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Giorgia & Giancarlo: il governo delle due G

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La manovra ha sancito che nell’esecutivo comandano loro: Meloni e Giorgetti. Dopo gli screzi sulle nomine la premier e il ministro hanno stretto un’alleanza. A metà strada fra populismo e rigore. Così Salvini è tagliato fuori dalle scelte che contano

Lo scorso 16 ottobre, dopo il varo della manovra finanziaria in Consiglio dei ministri, Giancarlo Giorgetti si è presentato davanti alla stampa mostrando i muscoli: questa Legge di Bilancio, ha scandito il responsabile dell’Economia, «è andata a prendere a schiaffoni tutti i ministri a beneficio degli italiani che guadagnano redditi medio bassi». 

Giorgetti si riferiva ai tagli e alle rinunce che lui stesso ha preteso e ottenuto dai suoi colleghi di governo per ricavare i denari necessari a finanziare misure come il taglio del cuneo fiscale e la riforma dell’Irpef. «Avevo detto che l’impostazione della manovra sarebbe stata seria e prudente. E questo è confermato», ha rimarcato tra il soddisfatto e il sollevato. 

Il ministro dell’Economia ha pubblicamente dato merito alla «coscienza» di «tutta la classe politica che al momento è al governo del Paese» per aver accettato la spending review. La manovra, in realtà, ha suscitato più di qualche mal di pancia tra i partiti della maggioranza. Solo grazie alla solida sponda della presidenza del Consiglio Via XX Settembre è riuscita a condurre in porto, pur con qualche aggiustamento, la sua “operazione risparmio”.

In marcia compatti
Con gli esecutivi politici del recente passato ci eravamo ormai abituati, durante la fase che conduce alla manovra, a nervi tesi fra il premier di turno e il ministro dell’Economia, dai duelli fra Berlusconi e Tremonti alle frizioni tra Renzi e Padoan, fino al gelo di Tria con lo strano trio Conte-Di Maio-Salvini.

Solitamente la contrapposizione vedeva, da un lato, il capo del governo propenso a gonfiare la spesa con misure attira-consenso e, dall’altro, il titolare del Tesoro riluttante ad allargare i cordoni della borsa. Questa volta invece no.

Giorgia Meloni e il ministro Giorgetti hanno marciato compatti nella definizione di una finanziaria piuttosto smunta, per non dire povera, per due terzi in deficit e con coperture che paiono poco realistiche, ma nella quale almeno – va detto – gli slanci propagandistici sono tutto sommato contenuti, sacrificati al cospetto di un’economia in frenata, di tassi d’interesse sul debito sempre più onerosi e di un’Europa da non indispettire in vista del ripristino del Patto di Stabilità.

Non c’è, ad esempio, la pensione a Quota 41, non c’è l’estensione della flat tax, né una qualche nuova forma di pace fiscale. Matteo Salvini si è dovuto accontentare di un paio di contentini: la mini-sforbiciata sul canone Rai e lo stanziamento futuro per il Ponte sullo Stretto di Messina. 

Il segretario della Lega è senza dubbio il grande sconfitto di questa piccola Legge di Bilancio in cui tutti i ministri hanno dovuto chinare il capo ma lui forse un po’ di più. I vincitori, al contrario, sono la strana coppia di cui sopra: la premier leader di Fratelli d’Italia e il ministro vicecapo del Carroccio. 

Da agosto i due andavano ripetendo – pressoché solitari nel governo – che i soldi da spartire erano pochi, che i tassi stavano aumentano pericolosamente, che «non si potrà fare tutto» e che, quindi, la manovra per il 2024 sarebbe stata accorta. E alla fine è andata, più o meno, proprio così. Non solo: Meloni e Giorgetti sembrano riusciti anche nell’impresa di blindare già a ottobre il testo della finanziaria di fine anno, chiedendo ai partiti di maggioranza di non presentare emendamenti in parlamento.

«Il loro è un asse formatosi sulla paura del giudizio dei mercati», maligna un senatore dell’opposizione. La sovranista Meloni, quella che nel famoso comizio davanti ai militanti spagnoli di Vox prometteva battaglia – da leader dell’opposizione – contro la «grande finanza internazionale», si ritrova dunque ora – da presidente del Consiglio – a giocare di basso profilo per non spaventare i mercati. E se per ora da Standard&Poor’s è arrivata una mezza promozione alla manovra italiana, si attendono ancora con ansia i verdetti di Fitch (fissato per il 10 novembre) e di Moody’s (17 novembre).

Screzi passati
Eppure fra Meloni e Giorgetti la visione non è sempre stata così convergente. Anzi. All’inizio dell’anno il ministro dell’Economia aveva dovuto ingoiare il rospo della defenestrazione di Alessandro Rivera dalla direzione generale del Tesoro: il leghista avrebbe voluto confermarlo, ma la premier non sentì ragioni e lo cacciò, anche per dare un segnale di discontinuità rispetto ai precedenti governi.

Giorgetti, però, si era abbondantemente rifatto, ottenendo una mediazione che, a posteriori, si è rivelata vincente solo per lui: in sostituzione di Rivera, cioè, si decise di nominare due direttori generali, l’uno incaricato di seguire i conti pubblici e le partite internazionali e l’altro piazzato a presidiare le partecipate di Stato. Il primo è stato scelto dal ministro – è Riccardo Barbieri Hermitte, tuttora in carica – mentre del secondo, che avrebbe dovuto essere individuato da Meloni, si sono perse le tracce.

Ancora a maggio, Giorgetti e la premier si sono divisi sulla nomina del nuovo comandante della Guardia di Finanza. Ma in questo caso ha avuto la meglio la presidente del Consiglio, che è riuscita nell’investitura di Andrea De Gennaro.

Con l’arrivo dell’estate e con l’approssimarsi della Nota di aggiornamento al Def, tuttavia, le relazioni fra Palazzo Chigi e Via XX Settembre sono andate sensibilmente migliorando: Meloni, partita incendiaria, ha indossato i panni del pompiere e ha abbracciato in toto la linea del rigore – si fa per dire, con un decifit ancora al 5,3% del Pil – suggerita dal suo ministro. Negli ultimi tre mesi i due hanno parlato praticamente all’unisono.

Affinità politica
Giorgetti e Meloni, oltretutto, stanno mostrando di avere molte più cose in comune di quel che si poteva pensare fino a un anno fa. Entrambi, almeno in questa fase, incarna alla perfezione il profilo del politico che sta a metà strada tra populismo ed establishment.

Il numero due della Lega è il più centrista dei “barbari sognanti” e il più a destra dei moderati di fede draghiana. Alla stessa maniera, la premier un giorno eccita la platea xenofoba di Vox e il giorno dopo si fa fotografare insieme a Ursula von der Leyen. Anti-sistema con una mano, rassicuranti con l’altra, in un equilibrismo che per ora sta dando i suoi frutti in termini di sondaggi elettorali.

Del resto, gli esordi militanti sono i medesimi per entrambi. Da giovane studente della Bocconi, infatti, Giorgetti nella sua Varese iniziò a fare politica – a fine anni Ottanta – frequentando gli ambienti del Fronte della Gioventù: gli stessi che bazzicherà qualche anno dopo Meloni a Roma, nell’ormai famigerata sezione Colle Oppio.

Il futuro ministro dell’Economia ha poi preso altre strade, folgorato sulla via di Pontida. Ma oggi è uno dei leghisti meglio introdotti nelle stanze del potere capitolino, godendo di ottime relazioni sia con il Quirinale (in particolare con il segretario generale Ugo Zampetti) sia con il Vaticano, dove pare che monsignor Liberio Andreatta, ex responsabile dell’Opera romana pellegrinaggi, gli abbia persino trovato un appartamento in pieno centro in un palazzo della Santa Sede. 

Esame Ue
Superato lo scoglio della Legge di Bilancio (o meglio: quasi superato, in attesa dell’approvazione delle Camere), adesso per il governo delle due G (Giorgia e Giancarlo) il banco di prova si sposta a Bruxelles. Nelle prossime settimane andrà trovata una quadra fra i Paesi membri dell’Unione europea sulla riforma del Patto di Stabilità, che – dopo la sospensione pandemica – dal 2024 tornerà operativo.

L’Italia chiede, fra le altre cose, lo scorporo dal debito delle spese per l’ambiente, la transizione digitale e la difesa. Ma, come al solito quando si tratta di conti pubblici, bisognerà vincere le resistenze Germania, Olanda e gli altri “frugali”. La contropartita offerta da Roma potrebbe essere la ratifica del Mes, per cui c’è tempo fino alla fine di novembre. Adesso Meloni e Giorgetti dovranno dimostrare che la loro alleanza di ferro funziona anche in Europa.

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