L’attrice Carmen Di Marzo a TPI: “Le mie Partigiane, protagoniste della Storia”
L’artista napoletana porta in scena “Il Cuore Inverso”, un monologo sulle staffette della Resistenza, che unisce memoria e attualità. “Rivedo lo stesso coraggio nelle inviate di guerra o nelle attiviste in Iran o della Global Sumud Flottilla”, spiega a TPI
L’entusiasmo travolgente che trapela dalla voce persino attraverso il telefono, dimostra appieno quanto, l’attrice e cantante napoletana Carmen Di Marzo (“Il Flauto Magico”, “I bastardi di Pizzo Falcone”, “Arrivano i Prof”) abbia lavorato e quanto ci tenga a portare in scena il monologo “Il Cuore Inverso”, scritto da Nando Vitali, diretto da Paolo Vanacore e prodotto da Nomade Film, che dopo la scena napoletana, debutterà il 28 e il 29 ottobre nella rassegna “A Porte Aperte” al Teatro Vittoria di Roma, per poi andare in tournée in tutta Italia.
«Erano quasi quindici anni che volevo portare in scena la storia di una donna partigiana», ci racconta Carmen Di Marzo. «Avevo letto dei soggetti, ma non mi avevano convinto perché erano retorici e prevedibili. Il tema della Resistenza è abbastanza saccheggiato dal teatro, dal cinema e dalla letteratura, ma io volevo trovare qualcosa di diverso. Un giorno Paolo Vanacore, il regista di questo spettacolo, mi ha proposto di leggere un testo dello scrittore Nando Vitali, che è un suo amico, ed ho trovato la storia che stavo cercando da anni. Una vera fortuna perché, mi ha raccontato Vitali, era la prima volta che scriveva per il teatro».
Cosa l’ha convinta?
«Mi sono innamorata di questo personaggio, Lauretta, perché non è solo il racconto di una donna che fa parte di una staffetta partigiana. Vitali è riuscito a visualizzare solo con le parole, l’energia femminile. Attraverso lo studio e la lettura del testo, ho compreso ancora di più che senza le donne la Resistenza non sarebbe stata la stessa».
Il ruolo delle donne è stato determinante?
«Decisamente e proprio nelle dinamiche della Resistenza. In questo testo vengono descritte in maniera dettagliata le staffette. Nel monologo affronto il tema della maternità fra le donne partigiane, l’amicizia, la solidarietà, la coscienza collettiva che gli dava la forza. Coscienza collettiva di cui siamo ormai totalmente privi, stiamo riscoprendo qualcosa oggi di fronte al genocidio e allo sterminio dei palestinesi. Un testo quindi, che ha anche un gancio molto concreto con la contemporaneità».
Il testo si ispira anche alla storia di Iole Mancini, l’ultima staffetta partigiana morta l’anno scorso all’età di 104 anni.
«È un omaggio alle donne partigiane e a Iole Mancini. Quando è scomparsa, noi stavamo preparando lo spettacolo, così abbiamo pensato di inserire un ricordo di Iole. Il monologo è romanzato, ma si basa su delle informazioni solide, reali. Abbiamo informato Nando che volevamo inserire anche la sua storia e così ci siamo documentati su di lei e ci siamo riusciti. Sono convinta che si arrivi molto più facilmente al pubblico quando quello che racconti, è credibile».
Cosa l’ha colpita di queste storie?
«Il coraggio di queste donne, che in alcuni casi erano appena adolescenti. Lauretta, il mio personaggio, è una giovane donna che a un certo punto rimane incinta, ma non si ferma. Queste partigiane, indipendentemente dalla condizione in cui si trovavano, continuavano a combattere, attraversavano i posti di blocco in bicicletta, portavano messaggi, nascondevano armi, dietro un filo di rossetto e un sorriso. Ecco, quando mi sono documentata sul loro ruolo nella guerra, questo coraggio mi ha lasciato veramente sconvolta, perché dell’importanza che hanno avuto le donne nella resistenza, se ne parla poco, mentre avevano la responsabilità enorme delle comunicazioni e di mettere in comunicazione i vari gruppi di partigiani. C’era un coordinamento senza alcuna tecnologia che faceva paura. Un’altra cosa che mi ha colpito è la lealtà. Ho letto una dichiarazione di Iole Mancini che, arrestata e sotto interrogatorio dei fascisti, non rivelò mai dove fosse suo marito. Mi sono sentita, nei suoi confronti, piccola, piccola».
Oggi riesce ad intravedere un po’ di questo coraggio?
«L’ho visto nelle giornaliste inviate di guerra, nelle attiviste a difesa dei diritti in Paesi come l’Iran e nelle donne e negli uomini di tutte le nazionalità che sono andati in missione con la Global Sumud Flottilla, come la mia amica giornalista, Barbara Schiavulli. Quando ho visto tutte quelle barche, quelle persone armate solo di umanità, ho visto quel grande coraggio. Lo stesso che ho intuito nelle storie delle partigiane. Erano donne moderne, perché non si consideravano solo strumento di maternità, ma si sentivano protagoniste della storia esattamente come gli uomini e tali erano considerate. Spero che questo spettacolo abbia una lunga vita, e spero di portarlo anche nelle scuole».
La scelta del monologo non è per ogni pubblico, non trova?
«Guardi, noi l’abbiamo testato a Napoli l’anno scorso ed è andata bene, perché abbiamo avuto un pubblico estremamente eterogeneo. Sono venuti a vedermi anche adolescenti. Molte delle storie che racconto hanno come protagoniste adolescenti e persino bambine di 13 anni che non fuggivano. Non scappavano. È qualcosa che oggi impressiona davvero».
Il teatro resta un luogo ancora molto vivo e frequentato rispetto al cinema in Italia. Perché?
«Il teatro, come diceva Eduardo De Filippo, è figlio del suo tempo e nessuno mette un punto. Il teatro, soprattutto quello che mi rappresenta e che racconta storie legate al tessuto sociale, ha successo. Anche quando i temi sono un po’ ostici o scomodi. Il pubblico accorre e ti ringrazia. Sa, la televisione fa sensazione, il teatro attraverso la parola ti mette in vero contatto con il dolore. Non c’è niente da fare, l’esperienza dal vivo, avvicina il pubblico. Il cinema in sala è un’emozione enorme, ma non ha il contatto fisico con l’attore. Ci sono stati momenti, durante uno spettacolo, che il pubblico l’ho sentito sul palco. Quel silenzio che ti fa capire quanto sono attenti a ogni parola che pronunci. Un film adesso poi, lo puoi vedere anche sulle piattaforme, a casa, mettendo in pausa e facendo altre cose. Purtroppo è così. Il teatro, invece, lo puoi fare solo in mezzo alla gente. Ha questa caratteristica unica ed è il motivo per cui non morirà mai».
Si divide fra teatro, cinema e televisione. È in “Mare Fuori”, nella serie Sky “Piedone lo sbirro” con Salvatore Esposito e nella serie di Rai 1 di prossima uscita “Roberta Valente – Notaio a Sorrento”. Torniamo sempre in Campania, perché sembra che oggi sia l’unica garanzia di successo.
«Da napoletana posso dire che è vero: c’è un’esplosione però poggia su basi solide. Noi abbiamo una grande tradizione artistica, teatrale, a partire da Eduardo De Filippo, per continuare con una tradizione musicale, penso a De Simone, e cinematografica importante e di tutto rispetto. Paolo Sorrentino ha vinto un Oscar! Abbiamo una storia unica in Italia. Credo che il successo di Napoli e di tutto quello che è connesso alla sua arte sia legato alla sua forte identità, che comprende la sua lingua e la sua filosofia di vita. Mi piace dire questa cosa: esistono le città e poi esiste Napoli. Pensiamo anche alle sue contaminazioni con la Grecia, la Francia, la Spagna, alla sua fantastica posizione geografica. Napoli ha un’identità così potente che oscura tutto il resto».
È tutto vero, però oggi mi sembra un approccio più modaiolo che di conoscenza della cultura partenopea. Nella musica, per esempio, ci sono rapper che inseriscono barre in napoletano pur non essendo nati né a Napoli, né in Campania.
«È vero, c’è un’eccessiva esposizione, perché sembra che tutto quello che artisticamente esca da Napoli, sia figo, bello, e soprattutto faccia successo. È in atto una cannibalizzazione che non si era mai realizzata prima. E che prima o poi finirà. Ma non sono preoccupata perché la cultura, la tradizione, la storia partenopea è talmente forte, talmente radicata che resiste a tutto. La nostra creatività è originale, brillante, unica. Posso capire il successo di oggi. Ho visto ragazzi ascoltare musica napoletana da Nord a Sud. Spero solo che il pubblico vada un po’ più in profondità, che non si fermi a una conoscenza superficiale della nostra cultura».