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I modelli vincenti di Lazio e Atalanta: ecco perché ora metà Italia tifa per loro

Immagine di copertina
Illustrazione di Emanuele Fucecchi

Lazio e Atalanta modelli vincenti: ecco perché ora metà Italia tifa per loro

Tifare la squadra d’altri. Non è più un peccato mortale, ma una tendenza vitale. Gli anti-juventini sono diventati quasi tutti laziali (con l’eccezione dei romanisti, per i quali uno scudetto a “quelli là” equivarrebbe alla retrocessione della propria squadra), mentre la variegata platea della Champions League ha eletto l’Atalanta a simbolo dell’italianità residua, ovvero quella rappresentata dalla provincia che ha quasi sempre visto vincere le squadre metropolitane e spartirsi tra esse le simpatie alternative.

È un sentimento generalizzato, ma non certo assoluto. I bresciani, per ragioni di campanile, non potranno mai volere un’Atalanta grande anche in Europa (è già insopportabile che per il secondo anno consecutivo lotti per i posti della Champions League), così come romanisti e milanisti, oltre che napoletani, sperano in un crollo atalantino in campionato per mettere le mani sul quarto posto. Ma queste, in fondo, sono vicende domestiche.

La sostanziale novità è che l’Atalanta è la squadra di (quasi) tutti in Champions League perché rappresenta un modello virtuoso cui aspirare: società di tradizione e con i conti in regola, un settore giovanile che sforna giocatori di qualità (anche se adesso meno che in passato), una dirigenza competente e realista, un allenatore visionario (Gasperini gioca il 3-4-3 a tutto campo riducendo i confronti all’uno contro uno), che ha fatto la gavetta, ha preso qualche scoppola e si aggiorna in silenzio perché sa che il calcio evolve ad ogni giorno che passa.

Nel resto d’Italia c’è forse anche un’adesione antropologica per quelli di Bergamo: gente semplice e lavoratrice, fiera della propria identità, generosa con chi si impegna, ruvida con i venditori di fumo. Non li si invidia perché vorremmo essere come loro, ma perché loro non sono diversi da quel che appaiono. Sono proprio così, senza infingimenti, spettacolarismi o mimetizzazioni.

L’Atalanta, poi, è piccola, ma gioca da grande. Ai suoi giocatori e al suo allenatore non interessa subire un gol di troppo (è accaduto mercoledì sera con il Valencia battuto per 4-1), ma farne sempre uno in più dell’avversario. Nella gara di ritorno, che darà accesso ai quarti – ovvero significherà appartenere alle migliori otto squadre d’Europa – l’Atalanta non si difenderà seguendo il copione italianista, ma giocherà per vincere ancora. Questo coraggio tattico, unito a qualità tecniche esaltate dal Papu Gomez e da Ilicic, hanno finito per conquistare i tifosi altrui.

Tutti adesso sognano che la propria squadra sia come l’Atalanta, che il proprio allenatore assomigli a Gasperini e che il presidente edifichi una società come ha fatto Percassi. Ma, siccome sanno che non è possibile, tifano Atalanta con sportività, applaudendo alle sue imprese e accettando le non molte sconfitte.

Più contingente e, dunque, transitorio il tifo per la Lazio. Prima di tutto perché nasce da quello contro la Juve e, in misura minore, contro l’Inter. In secondo luogo perché riguarda lo scudetto, quindi il campionato, cioè una vicenda interna ai confini nazionali dove il calcio è rappresentato con connotati contradaioli. Dopo otto scudetti di fila, il calciofilo medio è oggettivamente stanco che a vincere sia ancora la Juventus. Perciò, se la sua squadra è staccata dalle prime o appartiene al ceto medio o basso della serie A, spera che a conquistare il titolo sia qualcun altro.

La Lazio incarna bene l’alterità. Sia perché nella sua storia ha vinto poco (2 scudetti), sia perché negli ultimi anni ha strappato alla Juve qualche trofeo minore (Coppa Italia, Supercoppa). Inoltre ha un allenatore italiano giovane e stimato da tutti (Simone Inzaghi), dispone di calciatori di grande qualità (è opinione comune che abbia il reparto di centrocampo migliore d’Italia), può contare su Ciro Immobile, attaccante della Nazionale, largamente in testa nella classifica cannonieri.

Anche la Lazio è una società sana grazie all’opera del suo presidente, Claudio Lotito che, però, al contrario dell’atalantino Percassi, non ha il dono né della modestia, né della sobrietà. Al di là delle molte connotazioni positive, la Lazio è sostenuta dall’altra metà dell’Italia, quella non juventina o dichiaratamente anti juventina, non solo perché destinata a rompere il monopolio bianconero, ma anche perché è un club tutto sommato neutro: raccoglie la stragrande maggioranza dei propri sostenitori nel Lazio, non vive di acerrime rivalità se non con i romanisti, piace perché, al pari dell’Atalanta, propone un calcio d’iniziativa e di successo. Solo a Roma, sponda giallorossa, l’eventualità del successo finale viene vissuta con terrore.

Scrive Antonio Padellaro, romanista accanito, sul Fatto Quotidiano: “Per chi ama i colori giallorossi tifare Juventus è l’ultima abiezione, l’infimo gradino che non si dovrebbe mai scendere. Eppure nell’attuale, sanguinosa contingenza davanti al combinato disposto ‘catastrofe Roma-apoteosi Lazio’ confesso di crogiolarmi in pensieri disgustosi”. Quali? Ce lo svela alla fine del pezzo ricordando che all’ultima di campionato la Roma sarà ospite della Juve e, se ve ne fosse la necessità, si potrebbe scansare come fece la Lazio nel 2010: “Trovo però che sarebbe meraviglioso restituirgli, con gli interessi, quello striscione canaglia che nel 2010 ci dedicarono, a parte invertite, dopo essersi loro scansati proprio con l’Inter: “oh nooo”. Proprio vero. Roma non sarebbe capitale se su tutto non facesse eccezione.

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