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Ombre cinesi sul Vaticano

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Senza l’apertura alla Cina il progetto di una Chiesa universale è irrealizzabile. Non passerà molto prima di vedere un cinese al Soglio Pontificio

Ombre cinesi sul Vaticano

Lo scorso 11 febbraio Benedetto XVI ha rassegnato le sue dimissioni segnando una svolta epocale nella storia della Chiesa Romana degli ultimi sei secoli e turbando gli equilibri altalenanti della comunità cattolica in Cina. Caduta degli dei? Crisi sistemica? Se a Pechino l’annuncio di Ratzinger, coinciso con l’avvento dell’anno del serpente, è giunto con grande ritardo e ha avuto scarsa risonanza nei media nazionali, dal pulpito dei sacerdoti cinesi è tuonata invece una omelia rassicurante e propositiva.

S&D

La Chiesa clandestina che opera in comunione con Roma non si è scomposta, non ha visto sfumare davanti a sé l’orizzonte delle certezze e non ha messo in discussione l’obbedienza al Vaticano. La crisi può trasformarsi in una opportunità di rinnovamento, e un sacerdote ha commentato così su AsiaNews: “Penso che la decisione di Benedetto XVI darà alla Chiesa nuova vitalità. In questo modo, egli sta aiutando a rinnovare la Chiesa e a dargli nuovo vigore”.

La comunità cattolica cinese è lontana dal tacciare la scelta del Papa, ‘il gran rifiuto’, come un gesto di ‘viltà’ e, anzi, la erige a modello da emulare per il Paese e per l’intera Chiesa cattolica cinese, quella ufficiale patriottica e quella sotterranea, bisognose di rinnovamento e di un nuovo ordine. Il vento della rottamazione è arrivato anche in Cina, dove sembra non esserci più spazio per le vecchie e stanche eminenze grigie: “Qui abbiamo vescovi di 80 e 90 anni che non si dimettono. Forse, varrebbe la pena seguire l’esempio del Papa”.

La rottura dei rapporti diplomatici con la Repubblica Popolare Cinese, avvenuta nel 1951 a seguito della cacciata dell’internunzio apostolico Antonio Riberi da Nanchino, è una ferita per la Santa Sede, una falla nella strategia diplomatica vaticana. Per questa ragione, Benedetto XVI ha guardato con speciale attenzione alle questioni aperte con la Cina, dal tema della libertà religiosa alle relazioni con Taiwan, che il Vaticano riconosce come governo legittimo. L’obiettivo di rinforzare il legame con la Chiesa cinese e attivare forme concrete di comunicazione con la Repubblica Popolare ha ricoperto un ruolo prioritario nell’agenda del suo pontificato.

Nel maggio 2007, alla lunga sequela di ordinazioni espiscopali disposte dall’Associazione patriottica e non riconosciute dal Vaticano, il Papa aveva risposto con una lettera ai vescovi, che ha persuaso molti sacerdoti ‘patriottici’ a confluire sotto l’ala di Roma, indispettendo Pechino. “Mi rendo conto che la normalizzazione dei rapporti con la Repubblica Popolare Cinese richiede tempo e presuppone la buona volontà di entrambe le parti. Da parte sua, la Santa Sede rimane sempre aperta alle trattative, necessarie se le difficoltà del tempo presente sono da superare. Questa situazione di malintesi e incomprensioni pesa, e non serve né alle autorità cinesi né alla Chiesa cattolica in Cina”.

Dal 1949 fino a oggi, il numero dei cristiani cinesi è cresciuto notevolmente: da 1 milione a 21 milioni. Ogni giorno 10 mila persone si convertono. In Cina la religione è divenuta una preziosa risorsa per lo sviluppo e il numero dei cattolici cinesi leali a Roma cresce di giorno in giorno. Se chiese e religione sono oggi per il governo un investimento, la Cina è la ‘frontiera’ per l’espansione religiosa più ambita dal Vaticano, minacciato dal relativismo etico, dall’ateismo e dall’apatia religiosa che troneggiano in Occidente. È una potenziale e immensa fucina di nuove conversioni e di nuovi fedeli, dalla quale diffondere la propria influenza su tutta la regione asiatica.

La nomina cardinalizia del vescovo di Hong Kong John Tong Hon da parte Benedetto XVI nel Concistoro del 18 febbraio 2012 rientra appieno nella nuova strategia di apertura, cooperazione e dialogo diretto con la Repubblica Popolare Cinese. Non è un caso che Tong Hon sia membro della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli e del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso. A differenza del suo predecessore, il salesiano Joseph Zen Ze-kiun, chiuso nei confronti di Pechino, il Cardinale Tong Hon è il più assertivo promotore della via della negoziazione con le autorità cinesi e riconosce alla Chiesa di Hong Kong il ruolo di ‘ponte strategico’ per la mediazione tra la Cina e la Santa Sede. È un moderato perché, come ha dichiarato in una intervista al mensile 30Giorni, “è preferibile essere pazienti e aperti al dialogo con tutti, anche coi comunisti”.

I bookmaker impegnati a lucrare sull’esito del prossimo Conclave non lo prendono neppure in considerazione, eppure il porporato cinese gioca un ruolo chiave per la stabilità e l’unione della Chiesa cattolica nel mondo. Con la sua nomina per la prima volta nella storia della Chiesa, tre cinesi hanno fatto il loro ingresso nel Collegio Cardinalizio e la sua è una conquista di portata storica. Il gesuita Paul Shan Kuo-hsi è deceduto lo scorso agosto e Joseph Zen Ze-kiun ha superato la soglia degli 80 anni, perciò John Tong Hon è l’unico Cardinale elettore cinese, il primo della Chiesa di Hong Kong a diventarlo.

All’ultimo Concistoro, nell’intervento tenuto davanti al Sacro Collegio, il Cardinale Tong Hon ha descritto la condizione della Chiesa in Cina con tre parole: è ‘sorprendente’ perché le conversioni crescono vertiginosamente, è ‘difficile’ a causa del controllo politico, è ‘possibile’ perché “vediamo che di per sé non è l’aumento dei controlli che può spegnere la fede. Forse la soluzione di certi problemi non avverrà domani. Ma nemmeno bisognerà aspettare un tempo troppo lontano”. E se quel tempo fosse già arrivato?

Tong Hon è il settimo cardinale cinese nella storia della Chiesa e il primo che non dispiace ai dirigenti cinesi. Ha collaborato attivamente alle trattative per il passaggio di Hong Kong alla Cina nel 1997 e, come sottolineano in Vaticano, “nell’agosto 2008 è stato anche ufficialmente invitato all’apertura delle Olimpiadi nello stadio di Pechino”. La diplomazia vaticana lo sa: nessuno meglio di lui può mediare con il governo cinese per normalizzare le relazioni con la Santa Sede. E senza l’apertura alla Cina il progetto di costruzione di una Chiesa universale, ‘di tutti i popoli’ e che si esprima nelle ‘varie culture dei continenti’, è irrealizzabile. C’è un presagio nell’aria: non passerà molto tempo prima di vedere un cinese salire al Soglio Pontificio.

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