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Famiglie arcobaleno, giovani, disoccupati, femministe, ambientalisti: cercasi partito per non rappresentati

Immagine di copertina
Credit: AGF

Famiglie arcobaleno, giovani, disoccupati, femministe, ambientalisti. Sempre più gruppi sociali non si sentono ascoltati dal potere. E il dissenso assume forme estreme. Come nei blitz di Ultima generazione. Così l’Italia rischia di fare la fine della Francia

Immaginate un Paese travolto da una crisi economica senza precedenti, con l’inflazione alle stelle, intere generazioni senza lavoro o con un impiego così precario e mal pagato che spesso, per arrivare a fine mese, bisogna svolgerne almeno due e un governo di destra-destra che ha appena smantellato una misura di solidarietà sociale indispensabile come il Reddito di cittadinanza. Immaginate poi, nello stesso Stato, un dibattito surreale su presidenzialismo, premierato, sindaco d’Italia e altre “innovazioni” volte a comprimere ulteriormente il confronto democratico e il ruolo essenziale del Parlamento.

Immaginate, infine, nello stesso Paese, un ministro “dell’Istruzione e del Merito” che qualche mese fa ha teorizzato l’umiliazione come elemento formativo nel processo di crescita di ragazze e ragazzi, altri esponenti dello stesso esecutivo che passano le giornate a inventare sanzioni ai danni di chi organizza i vituperati “rave party” e un’occupazione senza precedenti di tutti gli incarichi pubblici: dalle aziende di Stato alla Rai, presidio indispensabile per sradicare l’odiata egemonia culturale della sinistra e crearne una al passo coi tempi e, soprattutto, con le idee del nuovo ceto dominante. Ebbene, quel Paese è l’Italia. 

Scuola senza conflitto
Come ha scritto recentemente Christian Raimo su Domani: «Un osservatorio privilegiato per capire come nel tempo si sia degradata l’educazione alla democrazia è la storia dei movimenti studenteschi degli ultimi 25 anni. Di fatto, dopo Genova, l’ultima mobilitazione larga c’è stata sul finire degli anni Zero con l’Onda. Ancora sono in carcere manifestanti del 2001 e del 2010».

In effetti, pur volendo essere meno pessimisti di Raimo, è vero che da allora la scuola è stata ridotta a un santuario della burocrazia, per lo più inutile, promuovendo, a causa di una serie di riforme sbagliate e dannose, un sapere tecnocratico che nulla ha a che spartire con la coscienza critica e la passione civile che dovrebbero, invece, fiorire fra i banchi. Non a caso, nell’articolo, oltre a menzionare il cinquantesimo anniversario dei decreti delegati, da celebrare senza enfasi ma con la dovuta riconoscenza nei confronti di chi consentì al nostro sistema di istruzione di raggiungere quella conquista, viene stigmatizzata la repressione cui sono stati sottoposti, nell’ultimo anno, i movimenti studenteschi, fra «sospensioni, sei in condotta ed eliminazione dei viaggi d’istruzione».

Questo disincentivo alla partecipazione democratica, questo svilimento di ogni spazio collettivo, questo tentativo di convincere le nuove generazioni a rassegnarsi a uno schema individualista e thatcheriano, in base al principio per cui tanto «non ci sono alternative» al modello dato, «hanno ridotto – scrive ancora Raimo – il concetto stesso di democrazia a scuola al suo opposto: un posto in cui bisogna essere d’accordo con chi ha il potere».

La rabbia e la protesta
Sullo stesso giornale, la filosofa Giorgia Serughetti ha spiegato, da par suo, per quale motivo la contestazione alla ministra Roccella al Salone del libro di Torino sia stata sacrosanta. Scrive Serughetti: «Nel momento in cui è salita sul palco per presentare il suo libro, sono state soprattutto ragazze, attiviste di Non una di meno ed Extinction Rebellion, a levare la voce contro di lei. L’episodio è significativo sotto tre aspetti. Innanzitutto, per ciò che rivela del rapporto tra il governo Meloni e le manifestazioni di dissenso». Effettivamente, nel contesto di sottomissione volontaria da parte di molti, acuita dal colpevole silenzio di una parte della stampa e dal clima di “condivisione”, in nome di un presunto “interesse nazionale”, che caratterizza alcuni talk show, ci si è disabituati alle proteste collettive e al confronto, anche aspro, con il disaccordo su questioni cruciali.

Scrive ancora Serughetti: «Se anziché il dito si guardasse la luna, non sarebbe difficile vedere quante ragioni sono dalla parte di chi grida la sua rabbia. Ci sono i servizi per l’interruzione di gravidanza ridotti allo stremo, di fronte a cui il governo chiude gli occhi parlando di un “diritto a non abortire”; ci sono genitori non biologici, in famiglie omogenitoriali, il cui nome viene cancellato dagli atti di nascita dei figli; ci sono giovani a cui un “futuro più vivibile”, come chiedono le contestatrici, viene sottratto».

E poi ci sono gli altri due aspetti della contestazione che meritano di essere presi in considerazione. La reazione della Roccella, che ha gridato contro l’utero in affitto, da noi non previsto, per non ammettere il sostanziale rifiuto di questa destra di riconoscere le famiglie “arcobaleno”. E infine la disparità di potere e visibilità fra una ministra, che può far sentire la propria voce come e quando vuole, e chi non ha più alcuno spazio a disposizione, né mediatico né politico, per esprimersi liberamente, dunque è tentato di ricorrere a forme di contestazione radicali che mancavano esattamente dai tempi di Genova.

Cambiamenti climatici
In conclusione, ci sono le ragazze e i ragazzi di Ultima generazione. Ora, premesso che imbrattare monumenti, colorare l’acqua delle fontane e compiere altri gesti esagerati, come ad esempio bloccare le strade o gettare cibo contro i quadri, è discutibile, bisogna ammettere che senza questa estremizzazione della protesta di determinati temi non se ne parlerebbe proprio.

E allora ci domandiamo: è lecito sostenere, come ha fatto Eugenia Roccella a Torino, che occorra un dialogo fra donne, anche se la pensano all’opposto su tutto? È lecito sostenere che debba essere evitato il conflitto, sempre e comunque, come vari esponenti del governo sembrano suggerire, per il solo fatto di condividere lo stesso sesso o in nome di non si sa quale “bene del Paese”?

Cambiando argomento: è lecito pretendere che si rimanga in silenzio mentre viene approvata una legge per realizzare il famigerato Ponte sullo Stretto di Messina, un’opera faraonica e inutile che dovrebbe sorgere, per giunta, in un territorio ultra-sismico? Tralasciamo il discorso sugli appalti e sulle possibili infiltrazioni mafiose, essendo contrari alla cultura del sospetto, alla gogna mediatica e al processo alle intenzioni, e concentriamoci, per l’appunto, sulla convenienza del manufatto. Ha davvero senso quest’ennesima cattedrale nel deserto?

Queste e altre sono le domande che si pongono tutti coloro che contestano l’attuale esecutivo, ma più che altro il modello economico e di sviluppo tuttora in auge nonostante i disastri che ha prodotto a livello globale, e alle quali nessuno sembra voler rispondere. E allora, da pacifisti contrari a ogni forma di violenza, siamo noi a interrogarci con angoscia: dove va a finire una democrazia in cui il popolo è costantemente inascoltato? Lo stiamo vedendo in Francia, con le manifestazioni oceaniche contro Macron sul tema dell’aumento dell’età pensionabile e, prim’ancora, con i gilet gialli.

Ciò che sfugge agli attuali padroni del vapore, non certo solo in Italia, è che persino le dittature hanno bisogno del consenso, figuriamoci le democrazie!

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