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La crisi degli Stati Uniti rivela la fragilità dell’Occidente

Immagine di copertina

Nonostante le accuse di cospirazione, la conclamata frequentazione di pornostar e la costituzione di un partito nel partito, l’ex presidente può ancora seriamente puntare alla Casa Bianca. È la conferma della crisi epocale degli Stati Uniti. E dell’intero Occidente

Se nonostante tutto Donald Trump può candidarsi alla Casa Bianca, significa che l’America, almeno per come la conoscevamo, non esiste più. Parliamo di un Paese controverso, intendiamoci, di cui l’economista John Kenneth Galbraith diceva che non si dovrebbe mai visitare per la prima volta perché si rischia di tornare indietro con un mucchio di idee sbagliate.

S&D

Fatto sta che, al netto dei loro limiti e delle loro evidenti contraddizioni, gli Stati Uniti erano comunque una nazione in cui non si potevano varcare determinati limiti. Insomma, chiunque sarebbe crollato sotto il peso degli scandali che gravano sulle spalle di Trump.

Se neanche le accuse di cospirazione contro lo Stato, la conclamata frequentazione di pornostar e la costituzione di un partito nel partito, al grido di «Make America Great Again» sono riusciti, finora, ad arrestare la corsa di un personaggio del genere, significa che siamo ormai al cospetto di una post-America, di un Paese in guerra con se stesso e incapace di ritagliarsi un ruolo nel Ventunesimo secolo. 

Del resto, le ragioni del declino sono molteplici ma una spicca sulle altre: la crisi del modello di globalizzazione inventato, propugnato e imposto al resto del mondo proprio dagli Stati Uniti. Un modello che ha fallito a livello planetario ma che negli Usa ha generato tali e tante disuguaglianze che ormai i democratici hanno egemonizzato gli Stati più ricchi e produttivi ma perdono, e male, in tutte le zone rurali, nel profondo Sud e ovunque si sia distanti dalle luci della ribalta di un sistema escludente e privo degli strumenti di welfare indispensabili per prendersi cura delle fasce sociali più deboli.

Colpa della sinistra
Se esiste un Trump, dunque, è colpa dei democratici e dei loro cedimenti. E guai a pensare che il magnate costituisca un’eccezione: è, anzi, quanto di più profondamente americano possa esistere. La sua è la storia di un arrivista, di un costruttore senza scrupoli, di un soggetto che ha elevato il denaro a simbolo della propria esistenza: l’altra faccia del cosiddetto “sogno”, la sua realizzazione pratica, al di là delle copertine patinate e del falso mito del Paese in cui tutto è possibile.

Non è così, forse non lo è mai stato, e questa narrazione vincista e meritocratica è il danno più grande che l’America abbia arrecato all’Occidente e, in particolare, alla sinistra.

Tramontata l’era rooseveltiana, durata circa un trentennio, sul finire degli anni Settanta, a partire dalla California, si ebbe la rivincita del neoliberismo, dominato dalla Scuola di Chicago targata Milton Friedman. E l’aspetto inquietante è che il suo massimo interprete, Ronald Reagan, ha seminato talmente bene, dal suo punto di vista, da generare numerosi eredi: in un campo e nell’altro.

La crisi finanziaria del 2008, il cui emblema è stato il collasso della Lehman Brothers, è stato l’apice di una crisi strisciante che ha avuto nei mutui subprime il detonatore ma che, in realtà, viene da lontano. Fu proprio sotto Clinton, per dire, che venne abolito il Glass-Steagall Act, la legge, varata nell’era Roosevelt, che separava le banche commerciali dalle banche d’investimento.

Abbattuto il Muro di Berlino, l’Occidente, e più che mai l’America, si è illuso di poter dominare incontrastato sul resto del pianeta. La «fine della storia», il sereno vento dell’Ovest, la pax americana su un mondo ormai convertito al capitalismo e al libero mercato, l’attenuazione delle tutele e delle garanzie sociali e, infine, il crollo di un castello di carte che ci era stato spacciato per fortezza: sul finire degli anni Zero l’inganno è venuto alla luce e da quel momento sono cominciati i guai.

Senza contare l’implosione dei partiti, che oltreoceano sono sempre stati assai diversi rispetto ai nostri ma che ormai sono del tutto dominati da lobby potentissime che rendono impossibile persino varare una norma per limitare la diffusione delle armi, nonostante le stragi cui stiamo assistendo nelle scuole e non solo. 

Presto anche da noi?
Quando decise di correre per la Casa Bianca, Trump non fu preso sul serio. Solo quando cominciò a sbaragliare ogni contendente, ci si rese conto che non era più il tempo dei cultori della Reaganomics.

In un’America impoverita, in cui i giovani escono dalle università, comprese le migliori, e non hanno un futuro, se non pieno di debiti, senza assistenza sanitaria pubblica e con il dilagare dell’economia immateriale che ha fatto la fortuna della Silicon Valley (peraltro oggi, a sua volta, in difficoltà), gli Stati operai hanno cambiato bandiera. In questo vuoto, fra il non più e il non ancora di una nazione sfiancata, si è inserito un soggetto che si presentava di fronte a platee inferocite e gridava dal palco cosa avessero da perdere nel sostenerlo.

E quando le persone che venivano a quegli incontri prendevano atto di non aver più nulla da difendere, la disfatta di Hillary Clinton, gran sostenitrice degli accordi Nafta e della svolta centrista del marito Bill, era ormai certa.

Qualche giorno fa, ospite del programma tv “Atlantide”, Rula Jebreal ci ha messo in guardia sul fatto che ciò che stiamo vedendo oltreoceano potrebbe presto succedere anche in Europa. L’assalto a Capitol Hill, d’altronde, ha avuto una replica nel Brasile di Bolsonaro.

Potrebbe accadere anche da noi? Per fortuna, in quella forma, è difficile, non foss’altro perché alle nostre latitudini ancora nessun Paese ha avuto la pessima idea di affidarsi al presidenzialismo, eccetto la semi-presidenziale Francia che, non a caso, sta vivendo una fase di drammatiche proteste di piazza. Non c’è dubbio, tuttavia, che il vento trumpista abbia già spirato sopra i nostri cieli.

La Brexit, l’avanzata di compagini estreme come Vox e Alternative fur Deutschland, ciò che sta avvenendo in Italia: sono tutti sintomi di un male oscuro e profondo dal quale si evince la “matrice” della destra che si sta affermando a livello planetario ma, ancor più, l’inconsistenza del fronte progressista e la sua incapacità di imporre un’agenda radicalmente alternativa.

Debolezze
Ci spiace dirlo, ma non saranno le grida indignate a salvare l’America. Tre anni di presidenza Biden ci hanno fornito la conferma di ciò che temevamo: o i democratici entrano nella modernità o rischiano il disastro, anche perché il Covid e la crisi complessiva dovuta alla guerra in Ucraina non hanno fatto che aggravare una situazione già pesantemente compromessa.

Per difendere i cosiddetti “valori occidentali”, che noi stessi abbiamo minato nel corso dei decenni, non basteranno le condanne di un tribunale newyorkese o le prese di posizione delle star di Hollywood. 

Come ha affermato Papa Francesco, non siamo di fronte a un’epoca di cambiamento ma a un cambiamento d’epoca. Al che, ci torna in mente una frase di Gustav Radbruch: «Il pericolo per una democrazia può derivare non tanto dalla forza dei suoi oppositori quanto dalla debolezza dei suoi sostenitori». Per la precisione, oltre a essere un insigne filosofo del diritto, era anche il ministro della Giustizia della Repubblica di Weimar.

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