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Home » Politica

Cuba, anche la sinistra apre gli occhi. Bertinotti: “Ci vuole una rivoluzione nella rivoluzione”

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Una “rivoluzione per salvare la rivoluzione” di Cuba. Commenta così l’ex presidente della Camera, Fausto Bertinotti, quanto sta accadendo sull’isola caraibica, dove le proteste contro il regime innescate dalle conseguenze della pandemia di Covid-19 e dell’embargo degli Stati Uniti fanno riaffiorare alla mente le manifestazioni degli inizi degli anni Novanta.

Migliaia di persone sono scese in strada negli ultimi giorni in tutte le principali città di Cuba, dove la situazione economica per la popolazione sembra diventata insostenibile. Alternativamente manca l’elettricità, quindi la rete Internet, alcuni generi alimentari e soprattutto, causa Covid, sono spariti i turisti, principale fonte di reddito per un’ampia fetta degli abitanti.

“Chi guida il Paese ha di fronte una scelta: ascoltare la piazza, il popolo, oppure perdere tutto”, ha detto Bertinotti in un’intervista a Repubblica. L’ex leader di Rifondazione comunista riconosce i problemi, pur sottolineando le conquiste ottenute da L’Avana.

“Rimangono fattori caratteristici dell’esperienza cubana come la centralità dell’istruzione, l’eccellenza della sanità pubblica, la solidarietà e l’internazionalismo. Ma la storia si sta esaurendo, ci sono forme di logoramento: il doppio mercato, le disuguaglianze interne, la burocratizzazione: in questa condizione, subendo lo spiazzamento della storia e una stretta economica vigorosa, ci vorrebbe una rivoluzione nella rivoluzione, un ritorno alla lingua originaria, che era quella di ‘tutto il potere al popolo’. Sarebbe un gesto grande e coerente con la nascita del socialismo cubano un governo che oggi dicesse a chi manifesta ‘avete ragione voi’, non solo per ascoltare ma per costruire la storia assieme a quelle persone, senza covare l’illusione che il mercato sia salvifico”.

Insomma, una rivoluzione nella rivoluzione. Secondo l’ex presidente della Camera infatti chi “lotta in piazza è una risorsa”. Eppure, a giudicare dalla risposta delle autorità cubane, a L’Avana non sembrano pensarla così. Il pugno duro della polizia contro i manifestanti e l’annuncio del presidente Miguel Díaz-Canel in diretta televisiva nazionale che “le piazze appartengono ai rivoluzionari” ha spinto persino l’Unione europea a definire “inaccettabile” la risposta del regime alle manifestazioni.

Le proteste di piazza andate in scena negli ultimi giorni, che secondo l’agenzia di stampa di Stato Acs hanno provocato un morto mentre gli oppositori parlano di decine di arresti e di repressione violenta del dissenso, ricordano per certi versi i cortei del 1994, quando migliaia di persone scesero in piazza a Cuba dopo la crisi economica scatenata dalla fine del sostegno sovietico all’isola.

Allora Fidel Castro fu costretto ad aprire le porte del Paese: decine di migliaia di cubani colsero l’occasione, rischiando la vita per imbarcarsi su barconi improvvisati verso gli Stati Uniti. La situazione si placò solo con una progressiva apertura economica e con nuovi accordi migratori con Washington: quella crisi fu chiamata il “Maleconazo“.

Da allora, per la prima volta in sei decenni, né Fidel Castro, morto nel 2016, né suo fratello Raul, che ha superato i 90 anni, gestiscono più il potere. Ad aprile, il fratello del leader storico cubano ha annunciato che si sarebbe dimesso dalla carica di primo segretario del Partito Comunista e da allora quel ruolo è stato ricoperto da Miguel Diaz-Canel, che era stato nominato presidente nel 2018 e ora ricopre entrambi gli incarichi, senza grande carisma.

Forse non più vincolati dalla lealtà personale ai Castro, molti cubani scesi in strada chiedono proprio le dimissioni del nuovo leader, che ha risposto incolpando delle proteste la “asfissia economica” provocata dagli Stati Uniti e le campagne sui social media di una minoranza di “controrivoluzionari”. “Nelle ultime settimane la campagna contro la rivoluzione cubana è aumentata sui social media, attingendo ai problemi e alle carenze che stiamo vivendo”, ha detto il 61enne Diaz-Canel in un discorso televisivo.

Washington ha imposto per la prima volta sanzioni contro Cuba nel 1958. Da allora, gli Stati Uniti hanno alternativamente ridotto o ampliato l’embargo contro l’isola, opponendosi sempre alle richieste delle Nazioni Unite di risparmiare al Paese il blocco economico.

Dopo le aperture di Barack Obama nel 2014, che hanno portato a maggiori aperture a Cuba, Donald Trump ha scelto di reimporre le sanzioni, mentre l’attuale presidente Joe Biden non ha ancora assunto una posizione chiara in merito, indeciso se tentare la via del cambio di regime alimentando le proteste di piazza ma rischiando così un’ondata migratoria verso le coste della Florida.

Intanto, i Paesi dell’area hanno cominciato a schierarsi con L’Avana. Il presidente della Bolivia, Luis Arce ha dichiarato: “Esprimiamo il nostro pieno sostegno al popolo cubano nella sua lotta contro le azioni destabilizzanti”. Il capo di stato del Messico, Andres Manuel López Obrador, ha detto che la prima cosa da fare per aiutare Cuba sarebbe togliere il blocco economico, definendolo “un gesto veramente umanitario”. Mentre anche l’Argentina ha già manifestato preoccupazione per una possibile ingerenza degli americani.

La situazione sul campo continua però a restare incandescente. Uno dei motivi delle proteste sembra essere la rabbia per l’incapacità di contenere la pandemia di Covid-19. Nonostante sia una delle poche nazioni al mondo ad aver sviluppato un proprio vaccino e ad aver inviato all’estero (persino in Italia) equipe mediche per assistere altri Paesi nella lotta al Coronavirus, nelle ultime settimane Cuba vive un nuovo picco di contagi.

L’isola, dove solo il 15 per cento della popolazione risulta completamente vaccinato, ha superato la soglia dei 250mila casi di Covid-19, con 5.613 nuovi contagi e ulteriori 29 decessi registrati solo il 12 luglio, che portano il bilancio delle vittime dall’inizio della pandemia a 1.608. Il maggior numero di nuovi contagi, 1.468, si è avuto proprio a Matanzas, seguita dalla capitale L’Avana con 691, guarda caso due degli epicentri della protesta. La diffusione dell’epidemia comporta un ulteriore stop al turismo, che rappresenta la principale fonte di valuta estera del Paese.

Leggi anche: “La sinistra in Italia è morta”: Bertinotti a TPI

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