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Home » Esteri

Chi combatte in Myanmar, e perché

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La lotta tra i gruppi etnici e il governo potrebbe risolversi in una tregua temporanea, oppure intensificarsi nei prossimi mesi

Il 17 marzo il governo centrale del Myanmar e il Coordinamento nazionale per il cessate il fuoco (Ncct) – un gruppo di associazioni che rappresenta 16 tra le forze armate etniche del Paese – si sono seduti al tavolo delle trattative per la pace a Yangon, la città più grande dello Stato nonché la sua capitale economica.

S&D

Si tratta del settimo ciclo di trattative formali per la pace, anche se i mediatori dei due fronti si sono incontrati informalmente più di 200 volte nel corso degli ultimi anni. Lo scopo dei colloqui è ottenere una tregua per tutto il Paese (cessate il fuoco bilaterali sono già stati oggetto di accordi tra il governo e molte forze armate etniche).

—FOTO: La protesta degli studenti in Myanmar

I negoziatori sono sempre entusiasti mentre dicono ai giornalisti che rimangono solo un paio di punti di disaccordo, e che un accordo per tutta la nazione è appena dietro l’angolo. Ma gli eventi recenti hanno reso ancora più difficile credere a questa affermazione. Mentre i negoziatori parlavano a Yangon, pesanti scontri andavano avanti nella remota regione nordorientale del Paese; da quando è iniziato quel conflitto, il 9 febbraio, si ritiene che i morti siano circa 200 e gli sfollati decine di migliaia.

Ma chi sta combattendo in Myanmar, e perché?

Dalla conquista dell’indipendenza dal Regno Unito nel 1948, i numerosi gruppi di minoranze etniche, che comprendono più del 30 per cento della popolazione del Paese, hanno lottato contro il governo centrale (e talvolta anche tra di loro) quasi costantemente. Al centro di questi conflitti ci sono le promesse contenute nell’accordo di Panglong.

Firmato da Aung San, leader del movimento di indipendenza del Paese (e padre di Aung San Suu Kyi, parlamentare e attivista per la democrazia da molti anni), insieme a rappresentati dei gruppi etnici Kachin, Chin e Shan, l’accordo prometteva un’ampia autonomia regionale alle minoranze birmane e prevedeva che “uno stato Kachin (…) è auspicabile”. Il governo del Paese non ha adempiuto ad alcuna promessa.

Alcuni gruppi armati etnici si finanziano attraverso attività illecite (disboscamento, produzione di droga, traffico di armi da fuoco, estorsioni), ma trovano la propria ragion d’essere in queste promesse non mantenute.

Thein Sein, presidente del Myanmar, dice di volere che un cessate il fuoco condiviso e i colloqui politici determinino il futuro del Paese ben oltre il mese di Novembre, quando si terranno le elezioni.

Ma rimangono punti di scontro, soprattutto riguardo alle forza militari (il governo centrale vuole che le forze armate dei gruppi etnici siano fuse in un unico esercito nazionale), ai controlli sulle risorse naturali e al margine di autonomia da garantire agli stati delle minoranze etniche.

La fiammata più recente è cominciata quando il leader dei ribelli dell’etnia Kokang, a lungo esiliato, ha lanciato attacchi a sorpresa contro le postazioni dell’esercito birmano intorno a Laukkai, la capitale della regione di Kokang nel nordest del Paese, vicino al confine cinese.

All’inizio, il governo si è opposto alle negoziazioni con i Kokang, ma le sue resistenze potrebbero allentarsi. Nonostante il governo abbia descritto lo scontro come isolato e di piccola entità, pare che esso si stia facendo più intenso.

Nel sud della Cina un bombardamento ha ucciso 4 contadini. Ma forse – e ciò è ancora più preoccupante – ha coinvolto altre forze armate etniche che da molto tempo nutrono rancori contro il governo centrale, inclusi Kachin, Palaung e Arakan.

Allo stesso tempo, le forze governative si sono scontrate con gli studenti che stavano conducendo una campagna in favore dell’educazione nel Myanmar centrale.

Ci sono due possibili conclusioni da trarre a partire da questi contrasti.

La prima è che il percorso verso la pace non è privo di ostacoli. Il Myanmar non ha mai avuto un governo centrale forte, e ciò che sta succedendo adesso nel nordest è una questione relativa all’incompleta costruzione dello Stato.

Il processo potrà essere sgradevole, ma è necessario – uno Stato forte, funzionante deve avere un monopolio sulla violenza nel suo territorio – e avrà come risultato una stabilità politica maggiore e più duratura.

La seconda possibilità è che la strada verso la pace sia a un punto morto. Il processo è andato avanti quanto possibile sulla base di vaghe promesse di azioni future; rompere lo stallo tra il governo e le ultime resistenze delle forze armate etniche richiederà concessioni reali, che entrambe le parti non hanno finora voluto compiere. Se questa intransigenza andrà avanti, allora ciò che sta succedendo a Kokang potrebbe diffondersi nel resto del Paese.

Nei prossimi mesi sarà più chiaro se si tratti della tempesta che precede la calma, o piuttosto di una burrasca prima di una tempesta ancora più grande.

L’articolo in lingua originale è stato pubblicato qui. Traduzione a cura di Anna Ditta. 

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