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Il ciclismo mondiale ha perso il suo first gentleman (di S. Gambino)

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Vittorio Adorni, scomparso oggi a Parma all’età di 85 anni, è stato un campione dall’eleganza impareggiabile, tale per chi non lo conoscesse in bicicletta da far pensare impossibile che fosse un corridore professionista. Nato a San Lazzaro Parmense nel 1937, il 14 novembre come Bernard Hinault e Vincenzo Nibali, Adorni passò relativamente tardi al professionismo nel 1961. Dall’anno successivo, iniziò il suo lungo corteggiamento con la maglia rosa. Dopo il quinto posto nel Giro d’Italia del 1962, nell’edizione seguente sembrava avesse il successo in mano quando conquistò il simbolo del primato a tre giorni dalla fine nella frazione che si concludeva sul Nevegal, la montagna che sovrasta Belluno. Il giorno dopo, però, andò in crisi nella cavalcata dolomitica che portava a Moena, cedendo definitivamente la maglia rosa a Franco Balmamion, un corridore decisamente meno brillante di lui che, però, della regolarità faceva la sua religione. Nel 1964, l’anno della doppietta rosa-gialla di Jacques Anquetil, fu quarto al Giro e decimo in terra di Francia nell’unico Tour che riuscì a portare a termine. Due mesi dopo, sempre in terra gallica, a Sallanches, Adorni sfiorò la conquista della maglia iridata sconfitto in volata dall’occhialuto olandese Jan Janssen al termine d’una fuga a tre in cui era presente anche Raymond Poulidor.

Dopo tanti piazzamenti, finalmente nel 1965 arrivò la consacrazione, non prima di altri due brucianti piazze d’onore alla Milano-Sanremo e alla Liegi-Bastogne-Liegi, in cui fu battuto allo sprint rispettivamente dall’olandese Arie den Hartog e dall’italo-belga Carmine Preziosi. Il Giro d’Italia fu dominato in modo perentorio. Dopo aver inizialmente indossato per due tappe la maglia rosa, conquistata a Potenza, Adorni la cedette temporaneamente al toscano Bruno Mealli per poi rimpossessarsene in via definitiva nella cronometro che da Catania portava a Taormina. Fu una marcia trionfale per il parmense, consacrata dalla vittoria nella durissima frazione di Madesimo. I distacchi inflitti agli avversari furono abissali: Italo Zilioli finì secondo a 11’26” mentre al terzo posto si piazzò un esordiente compagno di squadra del vincitore, il bergamasco Felice Gimondi, a 12’57”. Da allora, nessuno è mai riuscito a scavare un solco simile in classifica.

Corroborato da questo successo e dall’annunciata defezione di Jacques Anquetil all’imminente Tour de France, Adorni si presentò alla Grande Boucle intenzionato ad emulare l’impresa compiuta dodici mesi prima dal biondo normanno, a cui somigliava non poco per eleganza e stile. Il forfait, all’ultimo minuto di Battista Babini, suo fedele gregario, portò all’inserimento in formazione nella Salvarani, di Gimondi, originariamente non destinato a prendere parte alla corsa francese. Adorni confermò fin dall’inizio il suo scarso feeling con il Tour crollando definitivamente sui Pirenei e tornando a casa mentre il bergamasco portava fino a Parigi la sua inattesa maglia gialla.

Con due galli nel pollaio, il 1966 fu un anno difficile per la Salvarani. Al Giro, però, le cose sembravano essersi messe bene per Adorni. Un incidente meccanico escluse Gimondi dalla lotta per il primato già alla seconda tappa. Quando alla tredicesima frazione, la stessa dell’anno precedente a Taormina, Adorni fu profeta in patria, vincendo la crono sulle strade di casa davanti ad Anquetil, e conquistando il simbolo del primato, il bis sembrava essere nell’aria. Tuttavia, alla ripresa dopo il giorno di riposo, andò in difficoltà prima sul Mottarone, riuscendo, però, a salvare la maglia rosa da uno scatenato Gianni Motta, cui poi fu costretto a cederla il giorno successivo sulla Maddalena, il colle che domina Brescia. Finì quel Giro settimo e a fine stagione lasciò la Salvarani.

L’anno successivo, corso alla Salamini-Luxor, seppe imporsi al Giro di Romandia, finendo quarto nel primo dei tre trionfi rosa di Gimondi. Nel 1968 sposò l’ambizioso progetto di Vincenzo Giacotto, il manager torinese, che lo volle come regista della sua nuova squadra, la Faema, costruita intorno al neo campione del mondo Eddy Merckx. Incredibile a dirsi, pur dovendo fungere da mentore al Cannibale, con cui condivise la camera durante il trionfale Giro d’Italia, concluso al posto d’onore a cinque minuti proprio dal brabantino, Adorni visse una inattesa seconda giovinezza che culminò nell’indimenticabile giornata dell’1° settembre.

Il circuito dei Tre Monti era gremito di pubblico quel giorno lungo i 15 chilometri del suo anello che i corridori avrebbero dovuto ripetere 18 volte. Al quarto giro uno scatto dell’esperto fuoriclasse fiammingo Rik Van Looy portò via una fuga comprendente anche il portoghese Joaquim Agostinho e due azzurri, Adorni e Lino Carletto. Grazie all’ottimo lavoro della squadra italiana, e a un colpevole disinteresse iniziale del plotone, la fuga acquisì un vantaggio colossale. Ai meno 90 dal traguardo, con quella che poteva sembrare un’azione suicida, Adorni s’involò verso la gloria. Merckx, fors’anche non troppo dispiaciuto che a vincere fosse il suo compagno di squadra, tentò in modo poco convincente un attacco ma poi desistette. Con il gruppo ormai rialzato, il parmense riscrisse la storia vincendo l’iride con 9’50” sul belga Herman Van Springel e 10’18” su Michele Dancelli, che conquistò il bronzo al termine d’una volata tra sei azzurri. Per l’Italia si trattò d’un trionfo paragonabile al primo mondiale, quando nel 1927 al Nurburing quattro italiani si piazzarono ai primi quattro posti. Per Adorni fu un’impresa senza precedenti che mai verrà eguagliata in futuro.

Il titolo iridato arrivò nel momento in cui Vittorio si era già proiettato verso il futuro. Da qualche settimana, infatti, affiancato da Liana Orfei, conduceva Ciao Mamma, un quiz televisivo, i cui ascolti schizzarono alle stelle dopo l’impresa imolese. Passato nel 1969 alla nuova formazione parmense della Scic, Adorni onorò l’iride vincendo al Giro la tappa di Folgarida, il Giro di Svizzera ed il Campionato italiano quell’anno corso in coincidenza con il Giro della Provincia di Reggio Calabria, in cui precedette in volata Vito Taccone. Alla fine della stagione 1970, alla relativamente giovane età di 33 anni, abbandonò l’attività agonistica. Dopo una breve esperienza da Direttore Sportivo di Felice Gimondi, prima alla Salvarani poi alla Bianchi, Adorni affiancò Adriano De Zan diventando il primo ex ciclista a svolgere il ruolo di commentatore tecnico televisivo, posto che mantenne fino alla metà degli anni novanta.

Non posso, in conclusione, non esimermi da una nota personale. Se oggi sono qua a scrivere di ciclismo, lo si deve a Vittorio Adorni. Mio padre, Antonio Gambino, era suo tifoso. Io ho cominciato a seguire le corse, a sette anni, iniziando proprio dal Giro d’Italia 1965, quello da lui dominato. Era questo una curiosità che stuzzicava non poco Adorni quando ci trovavamo, portandoci ad entrare subito in confidenza. Addio Vittorio, ci mancherai.

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