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Home » Politica

Vaccari (Pd) a TPI: “Tutti sostenemmo all’unanimità il Conte-bis: lo ricordo agli smemorati tra i dem”

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Parla il responsabile organizzazione del partito. L'intervista sul nuovo numero del settimanale di The Post Internazionale, in edicola da venerdì 22 luglio

Stefano Vaccari, la crisi politica del governo Draghi ha messo a rischio l’alleanza del cosiddetto campo largo con il M5S e con gli altri partiti della coalizione?

«Faccio una premessa: nelle ultime amministrative io, anche di persona, per via dell’incarico che ricopro, ho partecipato alla costruzione di questa alleanza, nei territori: sono, siamo andati comune per comune, città per città».

Lo dice perché è stato sodisfatto o no del risultato?

«Beh, certo: un grande successo. Sia per noi, sia per la coalizione. Abbiamo aumentato il numero delle amministrazioni di centrosinistra rispetto al primo turno e rispetto a 5 anni fa».

Cosa ha imparato da questa esperienza ravvicinata?

«Stando sul campo, potendo vedere crescere le esperienze, nei luoghi più diversi, mi sono convinto che in tre anni, con Zingaretti e Letta, siamo riusciti a ricostruire una fiducia che nel 2018 era al punto più basso della nostra storia: abbiamo capito gli errori e da lì siamo ripartiti».

Cosa vi tiene uniti?

«Una idea forte. Quella di contribuire tutti all’idea che il progresso del Paese e la protezione dei ceti più deboli, siano una missione decisiva, comune e condivisa. A partire dalle città».

Lo dice lei, ma tutti gli altri condividono?

(Sorriso). «Veramente lo ha detto, più o meno con le stesse parole, Enrico Letta tre giorni fa alla festa di Roma. Sono io che condivido quello che dice il mio segretario».

E che contorni traccia, dell’alleanza, avendo potuto sperimentare ogni possibile variante?

«Tutte le forze civiche progressiste e popolari possono lavorare insieme e contribuire, per costruire una alternativa alle destre in questo Paese. Senza veti e al di là delle sigle».

La crisi del governo non mette in discussione il patto con i Cinque Stelle per voi?

«Su ciò che è successo discuteremo seriamente ma voglio ricordare a qualche smemorato nel Pd che tutti scegliemmo all’unanimità di dare vita al Governo Conte 2 nel 2019 per salvare il Paese dalle destre, con voti in direzione nazionale e applausi scroscianti alla riunione dei gruppi».

Questo cosa vuol dire?

«L’esperienza di questi anni ci dice che più alta è la sintesi sulle idee per dare risposte ai problemi del Paese, migliore è il risultato, oltre i politicismi e le formule a tavolino».

Stefano Vaccari, responsabile organizzazione del Partito democratico dal 2019 è un giovane dirigente di vecchia scuola. È un modenese di ferro, di Nonantola (rosso comune del Modenese) che fu scelto da Nicola Zingaretti per ricostruire la macchina stremata del partito dopo la stagione renziana. Vaccari è stato riconfermato dal segretario Letta, uno dei pochi della prima fila che ha lavorato con entrambi i leader.

Vaccari, rimettere in piedi la macchina che un tempo era un gioiello organizzativo, la sua missione, non è facile.

(Sorriso). «Dice?».

Veniamo da anni di teorizzazioni su fondazioni, correnti, partiti leggeri.

«Noi oggi abbiamo una missione chiara».

Quale?

«Ricostruire una dimensione del partito come comunità centrale della politica per dare piena attuazione all’art. 49 della Costituzione».

Cosa intende?

«La versione più semplice di quello che ho appena spiegato: un partito non è un organigramma. Ma piuttosto gente che si riunisce, discute, che si occupa dei problemi reali delle persone, nel Paese e nei territori e prova ad essere utile alla loro soluzione. Non esiste ancora un’altra risposta per organizzare la vita democratica in Italia».

Perché, non era più così?

«Vuole una risposta sincera? Purtroppo no, non era più così».

È una risposta molto poco rituale.

«Però è la verità. Quando ho assunto questo incarico, nel giugno del 2019, se lei avesse girato i circoli con me, avrebbe scoperto che in molti casi, e in diversi territori, purtroppo era un altro il modello imperante».

Quale?

«Il rischio era che in breve ci ritrovassimo ancora un partito fatto solo di comitati elettorali, gruppi di potere, di circoli che nascevano in un posto, o in un altro, solo per sostenere l’interesse passeggero di questo o di quel candidato. E dopo il voto per cui erano nati, inevitabilmente, questi circoli sparivano, lasciandosi alle spalle il vuoto».

Come dovrebbe funzionare il moderno partito che lei immagina?

«Un partito moderno, oggi, deve avere una funzione di relazione forte con i corpi intermedi, il terzo settore, le persone impegnate fuori dai partiti. Le Agorà democratiche sono state una innovazione unica nel suo genere, che ci ha riconnesso con pezzi di società».

E poi?

«Deve rammendare le ferite della società. Deve essere uno strumento, un patrimonio comune, digitale e fisico, per le persone che vi militano e per chi lo vota. Patrimonio democratico e trasparente».

In che senso?

«Bisogna abbandonare definitivamente l’idea dell’autosufficienza, di un uomo-solo-al-comando, che per noi, in passato, è stato il punto di partenza da cui è nata l’involuzione che ho descritto prima».

Se lei fa il tagliando al partito di cui adesso guida la macchina organizzativa che cosa vede?

«Posso registrare degli importanti segnali di controtendenza».

Ad esempio?

«Due, su tutti. Sono – contemporaneamente – aumentate, in questi anni, sia le adesioni al partito che la raccolta del due per mille sulle dichiarazioni dei redditi».

Crescono gli iscritti?

«Pensi che avevamo 412mila tessere nel 2019. E che nel 2020, in sette mesi, avevano già fatto lo stesso numero di tessere quando ci sorprese la pandemia».

E adesso?

«Con il tesseramento digitale avviato nell’aprile 2022, possiamo superare il dato del 2019 come dato di proiezione».

Soddisfatto?

«Certo. Mi dice che quando investi su una comunità, dai il senso concreto di una apertura, valorizzi il ruolo dei circoli e dei gruppi dirigenti, ritrovi subito la fiducia, anche quella di chi si era momentaneamente disamorato».

E il due per mille, invece?

«Quello è un dato ancora più incoraggiante».

Perché lo dice?

«Perché è frutto delle donazioni volontarie che i cittadini hanno fatto al momento della dichiarazione dei redditi. Non c’è stata nessuna nostra mediazione ma solo l’invito a sostenerci in modo trasparente. La gente, andando a pagare le tasse, ha liberamente scelto di destinarci quella quota».

Lei considera quel risultato un grande risultato.

«Sì, perché il Pd è risultato il primo partito fra tutti quelli che i cittadini hanno scelto compilando il loro Unico. Non era sicuro, e men che meno scontato».

Cosa ha interrotto quella spirale negativa?

«Il partito dell’uomo solo al comando, orpello e non intelligenza collettiva, strumento utile sia che tu governi o no, aveva fatto perdere per strada molte persone che non accettavano l’idea di un partito personale».

Oltre le rose ci sono anche le spine, però.

«Un grande partito plurale è più faticoso da gestire di un piccolo partito monolitico. Rammendare è più difficile che strappare».

Ma ci sono altri indicatori incoraggianti?

«Quest’anno organizzeremo oltre 600 feste dell’unità: grandi, piccole, nelle città, nei quartieri e soprattutto tante al sud, dove non ce n’erano più!».

Feste Democratiche, intende?

«No, dell’Unità. Abbiamo ripreso il vecchio nome, senza più un riferimento al giornale, se non quello storico, ma mettendo in luce la parola Unità, che oggi è più attuale che mai».

Renzi aveva cambiato nome anche alle feste.

«E noi in questo modo lo abbiamo recuperato, perché guardiamo al futuro con grande rispetto per il passato».

A settembre tornerete per la prima al Sud con la festa Nazionale.

«Sì, perché la festa del Pd deve idealmente unire tutto il Paese. Pensi che di queste “nuove” Feste dell’Unità solo l’Emilia Romagna ne fa 350!».

Le feste guadagnano ancora?

«Sono, anche, una grande opportunità di autofinanziamento. E un grande strumento perché i cittadini sentano il Pd al loro fianco».

Lo sa che noi di TPI verremo a fare la nostra festa da voi, in Emilia Romagna, nel luogo simbolico della Bolognina?

(Sorriso). «Vi troverete benissimo. Quella è un’area in cui un tessuto di imprese e associazioni ha restituito alla società uno spazio pubblico per eventi di valore culturale e civile».

Com’è il vostro rapporto con le cooperative, oggi?

«Oggi non ci sono più le vecchie cinghie di trasmissione, ognuno ha la sua autonomia, ma tra il Pd e le Coop c’è un rapporto di collaborazione e di comune interesse».

E come lo descriverebbe?

«C’è una condivisione di valori e di obiettivi, c’è un lungo filo che parte dal Novecento e ci lega ancora oggi. Nella difesa dei più deboli, per la coesione e giustizia sociale».

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