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Home » Politica

Cosa dobbiamo chiedere all’Europa, all’Italia e a noi stessi

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Daniela Rondinelli, europarlamentare M5S

Venerdì 15 maggio il Parlamento Europeo ha segnato un nuovo importante punto nel processo di costruzione europea, approvando in Sessione Plenaria ad ampia maggioranza una risoluzione che chiede al Consiglio ed alla Commissione di adottare quanto prima un ambizioso Recovery Fund. La risoluzione – che personalmente ho votato e sostenuto con convinzione – è, di fatto, una lunga lista di requisiti necessari per rendere il Fondo destinato alla ripresa economica davvero efficace e all’altezza delle sfide che ci attendono. Ma la dialettica politica di questi giorni – tanto a Roma come a Bruxelles – sul richiamo delle responsabilità reciproche mi ha fatto tornare alla mente il famoso discorso di insediamento alla Casa Bianca pronunciato da John Fitzgerald Kennedy il 20 gennaio 1961 a Washington, nel quale invitava gli americani a non chiedere cosa potesse fare il Paese per loro, ma cosa loro stessi potessero fare per gli Stati Uniti.

Anche se inserito in uno scenario politico decisamente più complesso, questo scontro dialettico lo ritroviamo anche oggi nei rapporti tra Italia e Unione Europea e ritengo cruciale stabilire a monte cosa aspettarsi dall’Europa e cosa dipende, invece, esclusivamente da noi. Negli ultimi venti anni, anche per effetto di una narrativa non sempre aderente alla realtà, l’Unione è stata da molti considerata come l’unica fonte di tutti i nostri mali.

Di certo l’UE questa fama di matrigna se l’è conquistata sul campo, a colpi di politiche di austerità e di processi decisionali non sempre democratici e trasparenti che hanno avuto come conseguenza quella di aumentare le diseguaglianze economiche e sociali negli Stati e tra gli Stati. Ma l’Unione, che lo scorso 9 maggio festeggiava i 70 anni dalla Dichiarazione di Schuman, è anche lo spazio politico che ha garantito stabilità e pace tra popoli che, fino a pochi decenni prima, decidevano la supremazia di uno sull’altro con la guerra “vera”, fatti di olocausti e massacri, ben più devastante di quelle commerciali in atto adesso – e comunque deprecabili – condotte a colpi di dumping sociale, fiscale e salariale.

Oggi non contiamo più il numero dei morti sui campi di battaglia, ma il numero delle persone che progressivamente scivolano al di sotto della soglia di povertà, incapaci di arrivare a fine mese e private dei servizi essenziali. Dietro fredde statistiche e percentuali non c’è più una morte fisica, ma quella della dignità umana. La crisi generata dalla pandemia ha reso ancor più ruvido e muscolare il confronto tra i governi nazionali e tra questi e le Istituzioni europee; accentuato dallo spettro di una recessione economica e sociale che tutti vedono avvicinarsi all’orizzonte e di fronte alla quale ogni forma di reazione appare spesso tardiva.

Eppure, dopo lo scivolone della Presidente BCE Lagarde sullo spread e le timide proposte della Presidente Commissione Von del Leyen sulla “massima flessibilità” di bilancio nel quadro del patto di stabilità, in pochi giorni abbiamo fatto più passi avanti che negli ultimi due decenni. L’amara constatazione è che per avere un’inversione di rotta è stata necessaria una pandemia capace di falcidiare migliaia di vite umane, aziende e posti di lavoro per arrivare a dire che era possibile modificare posizioni politiche ed economiche inique ed antistoriche ma che fino a poche settimane prima sembravano comunque scolpite nella pietra.

Credo che il grande cambiamento politico in atto risieda nel fatto che finalmente si stiano prevedendo meccanismi di condivisione del rischio da parte di tutti gli Stati membri, perché nessun Paese ce la può fare da solo: se affonda uno, affondano tutti. È finita l’era del dito puntato, in cui si giudicava chi era più virtuoso e chi più spendaccione, così come quella odiosa discriminazione, tanto assurda e quanto ipocrita, tra chi doveva sentirsi in colpa per non avere i conti a posto e chi invece si assurgeva a garante indiscusso della stabilità dell’euro e del benessere di tutti. Oggi diversi strumenti innovativi e inediti sono sul punto di essere disponibili per gli Stati ma ritengo opportuno attendere la fine dei negoziati, sempre pieni di trappole e insidie, per valutare gli accordi nel loro complesso e capire se per il bene del Paese sia opportuno farvi ricorso oppure no.

Di certo sappiamo che lo SURE dovrebbe intervenire per tamponare la crescente disoccupazione, così come il MES è stato rimodulato per far fronte ai costi sanitari legati alla lotta alla pandemia e la BEI, dal canto suo, promette di intervenire per sostenere i settori produttivi maggiormente in difficoltà. La BCE sembra aver recuperato il mantra di Draghiana memoria “whatever it takes”, nonostante le indebite e scomposte pressioni della Corte Costituzionale tedesca sulla politica monetaria che forse sfoceranno in una proposta di infrazione contro la Germania. Anche questa possibilità in sé è da annotare come un segno dei tempi che cambiano, così come gli equilibri e i rapporti di forza nella casa europea.

Ma tutto questo non può bastare, l’Europa deve fare ancora molto di più. Per due motivi: perché tutte le misure finora contemplate non sono orientate ad un rilancio economico e occupazionale, ma a contenere i danni sanitari, economici e sociali della pandemia. Secondo, perché tutte queste misure devono trovare una rapida declinazione nell’economia reale, altrimenti molte situazioni già fragili saranno irrecuperabili. Per questo il Recovery Fund è così importante e gli affidiamo le maggiori aspettative e speranze.

Anche per questo il nostro voto di venerdì 15 in Parlamento Europeo assume una valenza maggiore: vogliamo un Fondo per il Rilancio con una dotazione finanziaria all’altezza della sfida da affrontare, una percentuale adeguata di finanziamenti a fondo perduto per evitare di aggravare ulteriormente i debiti pubblici nazionali e scongiurare una competizione tra i titoli di debito pubblico sui mercati che alimenterebbe solo le speculazioni e le disparità tra paesi, meccanismi di governance efficaci ed efficienti, nonché criteri di accessibilità basati su principi realmente solidaristici. Insomma, non poco.

Oramai si è diffusa a macchia d’olio la consapevolezza che solo uno strumento di questa portata potrà permettere di evitare una recessione globale tanto grave quanto imprevedibile nella durata, indipendente dalla scoperta e somministrazione su larga scala di un vaccino efficace contro il Covid-19. C’è in ballo non solo la sopravvivenza di migliaia di imprese e la salvaguardia di milioni di posti di lavoro, ma anche il destino dell’Unione Europea. La speranza di molti è che l’UE possa rigenerarsi proprio partendo da questi strumenti che sono oggetto di negoziato in questi giorni.

Anche in quest’ottica vanno analizzate le nuove alleanze che si stanno consolidando in queste settimane, poiché potrebbero dar vita al nuovo blocco di Paesi che si farà carico di guidare la nuova Europa, a patto di portare progressivamente la Germania dalla parte italiana, francese e spagnola. Ma, come sostenevo in apertura, non tutte le responsabilità possono essere accollate all’Europa. Infatti, mai come adesso, l’Italia ha il dovere – verso se stessa e verso i partner europei – di cambiare volto e passo.

È evidente a tutti che la crisi sta portando gli Stati nazionali e l’UE a mobilitare una quantità enorme di capitali e di fronte a tutto questo il nostro Paese dovrà farsi trovare pronto. Dovremo dimostrare di saper investire – non banalmente “spendere” – i fondi europei con una visione di lungo periodo, facendo scelte coraggiose e in tempi brevi. Dovremo saper rivedere i nostri modelli di produzione e consumo.

Dovremo dimostrare di saper premiare il talento, le capacità e l’impegno di chi realmente vuole lavorare e produrre. Dovremo farlo snellendo la burocrazia che da sempre ci attanaglia ed eliminare quella criminalità e malaffare che si insinuano nei meandri del tessuto produttivo debole e dei grandi giri d’affari, trovando il giusto e necessario equilibrio che consente di garantire la massima legalità senza imbrigliare gli imprenditori e i cittadini di buona volontà.

Dovremo, in altre parole, dimostrare di saper immaginare e creare un Paese nuovo, più solido, efficiente e resiliente, senza snaturare se stesso ma al contempo capace di stare a pieno titolo e da protagonista in quella stessa Europa realmente unita e solidale che tutti desideriamo e per la quale lavoriamo alacremente. Il nostro Paese, quindi, avrà grandi responsabilità, complementari ma non inferiori a quelle che chiediamo a alle istituzioni di Bruxelles.

Con l’accezione “Paese”, mi riferisco sicuramente allo Stato nel suo complesso, a partire dal Governo fino alle sue articolazioni territoriali e regionali che avranno grandi responsabilità nella declinazione a livello locale di questi processi. Mi riferisco all’insieme della nostra classe dirigente, includendo le parti sociali e la società civile organizzata in senso lato. Ma questo rinnovamento, proprio come sosteneva Kennedy nel suo discorso, non ci sarà senza una nuova etica che tutti – governanti e cittadini – dovremo mettere al servizio del vicino, della collettività e del Paese. Non credo di peccare di ottimismo se ritengo che noi italiani siamo in grado – tutti insieme – di effettuare questo passo avanti per il bene nostro e dei nostri figli.

La nostra virtù, più forte della somma di tutte le nostre debolezze, è sempre stata quella di tirare fuori il meglio di noi stessi nel momento di maggior difficoltà. Per qualche detrattore d’oltralpe è una banale “arte di arrangiarsi”, ma in realtà è molto di più: è essere più forti delle avversità, quali esse siano. Un’ottima pietra angolare su cui edificare un nuovo modello di convivenza e un nuovo futuro.

Leggi anche: Di fronte all’emergenza Coronavirus o l’Europa cambia, oppure muore (di Pierfrancesco Majorino)

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