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Chi è Erdoğan, senza giri di parole

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Da piccolo vendeva limonata per le strade, adesso guida 81 milioni di turchi, chi è il presidente della Turchia

Chi è Erdoğan, senza giri di parole

Ad Ankara, la capitale turca, in occasione dell’anniversario della fondazione della Repubblica di Turchia, il 29 ottobre 2014, è stata inaugurata la nuova sede presidenziale. Si tratta di un edificio che è 30 volte più grande della Casa Bianca di Obama e 4 volte la reggia di Versailles.

Il quartier generale del 12esimo presidente della Repubblica turca è costato 615 milioni di dollari. L’opulenza dell’edifico rivela le ambizioni dell’uomo più potente del Paese, che da piccolo vendeva limonata per le strade e adesso guida 81 milioni di turchi.

Recep Tayyp Erdoğan nasce il 26 febbraio 1954 a Rize, una città turca affacciata sul Mar Nero. Il padre fa il guardacoste e decide di trasferirsi a Istanbul quando Recep Tayyp ha 13 anni. Il futuro leader della Turchia vende limonata per la strada e frequenta una scuola islamica.

Poi si laurea in management alla Marmara University e gioca a football professionistico. Quando lavora alla Istanbul Transport Authority, il suo capo gli dice di tagliarsi i baffi. Recep Tayyp rifiuta e si licenzia.

La sua carriera politica inizia nei movimenti e nei partiti di stampo islamista, e nel 1994 diventa sindaco di Istanbul. Nel 1997 legge in pubblico un poema islamico dai “toni coloriti” che gli costa una condanna a dieci mesi di reclusione – di cui ne sconta quattro.

Nel 2002 inizia il successo elettorale del “suo” Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (Akp). Oggi Erdoğan governa incontrastato da più di dieci anni. Il suo elettorato è forte soprattutto nell’Anatolia centrale, lì dove, stretti tra i turchi occidentalizzati della costa egea e i curdi delle montagne orientali, ci sono i turchi che vivono il grande miracolo economico della modernizzazione.

L’attuale presidente turco ha costruito il suo potere attraverso il successo nel settore economico, accompagnato da un atteggiamento da leader arrogante che non lascia spazio ad altre forze politiche. Da Atatürk a oggi, in fondo, cambiano i soggetti ma non il risultato. Chi governa cerca in tutti i modi di aumentare il proprio potere e non si risparmia, molto spesso, nell’usare la forza.

Il deputato repubblicano Aykan Erdemir aveva spiegato a TPI come la Turchia fosse una nazione costruita su alcune fondamentali contraddizioni: “Il governo turco include le masse e contemporaneamente esclude le opposizioni; si fonda su valori etici ma anche sul più cinico pragmatismo; si batte per il consolidamento e, allo stesso tempo, per la frammentazione della società. Il prodotto di tutto questo è un nuovo modello culturale, ovvero il modello turco, che possiamo chiamare Erdoganismo“.

Oggi, nonostante il suo inespugnabile palazzo presidenziale e la debolezza delle forze politiche all’opposizione, Erdoğan appare vulnerabile. Vacilla per due motivi, uno economico e uno politico. La crescita economica, carta vincente per costruire il suo consenso, sembra oggi non essere più sostenuta. Secondo quanto riportato da New York TimesFinancial TimesForeign Affairs, la Turchia fa parte delle Fragile Five, ovvero le cinque economie emergenti che nascondono profonde debolezze strutturali, insieme a Brasile, India, Indonesia e Sud Africa.

L’economia turca – spiega Foreign Affairs – ha beneficiato per molto tempo di un’abbondante liquidità internazionale dovuta alla politica espansiva della Federal Reserve (che in termini tecnici si chiama Quantative Easing, il programma di stimoli per l’economia in seguito alla crisi finanziaria del 2008, che la banca centrale americana ha dichiarato concluso il 29 ottobre 2014).

Tale liquidità significava abbondanti investimenti a basso tasso d’interesse, che ora, con la fine delle politiche espansive americane, rischiano di venir meno, costringendo la Turchia a far leva sulla propria politica monetaria per compensare tale deficit. Questi problemi sono tipici dei mercati emergenti, dove l’afflusso di capitali stranieri a buon prezzo permette al settore privato di indebitarsi facilmente con valuta straniera, per poi ritrovarsi con un pugno di mosche in mano quando i capitali stranieri scappano via.

Il secondo colpo che fa vacillare la stabilità del nuovo mandato presidenziale di Erdoğan è politico. La guerra al confine con la Siria – e con gli americani che combattono a fianco dei curdi contro i terroristi dello Stato Islamico (Isis) chiedendo a gran voce il supporto di Ankara – non gioca a favore del leader turco.

Erdoğan – come scrive il Professor Vittorio Emanuele Parsi – sta facendo un gioco fin troppo scoperto: “Riproporre ancora una volta l’irrealistico e velleitario progetto di una nuova centralità turca nel Levante”.

Il gioco è stato ambiguo e fallimentare fin dall’inizio. La complicità con i jihadisti e la resistenza ad aiutare i curdi al fronte hanno compromesso i rapporti con gli alleati occidentali, che non si fidano più di Erdoğan. E quello che sembrava uno spazio di manovra per un grande ritorno della Turchia come potenza regionale sembra sgonfiarsi inesorabilmente. “Da player regionale a partner inaffidabile”, come ha scritto la giornalista italiana Marta Ottaviani su La Stampa.

Per anni la Turchia di Erdoğan si è sentita al centro di un grande gioco, che poteva essere comodo e rischioso al tempo stesso. Da una parte aveva la Nato, gli Stati Uniti e la mano tesa – seppur fredda – dell’Unione Europea.

Dall’altra aveva una regione in subbuglio che sembrava poter essere un campo rigoglioso dove sperimentare le proprie aspirazioni da potenza regionale. Fare il doppio gioco ha fatto perdere credibilità alla Turchia da entrambe le parti.

L’ingresso della Turchia nell’Unione Europea sembra definitivamente tramontato dalle violenze di piazza Taksim. Il tentativo di influenzare le primavere arabe a Tunisi, al Cairo e a Tripoli sembra essere fallito miseramente. La comodità di giocare su due tavoli si è trasformata in un doppio bluff.

Angela Merkel, quando commentò con freddezza l’integrazione della Turchia nell’Ue, per tenerla a distanza dalla comunità definì Ankara un “ponte tra due mondi”, sottolineando la necessità di non appartenere a nessuno dei due mondi per poterli avvicinare. Il rischio di un ponte, però, è di rompere i collegamenti con le sue due sponde e restare pericolosamente isolato nel mezzo.

Come spiegato dal Professor Parsi a TPI la Turchia è sì un membro della Nato e un alleato formale di Washington, ma possiede una propria agenda politica che non prevede che gli Stati Uniti rafforzino una presenza significativa in Medio oriente.

Proprio nei giorni successivi alle celebrazioni per l’anniversario della Repubblica, mentre al confine con la Siria prosegue la guerra contro lo Stato Islamico, Erdoğan, forse, non si è mai sentito così solo.

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