vorrebbe fermare i tagli alle emissioni di Co2 e il rilancio delle energie rinnovabili, in particolare l’energia solare, sostenuto con un finanziamento da 2 miliardi di franchi svizzeri.

Secondo i promotori del quesito – che hanno già ottenuto 80mila firme a supporto delle proprie tesi – imporre ulteriori riduzioni sarebbe controproducente durante l’attuale crisi energetica, innescata in tutta Europa dalla decisione della Russia di interrompere la maggior parte delle forniture di gas in risposta alle sanzioni imposte per l’invasione dell’Ucraina.

Una visione miope della crisi che potrebbe portare giovamento nel brevissimo periodo ma che se condivisa anche da altri Paesi non farebbe altro che accelerare la corsa verso il punto di non ritorno, l’aumento di 1,5°C della temperatura media globale rispetto ai livelli pre-industriali, Colonna d’Ercole oltre la quale ogni tentativo di invertire la rotta sarebbe inutile per le gravi e immediate conseguenze sugli insediamenti umani.

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