L’industria del Junk Food che ci mangia: ecco quali sono gli effetti del cibo spazzatura sulla nostra salute
Snack, dolciumi, surgelati: i cibi ultra-processati sono ormai parte della nostra dieta. Malgrado la convenienza però rappresentano uno dei principali fattori ambientali e culturali collegati alla diffusione globale dell’obesità. Il loro consumo poi è associato a una maggiore mortalità e a 32 patologie, compresi disturbi mentali, diabete e malattie cardiovascolari
Patatine fritte in busta, pizza surgelata, pane bianco, dolciumi industriali, bibite gassate, ma anche biscotti proteici, cibi vegetariani congelati e altre insospettabili pietanze presenti nella nostra dieta. A meno di non consumare esclusivamente alimenti a chilometro zero, la probabilità di ingerire cibi ultra-processati è infatti piuttosto elevata e ben poco salutare. Ricchi di zuccheri, sodio, grassi saturi e carboidrati raffinati e poveri di nutrienti come fibre, vitamine e minerali, sono spesso più economici rispetto ad alimenti più sani, proprio per la loro natura di prodotti industriali. Ma il consumo di questo cibo spazzatura aumenta il rischio di sviluppare sovrappeso e l’insorgenza di malattie. Il cosiddetto “junk food”, espressione resa popolare nel 1951 dal divulgatore scientifico statunitense Michael Jacobson, costituisce, non a caso, uno dei principali fattori ambientali e culturali collegati alla diffusione globale dell’obesità.
Classificazione “Nova”
Ma quali sono i cibi che rientrano in questa definizione? La classificazione degli alimenti dipende spesso dalle caratteristiche e dalle proprietà nutrizionali dei diversi cibi, divisi ad esempio in verdure, frutta, cereali, prodotti lattiero-caseari, carne, pesce, etc. Nel 2009 però il professor Carlos Monteiro, ricercatore del Centro per gli studi epidemiologici sulla salute e nutrizione dell’Università di San Paolo in Brasile, cominciò a lavorare a un sistema di classificazione alimentare, poi denominato “Nova”, che tenesse conto anche della trasformazione dei cibi e non solo delle loro proprietà originarie. Sette anni dopo, nel 2016, pubblicò una serie di criteri per suddividere gli alimenti in base al livello e al motivo della loro lavorazione, classificandoli in quattro diversi gruppi: «freschi o minimamente processati», in cui ricadono «parti commestibili di piante (semi, frutti, foglie, steli, radici) o di animali (muscoli, frattaglie, uova, latte), nonché funghi, alghe e acqua, trasformati o conservati mediante processi industriali minimi (senza aggiunta di altre sostanze)»; «ingredienti culinari trasformati», in cui sono comprese «sostanze ottenute da processi industriali (quali pressatura, raffinazione, macinazione, fresatura ed essiccazione) su alimenti freschi utilizzati per preparare, cucinare e condire (ad esempio oli, grassi, zucchero, miele, sale)»; «alimenti processati», ossia cibi freschi «trasformati dall’industria con l’aggiunta di sale, zucchero, oli o grassi per conservarli e migliorarne le qualità organolettiche»; e infine «alimenti ultra-processati», che contengono almeno cinque ingredienti derivati da altri cibi freschi o processati chimicamente a cui sono stati aggiunti additivi che li rendono «iper-palatabili», quali «zucchero, oli, grassi, sale, antiossidanti, stabilizzanti e conservanti».
Esempi tipici di prodotti ultra-processati comprendono: bevande gassate; snack confezionati, sia dolci che salati; gelati non artigianali, cioccolatini, caramelle e dolciumi industriali in genere; pane e panini confezionati prodotti in serie; margarine e creme spalmabili; biscotti, pasticcini, torte e preparati per torte; cereali per la colazione, barrette di cereali ed energetiche; bevande energetiche; bevande a base di latte, yogurt alla frutta e bevande alla frutta; bevande al cacao; estratti di carne e pollo e salse istantanee; alimenti per lattanti e altri prodotti per neonati; prodotti dimagranti pensati come sostituti dei pasti e alimenti in polvere o arricchiti chimicamente; e tante pietanze pronte da scaldare, tra cui torte, paste e pizze surgelate; crocchette e bastoncini di pollame e pesce, salsicce, hamburger, hot dog e altri prodotti a base di carne, nonché zuppe e dessert istantanei in polvere e confezionati. Va detto che questa classificazione, riconosciuta dall’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) e dalla Fao, non distingue i cibi in buoni e cattivi: in alcuni casi infatti gli alimenti trasformati possono essere arricchiti con vitamine o puliti per rendere il nostro cibo più sano e sicuro. Generalmente però, passando dal primo al quarto gruppo, diminuiscono sia il prezzo che il tempo necessario per cucinare un pasto, oltre che le sue proprietà nutrizionali.
Impatto sulla salute
Ma quali conseguenze hanno sul nostro corpo i prodotti alimentari ultra-processati? Uno studio pubblicato l’anno scorso sul British Medical Journal (Bmj), che ha esaminato 45 ricerche internazionali condotte su quasi 10 milioni di persone per valutare le associazioni tra “junk food” e problemi di salute, suggerisce che il consumo di questi cibi sia collegato a una maggiore mortalità e all’insorgenza di almeno 32 patologie, comprese malattie cardiovascolari, disturbi mentali e diabete di tipo 2.
Malgrado la correlazione evidenziata, lo studio citato non ha però stabilito con certezza come e perché gli alimenti ultra-processati possano causare problemi di salute. I ricercatori hanno comunque ipotizzato che la sostituzione di opzioni alimentari più nutrienti, tra cui frutta e verdura fresca, con cibi spazzatura potrebbe esporre le persone a combinazioni di più additivi nocivi e aumentare, attraverso una sorta di “effetto cocktail”, il rischio di insorgenza di patologie infiammatorie croniche. Una recente ricerca della Florida Atlantic University, condotta su quasi 10mila pazienti negli Usa e pubblicata a settembre sulla rivista scientifica The American Journal of Medicine, mostra che un consumo a lungo termine e in grandi quantità di alimenti ultra-processati provoca livelli significativamente elevati di infiammazione sistemica associati, a loro volta, a diverse malattie cronico-degenerative, come l’obesità, tumori e patologie neuro-degenerative. Ma, al di là dei rischi generici per la salute, esiste una correlazione diretta tra consumo di “junk food” e obesità?
Correlazione con il peso
Uno degli studi revisionati dalla ricerca citata dal Bmj, pubblicato sulla rivista Cell Metabolism e condotto nel 2019 su 20 adulti sani e in sovrappeso ricoverati in una struttura sanitaria negli Stati Uniti, ha mostrato una correlazione tra il consumo di “junk food” e il peso corporeo. A una parte dei partecipanti è infatti stata somministrata una dieta a base di alimenti ultra-processati per 14 giorni, mentre nello stesso periodo l’altro gruppo consumava solo cibi non trasformati. In seguito, entrambi sono passati all’altro tipo di dieta per altre due settimane. Tutti consumavano tre pasti al giorno, in cui potevano mangiare liberamente nell’arco di 60 minuti. Ogni pasto conteneva il medesimo numero di calorie, grassi, carboidrati, proteine, fibre, zuccheri e sodio: in un caso l’83,5% delle calorie proveniva da alimenti ultra-processati; nell’altro l’83,3% da cibi non trasformati. Alla fine è emerso che, nell’arco di due settimane, chi aveva assunto “junk food” aveva mediamente aumentato il proprio peso corporeo di 900 grammi, proprio quanto avevano perso i partecipanti al gruppo che aveva consumato soltanto alimenti non trasformati.
Tuttavia, come ammesso da uno degli autori Kevin D. Hall, malgrado il legame tra aumento di peso e consumo di alimenti ipercalorici e iponutrizionali sembri consolidato, finora nessuno studio ha dimostrato in via definitiva un nesso di causalità. Il sospetto però, come ha spiegato a Bloomberg Tera Fazzino, direttrice del Cofrin Logan Center for Addiction Research & Treatment presso l’Università del Kansas, è che i cibi iper-appetibili e ultra-processati possano creare dipendenza e interrompere i meccanismi con cui il corpo ci segnala il senso di sazietà. Al momento non esistono conclusioni definitive ma l’industria sembra disposta ad approfittarne.
Effetto marketing
Le abitudini alimentari infatti, come certificato anche dall’Oms, non sono sempre una questione di scelta individuale ma possono essere influenzate da fattori commerciali. Il marketing può condizionare, in particolare, le preferenze alimentari dei più giovani. La distribuzione capillare e lo strategico contenimento dei prezzi di cibi ultra-processati, ipercalorici e poveri di nutrienti contribuisce, secondo l’agenzia Onu, all’aumento della prevalenza dell’obesità. Un problema che affligge soprattutto i bambini, più sensibili al marketing.
Una revisione sistematica di vari studi scientifici condotta nel 2022 da un gruppo di ricercatori britannici e pubblicata su Obesity Reviews mostra come limitare l’esposizione dei più giovani a questi messaggi provochi un impatto positivo sulla riduzione del loro consumo di alimenti non sani. Ai minori compresi tra i 7 e i 15 anni di età bastano infatti cinque minuti di pubblicità di questo genere di cibi per aumentarne di 130 kcal il consumo medio giornaliero.
Ma la mancanza di una regolamentazione chiara del settore, come sottolinea l’ultimo rapporto dell’Unicef intitolato “Feeding Profit”, costituisce un problema cruciale per la diffusione dell’obesità tra i più giovani. Secondo uno studio condotto dall’agenzia Onu nel 2024, citato nel rapporto, su 64mila ragazzi intervistati tra i 13 e i 24 anni, il 75% era stato esposto a pubblicità di cibo spazzatura nella settimana precedente la rilevazione, il 60% di loro aveva poi acquistato almeno un prodotto zuccherato, il 32% una bevanda gassata e il 25% un alimento ultra-processato contenente alti livelli di sodio. Non sorprendono allora i dati rilevati sulla popolazione mondiale.
Il panorama globale e italiano
Per la prima volta nella storia infatti il numero di bambini obesi nel mondo ha superato quello dei giovani sottopeso. Secondo il rapporto dell’Unicef, almeno uno su 10 adolescenti e bambini in età scolare soffre di obesità. Parliamo di circa 188 milioni di giovani. Un problema che riguarda soprattutto i Paesi a basso e medio reddito e che l’agenzia Onu associa alla sempre più capillare diffusione di alimenti ultra-processati, che ormai «dominano nei negozi e nelle scuole». L’Italia non fa eccezione: secondo i più recenti dati del World Obesity Atlas 2024 infatti oltre 3,3 milioni di minori italiani sono in sovrappeso o obesi. Ma non solo.
Malgrado rappresenti solo il 6% del totale del cibo consumato ogni giorno nel nostro Paese, secondo uno studio coordinato dalla direttrice del Reparto Alimentazione, Nutrizione e Salute dell’Istituto superiore di sanità (Iss) Laura Rossi pubblicato sulla rivista Frontiers in Nutrition, il “junk food” contribuisce al 23% dell’apporto energetico giornaliero degli italiani. Una percentuale quasi raddoppiata negli ultimi 20 anni (nel 2006 il dato era fermo al 12% mentre il consumo non superava il 5%). Una crescita ancora contenuta ma che dovrebbe mettere sull’avviso le istituzioni. Entro il 2035, infatti, secondo le più recenti stime pubblicate dalla World Obesity Federation, il costo totale delle terapie dovute a malattie insorte in pazienti in sovrappeso o obesi supererà i 4.000 miliardi di dollari all’anno.
Intervento pubblico
Ma come potrebbe intervenire lo Stato? Da parte sua, Unicef ha invitato governi e decisori pubblici a vietare il cibo spazzatura e la sua commercializzazione nelle scuole; a finanziare programmi rivolti a famiglie vulnerabili perché possano permettersi diete nutrienti; a imporre tasse e restrizioni al marketing dell’industria del junk food e ad approvare incentivi per favorire la diffusione di stili di vita e regimi alimentari più sani.
Un esempio è la cosiddetta “sugar tax”, la cui entrata in vigore in Italia è stata posticipata più volte. Introdotta con la Legge di Bilancio 2020, la sua applicazione è stata rinviata al gennaio prossimo e prevede un’imposta aggiuntiva di cinque centesimi al litro sulle bevande zuccherate e di 13 centesimi al chilo per i prodotti zuccherati «previa diluizione», che dopo il primo anno saliranno rispettivamente a 10 e 25 centesimi.
Già in vigore in Norvegia, Finlandia, Francia, Spagna, Polonia, Ungheria, ha debuttato nel 2018 nel Regno Unito con risultati incoraggianti. Nel giro di tre anni infatti, secondo uno studio pubblicato da un gruppo di ricercatori dell’Università di Cambridge sul Journal of Epidemiology and Community Health, questa misura fiscale ha dimezzato la quantità di zuccheri assunta dai giovani britannici consumando bibite analcoliche. Speriamo porti gli stessi risultati anche da noi visto che, se non invertiamo l’attuale tendenza, entro dieci anni potremmo ritrovarci con quasi metà della popolazione più giovane in sovrappeso.