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Home » Politica

Elly Schlein a TPI: “Vinco io il Congresso del Pd, lo dicono i numeri”

Immagine di copertina
AGF

Da dove iniziamo a raccontare la storia di Elly?
(Sorride). «Dal mio naso, direi, ti va bene?».

S&D

E perché proprio dal naso?
«Perché è senza dubbio una parte importante del mio corpo. E da quando mi sono candidata è diventato due cose insieme: prima un simbolo. E subito dopo un bersaglio». 

«Naso giudeo», scrivono ossessivamente sui social. Lei sarebbe finanziata da Soros per scalare il Pd.
«Magari. La verità è più semplice». 

Quale?
«Si è attivato un vero e proprio esercito di odiatori che parte dal mio naso e dal mio cognome per esprimere ignobili sentimenti antisemiti. Ma vuoi sapere la cosa più bella?». 

Certo.
«Gli stereotipi quasi sono sempre ingannevoli».  

Cioè?
«Per quanto sia orgogliosissima del lato ebraico della mia famiglia paterna, io non sono ebrea, perché come sapete la trasmissione avviene per linea matrilineare. Ma la cosa più folle come ti dicevo è il dibattito sul mio naso». 

Perché?
«Perché non è un “naso ebreo Schlein” che ho ereditato da mio padre, come scrivono i razzisti nella rete».  

No? E da dove arriva, allora?
«È un naso tipicamente etrusco». 

«Etrusco»?
«Sì, ho le prove. Mi arriva, con la fotocopiatrice, da mia madre. È un naso toscano, come lei». 

Adesso inizio ad essere disorientato: Schlein è un cognome ucraino naturalizzato americano. Suo padre è americano ma si è trapiantato in Europa. Sua madre è toscana di Siena, ma lei è cresciuta in Svizzera, per poi emigrare a Bologna.
«Hai ragione, è una storia bella appassionante e molto complessa. Ma è anche la storia che spiega meglio di ogni altra cosa chi sono io». 

Fino a due mesi fa Elly Schlein non era iscritta al Pd. Ne era uscita, sbattendo la porta, durante l’era renziana. Ci è tornata adesso, dopo otto anni, grazie ad una modifica dello Statuto che ha riaperto i termini di iscrizione per farla partecipare. «Aggrega il consenso dei giovani», dicono le vecchie volpi. «Una come lei nasce ogni dieci anni», mi ammonisce il suo grande (e sorprendente) sponsor, Dario Franceschini. Ma la vera notizia di questa intervista arriva alle prime battute, perché quando le dico che Stefano Bonaccini è il favorito, lei si arrabbia: «Guardate – mi dice sorridendo – che voi avete tutti capito male. Io non sono la sparring partner! Io nel voto popolare, ai gazebo, vinco!».

Ci arriviamo presto. Adesso ripartiamo dall’album di famiglia.
«È meno complicato di quello che sembra. Mio nonno veniva da Leopoli. Ma quando agli inizi del secolo scorso lui nacque, la città era ancora sotto l’impero austroungarico. Poi è diventata Polonia, oggi è Ucraina. Si chiamava Schleyen».

E poi cosa accade?
«Arriva da emigrante ad Ellis Island e gli americani gli cambiano il nome in “Schlein”, più facile.

Quindi lei, a proposito di cliché, non viene da una ricca famiglia ebraica.
«Macché! Mio nonno si è spaccato la schiena per dare un futuro migliore ai suoi figli ma è morto presto». 

Cosa faceva?
«All’arrivo era sarto. E poi ha gestito un chiosco di generi alimentari vendendo caramelle e giornali. Quindi si è trasferito nel New Jersey. Non ha mia più rivisto i suoi parenti più cari». 

Perché?
«Il resto della sua famiglia che è rimasta a Leopoli è stata sterminata dai nazisti dopo le leggi razziali».  

Nessun superstite?
«Nessuno. Io e mio padre siamo andati nel 2018 in Polonia a cercarli con le loro foto e non abbiamo più trovato nessuno. Sono stati tutti spazzati via dall’Olocausto». 

Suo padre, cresciuto in America, è diventato professore.
«Dopo la laurea è tornato in Europa. Ha studiato in Austria, Germania e Italia. Negli anni Settanta, ad un convegno sul federalismo – pensa! – ha conosciuto mia madre, Paola Viviani, insegnante a Milano». 

Da quel lato dell’albero genealogico lei ha un nonno parlamentare.
«Agostino Viviani: grande avvocato antifascista, unico laico e socialista, in una  famiglia cattolica». 

Che lei ha fatto in tempo a conoscere.
«Era stato presidente della Commissione giustizia del Senato. Relatore della riforma del diritto di famiglia nel 1975». 

E come se lo ricorda?
«Affettuoso ma severo. È morto a 98 anni. Quando io avevo 8 anni mi fece un regalo solenne: una copia della Costituzione, rilegata, e i quattro codici commentati». 

Altro che bambole! E il suo accento?
«È divertente, vero? Nessuno capisce di dove sia». 

Perché?
«Sono nata e cresciuta in un paesino vicino a Lugano, lì ho fatto le elementari con l’esperienza bellissima della pluralità nelle classi: avevo compagni spagnoli, portoghesi, italiani e profughi dei Balcani». 

Formativo?
«Mi ha insegnato nella culla cosa significhi uguali nei diritti e nell’accesso. Siamo tutti meridionali di qualcuno. Mi capitava di parlare a scuola con l’accento ticinese e a casa con l’accento di mia madre. Tentativo di sentirmi più inclusa. Sono in Emilia-Romagna dal 2004 e ogni tanto mi capita di prendere la cadenza emiliano-romagnola».  

Secchiona?
«Mahh… In Svizzera il voto massimo era 6. Io ho preso il massimo dei voti in tutte le materie tranne ginnastica».  

Altro ricordo del nonno?
«Mi portavano a studiare da lui, e mi mettevano lì tra tomi di diritto e macchine da scrivere».

Lei ha due fratelli.
«Mia sorella Susanna è diplomatica, Benjamin insegna fisica». 

Dopo la scuola lei decide di tornare in Italia e si sposta a Bologna.
«Ero un’aspirante regista».

E ora?
«Continuerò ad aspirare alla regia per tutta la vita. Volevo emulare i grandi classici italiani come Monicelli. Amavo Quentin Tarantino, impazzivo per Kim Ki Duk».

Si è laureata al Dams?
«Nooooh! Alla fine ho ripiegato su giurisprudenza. Però vado tutti gli anni al Festival di Locarno. È stato il mio modo di viaggiare. Sul grande schermo». 

È stata anche in giuria, a Locarno.
«Una volta. Premiammo il film di Kim Ki Duk . E l’anno dopo vinse a Venezia». 

Con il cinema ha chiuso?
«Macché! Ho fatto l’assistente alla regia ad un piccolo film che si intitola “Anja la Nave”, sull’emigrazione degli albanesi. Ma a questa passione non rinuncio». 

Già medita di abbandonare?
«Ho un contratto a termine con la politica: una battaglia ha tirato l’altra come le ciliegie. Poi ritornerò al cinema».

Perché giurisprudenza?
«Non ci crederà. Avevo preso una multa ingiusta e mi ero arrabbiata. Mi sono iscritta per contestarla perché sono testarda».

Infatti non ci credo.
«Mio nonno ero avvocato, mia madre insegna diritto, ho sempre avuto questa idea intorno a me, di battersi contro le ingiustizie». 

E la tesi?
«Ne ho fatte due. Una in Diritto costituzionale sulla criminalizzazione degli stranieri. E una sulla sovra-rappresentazione degli stranieri nelle carceri». 

Ovvero?
«Sa che statisticamente per uno straniero è più facile otto volte essere fermato se va piedi piuttosto che in auto?». 

Come mai?
«Perché non si vede il colore della pelle». 

E quanto ha preso?
(Ride). «110 e lode in entrambe: sì, in effetti sono po’ secchiona! Sono una che studia all’ultimo, poco disciplinata, con l’ansia di non essere preparata. Però alla fine funziona». 

Ha fatto da volontaria la campagna di Obama del 2008, a Chicago nella sua città.
«Molto formativa: un’esperienza pionieristica, con lo sforzo di una visione di Paese che tenesse dentro tutto».

Esempio?
«Avevo al fianco pensionate nere a fare chiamate, insieme a ragazzini del liceo che si battevano per non indebitarsi tutta la vita. Mai si sarebbero trovati, se non per Obama».

E chi altro c’era?
(Ride). «Il mondo! La comunità lgbt, le comunità ispaniche, i portoghesi, gli asiatici…».  

E così tornò, quattro anni dopo.
«Era cambiato tutto. Nel 2008 lavoravano in una specie di scantinato a fare le telefonate con gli elenchi cartacei».

E al secondo mandato?
«Avevano meccanismi automatizzati per le telefonate. Cento chiamate al minuto!».

E poi?
«Il porta a porta e il car pooling dall’Illinois all’Ohio. Ho fatto tutto». 

E che lezione  si porta in queste primarie italiane?
«Non c’è un leader solo, ma una nuova comunità che spinge un’idea». 

Ha la foto  ricordo con Barack?
«Il giorno in cui venne al comitato disgraziatamente ero fuori. Ma a tutti noi riservarono i posti di prima fila la sera del voto». 

Torna in Italia e si butta in politica.
«Faccio la campagna di Italia Bene Comune. È il 2013, l’anno del complotto dei 101».  

E lei occupa le sezioni, oggi glielo rimproverano.
«Dopo il killeraggio di Prodi. Hanno affossato tre cose, assicurando le larghe intese: Bersani, Prodi e il centrosinistra. Ci davano degli irresponsabili. Ma la storia ha dimostrato che avevamo ragione». 

C’è il Congresso: Renzi, Cuperlo, Civati.
«Sostengo Pippo, che avevo conosciuto in un incontro organizzato da un’associazione studentesca». 

Diventa eurodeputata.
«Mi hanno chiesto di candidarmi alle europee. Non avevo un euro. Non avevo speranze… Grazie alle preferenze, invece, venni eletta». 

Non aveva soldi?
«La mia ricchezza è un’altra fake news di provenienza antisemita. La mia è una normalissima famiglia borghese». 

E come ci è riuscita?
«Immodestamente sono una macchina. Ho fatto viaggi a tappeto in giro per il Paese. Come oggi». 

Era la beniamina dei vecchi iscritti?
«Sehhhhh… Eravamo la minoranza dissidente. Non è che ci abbiano coccolato. Ma avevamo preso 400mila voti con Pippo: il 13%!».

Perché lascia il Pd nel 2015?
«Per via delle riforme di Renzi: Jobs Act, Buona Scuola, referendum. Fondiamo Possibile». 

E a Bruxelles?
«Mi sono occupata del contrasto all’evasione delle multinazionali. Mi piace una immagine…».

Quale?
«Abbiamo paradisi fiscali senza palme. Ci sono grandi gruppi che con schemi elusivi legali levano ricchezza ai poveri».

Cioè?
«Istruzione, sanità, pensioni, investimenti per il futuro. Si perdono 800 miliardi di euro, ha stimato lo studioso Richard Murphy». 

E come si può impedire?
«Capendo quante aziende hai, quanto profitti e quanti lavoratori hai. Si scopre chi sta fregando chi». 

Ha dato battaglia sul Regolamento di Dublino, inseguendo Salvini.
«Ero relatrice del gruppo socialista. E l’ho smascherato: pensi che la Lega non è mai venuta a ventidue riunioni negoziali». 

E quindi lei glielo ha detto?
«Pensavo che Salvini stesse cercando una risposta su Google. Sono forti con i deboli e deboli con i forti. Non vogliono cambiare Dublino». 

E perché?
(Altro sorriso). «Paura di Orbàn». 

E la sua sfida?
«Sta crescendo l’onda. Percorro cinque regioni in due giorni, giro da anni, 20mila persone si sono iscritte alla mia pagina». 

Esempio?
«Folla pazzesca ad Arezzo in un luogo riqualificato energeticamente, l’Urban center». 

Cos’è?
«Uno spazio aggregativo nato dal recupero di un’antica fonderia: economia sostenibile alimentata da energia rinnovabile».

Ma come può pensare di vincere?
«Il Pd ha 60mila iscritti. Se questi primi 20mila sostenitori registrati votano, e crescono, cambiano i rapporti di forza delle vecchie correnti. La nostra è una campagna di respiro». 

Ovvero?
«I conservatori oggi hanno una visione comune. Subiamo l’internazionalismo dei nazionalisti». 

Un paradosso?
«Vero. Però la Le Pen, Farage, Trump, Salvini e la Meloni, e Bolsonaro parlano la stessa lingua». 

E i progressisti?
«Non stiamo facendo abbastanza». 

Esempio?
«Congedo paritario per tre mesi in Spagna, pienamente retribuito, per entrambi i genitori. Una riforma del lavoro contro la precarietà. Chi ne parla in Italia?».

Era giusto combattere il Jobs Act?
«Direi. Renzi ha liberalizzato i contratti a termine. E finiti gli incentivi, malgrado il blocco dei licenziamenti della pandemia. si sono continuati a perdere posti di lavoro». 

Quali?
«È scientifico. Giovani donne e Sud hanno ereditato i contratti più precari». 

Cosa vuole fare lei?
«Mettere un limite ai contratti a termine. Favorire le assunzioni a tempo indeterminato. Le altre ricette sono fallite». 

Perché?
«C’è una regola non scritta: se entri precario nel mondo del lavoro resti precario. Ed ecco perché gli italiani emigrano». 

Come mai?
«Questa destra è così ossessionata dall’immigrazione che non vede l’emigrazione. Un’intera generazione cerca certezze perdute». 

Altri modelli?
«In Germania e Spagna hanno fatto abbonamenti del trasporto pubblico locale a 9 euro». 

E il Pd?
«Dobbiamo uscire da una visione ombelicale. Anche nei confini nazionali dobbiamo portare giustizia fiscale, emergenza climatica e contesto alle disuguaglianza. E soprattutto: nuove tutele del lavoro digitale». 

Lei vuole diminuire l’orario di lavoro a parità di salario.
«Sembrava un’eresia, sta già accadendo dopo lo smart working». 

Domanda delle cento pistole: alleati o no ai Cinque Stelle?
«Le alleanze non devono arrivare dall’alto. Nascono dal basso, sui territori». 

Opposizione dialogante o dura?
(Sorriso). «Più efficace, direi». 

La prima bandiera della sua segreteria quale sarebbe?
«Il salario minimo. Fra l’altro tutte le opposizioni sono d’accordo». 

Punto debole della destra?
«Un’analisi vecchia. Facci caso: non parlano di precariato e non vedono il lavoro povero». 

Un no da dire forte?
«Quello alla liberalizzazione delle trivelle». 

Le piace il Pnrr?
«Le sue missioni sono quelle giuste: trasformazione digitale, conversione ecologica e coesione sociale».

E l’autonomia differenziata?
«La proposta di Giorgetti è inemendabile».

In questo diverge da Bonaccini?
«Bisogna capire qual è la sua idea. Però non si può dividere il Paese. Ed è quello che la Lega vuole». 

Una parola d’ordine nuova?
«Combattere la povertà energetica. Si possono fare molte chiacchiere, ma ci sono italiani che non riescono a pagarsi il riscaldamento. Sono in cima ai miei pensieri».

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