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Un nuovo Ulivo, 25 anni dopo: nel centrosinistra di Letta e Conte non c’è spazio per Renzi

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L’Ulivo nacque in un mondo che non esiste più. Fu concepito in seguito alla duplice sconfitta del PDS di Occhetto e del Patto per l’Italia di Segni e Martinazzoli alle Politiche del 1994, in un’Italia in cui c’era ancora la lira e neanche si sapeva se saremmo riusciti ad agganciare il treno dell’euro. Del mondo di ieri, insomma, è rimasto poco o nulla.

È ovvio, dunque, nel venticinquesimo anniversario di quella vittoria elettorale, che alla nostalgia per lo sventolio di molteplici bandiere in piazza Santi Apostoli, cuore pulsante del prodismo, debba affiancarsi un’analisi storica sul presente, in un contesto radicalmente diverso e ferocemente pessimista a causa delle tre crisi (economica, sociale e pandemica) che hanno segnato l’ultimo decennio.

È chiaro che un’aggregazione di centrosinistra adatta al Ventunesimo secolo debba coinvolgere realtà che nel 1996 non esistevano, protagonisti che non erano ancora nati, le nuove generazioni, ormai prive di ogni riferimento novecentesco e non più ex qualcosa, anche se è fondamentale che conoscano la nostra storia e le vicende che hanno caratterizzato il progresso e lo sviluppo del nostro Paese.

Venticinque anni, al momento, è l’età minima richiesta per entrare alla Camera dei Deputati. Ebbene, al prossimo giro, potrebbero essere eletti ragazze e ragazzi che la sera del 21 aprile 1996 non c’erano o a malapena vagivano, pertanto sarà bene che qualcuno spieghi loro chi erano i Beatles e anche cosa abbia rappresentato, in quegli anni, la Canzone popolare di Fossati.

Enrico Letta, neo-segretario del PD, quella sera non aveva ancora compiuto trent’anni. Era un allievo e un collaboratore di Beniamino Andreatta, padre di quell’esperienza, e l’auspicio è che abbia ben presente come eravamo e come siamo diventati.

Negli anni Novanta si credeva ancora, erroneamente, che la globalizzazione avrebbe alzato tutte le barche e reso egemone il modello occidentale. Nel 2021 abbiamo una Cina che cresce del 18 per cento, una Russia che imprigiona Naval’nyj e un Erdoğan cui consegniamo i poveri cristi in fuga dalla miseria e dalla guerra, pagandogli l’incombenza con svariati miliardi all’anno, al punto che il nostro può permettersi ogni abuso, compresa l’umiliazione della presidente von der Leyen nel corso di un vertice con le massime istituzioni europee.

Matteo Renzi, dal canto suo, continua a opporsi a ogni forma di alleanza con i 5 Stelle, al che è bene porre in evidenza un aspetto essenziale: dei suoi viaggi, delle sue questioni familiari e giudiziarie, almeno a me, interessa il giusto, aspettando che siano gli organismi competenti a pronunciarsi e senza emettere sentenze di condanna preventiva.

Ciò che mi interessa moltissimo, invece, è l’aspetto politico del personaggio: una strategia che porta dritta a un’alleanza strutturale con Salvini, a meno che il leader di Italia Viva non intenda dedicarsi ad altro e ritirarsi davvero dalla politica, cosa di cui dubito fortemente. E qui non si può evitare di chiamare in causa il segretario del PD.

È noto, infatti, che Renzi abbia già compiuto la sua legittima scelta, facendo cadere Conte, favorendo la nascita del governo Draghi e, di fatto, abbracciando, sia pur non espressamente, l’idea che questo modello tecnocratico e tendente a destra diventi un progetto politico. Ci sta, non c’è niente di male, a patto che il Partito Democratico abbia il coraggio di praticare l’alternativa.

Un nuovo Ulivo non può nascere con dentro Renzi e i suoi sostenitori, e anche gli ammiccamenti a Forza Italia, per quanto in buona fede, sarebbe opportuno evitarli. L’Ulivo degli anni Venti ha senso non se si sposta al centro, cercando di moderare i toni e di esaltare le virtù del libero mercato, ma se fa l’esatto opposto, se pone cioè al centro del proprio progetto, come bussola e ragione di esistere, il ruolo del pubblico e dello Stato.

Il M5S, del resto, era nato soprattutto per questo, ai tempi in cui la sinistra era inebriata dal liberismo, dimentica delle proprie radici, dei propri valori, delle proprie tradizioni e, di conseguenza, sconfitta, fallimentare, inutilmente governista e priva di una classe dirigente all’altezza.

Diciamo che nell’ultimo decennio la crisi si è ulteriormente ampliata, tanto che Letta ha fatto benissimo a sottolineare che il PD non possa vivere di solo governo. Il punto è se avrà la forza e il coraggio di far seguire alle parole azioni concrete.

Un conto, difatti, è il riformismo, l’aspirazione a cambiare gradualmente lo stato delle cose. Ben diverso è il governo per il governo, il potere per il potere, la trasformazione della politica in un mestiere come un altro, in cui non esistono ideologie, visioni opposte della società, analisi differenti e inconciliabili del corso degli eventi ma un’unica direzione da seguire, in cui al massimo possono cambiare gli interpreti ma non il quadro complessivo.

Se davvero vuole condurre il PD verso un rinnovamento all’altezza delle sfide contemporanee, Letta, al contrario, ha bisogno di compiere una profonda analisi storica degli anni appena trascorsi, perché le sconfitte non sono state figlie del destino cinico e baro ma di una sistematica distruzione del mondo del lavoro, della scuola e delle ragioni stesse di esistere di una comunità che ha smesso di essere tale, affidandosi a una classe dirigente che ha avuto nella conquista di posti il proprio solo obiettivo, smarrendo ogni rapporto con il popolo e i territori che avrebbe dovuto rappresentare.

A tal riguardo, duole dover far presente che le primarie, per come sono state concepite, al pari dello statuto del PD, appartengono a un’infausta stagione che questi anni si sono incaricati di archiviare. L’idea che possa esistere un partito senza base, in cui può votare e decidere il primo che passa, in cui non c’è selezione della classe dirigente e, al massimo, ci si affida a formule magiche astratte, come se bastasse questo per ritrovare la rotta, è la negazione stessa della politica.

Senza contare che il nuovo innamoramento per il maggioritario, ossia per un sistema che svilisce il ruolo dei partiti e li trasforma in meri comitati elettorali, per giunta costretti ad alleanze forzate e destinate a svanire nell’arco di pochi anni, restituisce l’immagine agghiacciante di un progetto politico basato unicamente su una legge elettorale à la carte, peraltro favorevole solo a questa destra, messa nelle condizioni di ricompattarsi e di includere, a sua volta, tutto e il contrario di tutto.

L’Ulivo, al di là dei suoi limiti e delle sconfitte che ha subito, aveva in sé una visione, un progetto, una certa idea di mondo, valide per quell’epoca ma ormai anacronistiche. Se vuole rinascere un qualcosa di simile, deve parlare agli ultimi, al ceto medio proletarizzato dalle difficoltà economiche, ai giovani senza prospettive, ai deboli e agli esclusi, tenendo ben presente che la storia non è finita e che i 5 Stelle non sono né un avversario né l’alleato ideale ma semplicemente il termometro che segnala il febbrone da cavallo di un sistema ridotto, nel suo insieme, allo stremo.

A venticinque anni dalla notte di Santi Apostoli occorre un nuovo paradigma sociale, culturale, economico e la promozione di uno stile di vita radicalmente diverso e improntato alla sostenibilità, se si vuole tornare a parlare a un Paese fiaccato dalla disillusione e dall’ansia per un futuro che a molti appare sempre più nero.

Con meno di questo, anche l’avventura di due persone perbene come Enrico Letta e Giuseppe Conte è destinata, come si sarebbe detto in altre stagioni, a esaurire presto la sua spinta propulsiva.

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