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“Vi spiego perché gli italiani non scendono più in piazza”: intervista al sociologo Filippo Barbera

Immagine di copertina
Il sociologo Filippo Barbera

“Le grandi mobilitazioni dal basso in Francia e Germania? Impensabili in Italia. A differenza loro noi non ci attiviamo da soli. Abbiamo bisogno di qualcuno che organizzi la partecipazione. Come se ne esce? Rimettendo al centro la fisicità degli spazi pubblici. E la giustizia sociale”

Filippo Barbera, professore ordinario di Sociologia dei processi economici e del lavoro all’Università di Torino, ha da poco pubblicato per Laterza “Le piazza vuote”, un saggio che analizza la crisi della partecipazione sociale e politica. «In molti Paesi europei – si legge nella quarta di copertina – le piazze sono piene, le strade invase e lo spazio pubblico è un rituale che crea effervescenza collettiva, solidarietà, capacità di futuro. Una situazione impensabile in Italia, dove le pratiche associative e la partecipazione sociale non alimentano più il circuito della rappresentanza politica».

S&D

Professor Barbera, Giorgio Gaber diceva che la libertà è partecipazione. In Italia, però, ormai un cittadino su tre non va a votare: significa che siamo diventati un Paese meno libero?
«Certamente non possiamo più accontentarci dell’idea, tanto cara al liberalismo, che la libertà coincida con l’assenza di vincoli. Dobbiamo esigerne una diversa: quella per cui siamo liberi se siamo in grado di interrogarci sulla giustizia della nostra esistenza, del nostro lavoro, del nostro modo di stare in una comunità insieme agli altri. Ma queste domande ce le poniamo solo se abbiamo delle opportunità di cittadinanza. E il voto è una di queste, forse l’unica che ci è rimasta. Anche questa, però, sta scomparendo…».

Lei scrive: «Il futuro delle società democratiche si costruisce in modo cruciale a partire dalla presenza di spazi condivisi quotidiani». Quali sono questi spazi?
«Sono le piazze di cui si parla nel titolo del libro, ma anche i circoli di partito, le sedi sindacali, le parrocchie, gli oratori, le biblioteche, i centri sociali, i parchi, i centri per la fruizione culturale gratuita e aperta… I luoghi ricchi di spazi di questo tipo favoriscono la possibilità di svolgere il proprio ruolo di cittadino». 

In che modo?
«Prendiamo la piazza. La piazza dà luogo a performance collettive, è un rituale pubblico in cui i corpi si muovono allo stesso ritmo: genera effervescenza, coesione, valori comuni E anche capacità di agire. Il tema è rimettere al centro la fisicità come elemento costitutivo e irrinunciabile dello spazio pubblico. E lo spazio pubblico è l’humus all’interno del quale si genera la domanda per un futuro più giusto».

Ma perché le piazze si sono svuotate?
«Vanno considerati tre livelli. Il primo è, appunto, lo spazio pubblico di cui parlavo prima: le piazze, le biblioteche, i circoli di partito… Il modello neoliberale ha privatizzato e commercializzato lo spazio pubblico a favore di un modello di società composta da individui e consumatori. Il secondo livello sono gli spazi organizzativi della classe dirigente: ad esempio il parlamento. Questi spazi sono stati svuotati in nome di un’idea della politica disintermediata e veloce: pensi anche al mito dell’uomo solo al comando… I partiti erano anzitutto luoghi, oggi il dibattito interno avviene su Twitter o tramite i talk show».

E il terzo livello?
«È il policentrismo dei luoghi di vita. Anche questo è stato totalmente annullato: ci siamo accontentati di un’idea di spazio molto semplificante che riduce tutto alla centralità dei cosiddetti “luoghi che contano” a scapito dei paesi, delle città medie, delle periferie».

Eppure nelle ultime settimane abbiamo rivisto le piazze riempirsi: prima la manifestazione della Cgil, poi quelle pro-Palestina.
«Vero, ma se non ci sono uno spazio pubblico e uno spazio organizzativo dell’intermediazione, serve a poco. Sì, c’è una dimensione espressiva e si genera una effervescenza, ma se tutto questo non diventa azione politica, quelle piazze torneranno a svuotarsi».

Il punto di svolta, lei scrive, è stato la caduta del Muro di Berlino.
«Noi siamo di fronte al fallimento della classe dirigente globale post-1989. Questa classe dirigente si è ritrovata di fatto senza concorrenti – avevano vinto loro – ma poi non ha gestito la vittoria. Ha fallito perché ha rinunciato all’idea della giustizia sociale, all’idea che ci debbano essere degli obiettivi collettivi verso i quali le collettività organizzate tendono. La politica ha rinunciato ad avere questo ruolo di indirizzo appaltando le grandi scelte strategiche alle corporation». 

Come se ne esce?
«Dobbiamo ritrovare il modo di capire come le collettività possono definire degli scopi collettivi, tenendo insieme la libertà delle persone con l’idea della giustizia sociale. Questo è il tema: se non lo risolviamo, non andiamo da nessuna parte».

In Francia e Germania negli ultimi mesi abbiamo visto grandi mobilitazioni. Le «piazze vuote» sono un problema prima di tutto italiano?
«Sì, lo sono. Gli italiani non hanno una tendenza autonoma alla mobilitazione collettiva. In mancanza di organizzazioni di rappresentanza politiche o sociali che intermediano e organizzano la partecipazione, noi molto raramente ci mobilitiamo per cause collettive. I francesi invece hanno una tradizione di mobilitazione più autonoma».

Dove nasce questa specificità italiana?
«Da un lato abbiamo bassi livelli di fiducia interpersonale, dall’altro una bassa fiducia nelle istituzioni e nei partiti politici. Se non c’è qualcuno che intermedia, non ci muoviamo».

Nel libro lei si sofferma a raccontare come, con il ridimensionamento della classe operaia, i partiti della sinistra si siano ri-orientati verso un ceto medio interessato più al mercato e alle libertà civili che ai diritti sociali e alle politiche redistributive. La crisi della partecipazione è colpa più della sinistra che della destra?
«Da un certo punto di vista sì. La destra che ora è al governo ha presidiato in modo più attento il tema della partecipazione. Se la segreteria di Elly Schlein ha una chance di cambiare le cose nel centrosinistra, questa passa attraverso l’autoriflessione sugli errori fatti e l’identificazione di una nuova strategia, che però si deve necessariamente accompagnare a una nuova struttura organizzativa, cioè a un modo diverso di pensare il partito. Non ci sono scorciatoie: se questo non avviene, non basteranno certo la buona volontà la competenza di Schlein per cambiare».

Nell’era del digitale e della disintermediazione, non suona utopistico invocare il ritorno della politica fatta negli spazi fisici?
«Il tema non è ritornare al fisico, ma rimetterlo in filiera con il digitale. Se lei ci pensa, i partiti e i movimenti che hanno avuto successo negli ultimi anni hanno gestito in filiera il fisico e il digitale: il M5S è nato mettendo insieme i meetup e Rousseau e un discorso analogo si può fare per Mélenchon in Francia e Podemos in Spagna. La dimensione fisico-spaziale ha una proprietà che il digitale non potrà mai avere: l’interazione fra corpi. Noi siamo fatti di carne e sangue: interagire in compresenza fisica ha delle proprietà non sostituibili».

A chi tocca la responsabilità di tornare a riempire le piazze?
«Tocca a tutti noi! Bisogna evitare due errori. Da un lato, pensare che ci sia un popolo dormiente pronto alla mobilitazione che aspetta solo la giusta narrazione per scendere in piazza. Dall’altro, pensare che ci sia una classe dirigente pronta che può scendere in campo domani e ricostruire.  Bisogna essere consapevoli che veniamo da decenni di riflusso e che i processi di ricostruzione della domanda e dell’offerta di futuro non saranno brevi. Serve un lavoro molecolare, lento».

Guardandosi intorno, è fiducioso?
«Credo che in questo momento di disperazione la fiducia sia un dovere morale. Non abbiamo alternativa all’essere ottimisti».

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