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Home » Politica

Lettera a TPI: votare è democrazia, partecipare è Repubblica

Immagine di copertina
Credit: AGF

Riceviamo a pubblichiamo di seguito una lettera inviata alla nostra redazione da Francesco Miragliuolo, vicesegretario del circolo Pd di Fuorigrotta.

Spesso ricordiamo il primo articolo della Costituzione italiana, in particolare il primo comma, in cui si afferma che «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro». Tuttavia, raramente ci soffermiamo sul motivo per cui furono scelte proprio queste parole, frutto di una lunga mediazione che vide protagonisti figure come Togliatti, Aldo Moro, Tosato e Lelio Basso.

Il richiamo alla forma di Stato e alla democrazia rappresenta un esplicito riferimento al primo referendum istituzionale del 1946, nel quale tutti i cittadini italiani furono chiamati a scegliere la forma di Stato da adottare. La scelta cadde sulla Repubblica, votata direttamente dal popolo. Successivamente, venne scelta la dicitura «fondata sul lavoro» per affermare che il lavoro rappresenta un mezzo di autodeterminazione dell’uomo, uno strumento di partecipazione allo sviluppo dello Stato, ma anche un richiamo permanente alla memoria di coloro che hanno liberato il Paese: i lavoratori, gli operai, gli uomini e le donne.

Il secondo comma è, invece, quello più spesso strumentalizzato da chi si ritiene un “unto del popolo”, poiché afferma che «la sovranità appartiene al popolo». Tuttavia, si dimentica puntualmente che essa «la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». “Appartiene”, perché la sovranità nasce dal popolo e non è concessa da alcun potere superiore. In ciò si delinea la differenza con il plebiscito: è il popolo a decidere liberamente, ma sempre nel rispetto delle forme e dei limiti costituzionali. Siamo, infatti, una democrazia rappresentativa, che deve garantire la rappresentanza di tutte e di tutti. Parole semplici ma incisive, che richiamano all’importanza della partecipazione attiva.

Nel nostro ordinamento, infatti, non esistono cittadini passivi: scegliere di non partecipare equivale, in ultima analisi, ad accettare il ruolo di sudditi. Il referendum si inserisce perfettamente in questo contesto come strumento essenziale della democrazia, configurandosi come un momento in cui il popolo esercita direttamente la propria sovranità. Si tratta, infatti, di una forma di partecipazione che rompe temporaneamente la mediazione tipica della democrazia rappresentativa, permettendo ai cittadini di intervenire in modo diretto sulle decisioni fondamentali.

In questo senso, il referendum rappresenta anche una forma di “conflitto” virtuoso con il potere costituito, poiché consente al corpo elettorale di riappropriarsi in pieno del principio di sovranità, riaffermando che ogni potere esercitato dalle istituzioni trae legittimazione ultima dal popolo. È il momento di massima espressione della democrazia partecipativa: non solo perché consente di esprimere un voto su una questione specifica, ma perché richiama l’intera collettività alla responsabilità del governo della cosa pubblica.

Partecipare a un referendum significa, dunque, adempiere a un dovere civico oltre che esercitare un diritto politico, contribuendo in prima persona alla definizione dell’indirizzo politico e normativo della Repubblica. A ciò dobbiamo aggiungere che i nostri Costituenti ci hanno consegnato un mandato chiaro anche attraverso il principio di solidarietà. L’articolo che lo esprime, redatto da Giorgio La Pira, afferma che tutti — indipendentemente dalla propria provenienza — siamo tenuti a rispettare un dovere di solidarietà politica, economica e sociale nei confronti degli altri membri della collettività. E cos’è la democrazia, se non un esercizio continuo di solidarietà reciproca e di responsabilità collettiva?

L’8 e il 9 giugno rappresentano un momento cruciale, in cui ciascuno di noi è chiamato ad assumersi la responsabilità di decidere su temi fondamentali come il lavoro e l’integrazione, principi cardine della Repubblica italiana. Non possiamo voltare lo sguardo altrove, né tantomeno accettare l’invito all’astensione, proveniente — paradossalmente — proprio da chi ci governa.

Si genera così una contraddizione evidente: un governo eletto dal popolo che teme il giudizio del popolo stesso. Una dinamica che richiama il comportamento tipico degli autocrati, i quali preferiscono i plebisciti alle elezioni autenticamente libere e partecipate.

In questi anni si sta generando un paradosso sempre più evidente: votiamo più spesso — una volta l’anno, talvolta anche di più — e siamo chiamati a esprimerci su tutto, dal condominio al Parlamento europeo. Eppure, partecipiamo sempre meno. Non si discute, non ci si confronta, non si dibatte. Sembra quasi che, paradossalmente, a una maggiore disponibilità di strumenti democratici corrisponda una crescente disaffezione.

I prossimi referendum abrogativi rappresentano un’occasione per rieducarci alla democrazia, per riscoprire il valore della partecipazione. Oggi non basta oscurare il dibattito televisivo o cercare di imporre una nuova egemonia culturale fondata sulla violenza — non tanto fisica, quanto simbolica e fatta di pressione politica e comunicativa — per cancellare il significato del voto.

Votare è un diritto, ma anche un dovere. Ed è proprio questo dovere a costituire la più grande garanzia per i nostri diritti. Partecipare significa tracciare una linea verso il futuro; vuol dire dimostrare che siamo una sola voce, che nessuno può parlare al posto nostro, e che la democrazia vive solo se il popolo partecipa. L’8 e il 9 giugno non si decide solo una legge: si decide il tipo di Paese che vogliamo essere.

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