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Il razzismo nasce dalla mancanza di empatia. Lo dice la scienza

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Per combattere razzismo e violenza insegniamo l’empatia

Le proteste Usa contro l’omicidio di George Floyd riconsegnano all’opinione pubblica un dato spesso poco considerato: il razzismo esiste. E probabilmente per contrastarlo bisogna partire da una nuova domanda: non più “cosa causa il razzismo” ma come è possibile combatterlo, costruendo società realmente aperte e inclusive.

S&D

Ciò che veniva identificato nemico, diverso, straniero, è stato considerato, per secoli, un pericolo da evitare e combattere. Prima della costruzione di società evolute, che commerciavano e scambiavano beni e persone, chi presentava tratti somatici, colore della pelle, lingue o costumi stranieri era, semplicemente, un nemico da cui difendersi. Si tratta quindi di una condizione originale, primitiva e profondamente incompatibile con la società di oggi. Il sentimento razzista non è l’unica dinamica anti-sociale presente nella nostra società. La storia dell’uomo è costellata da guerre di conquista, violenza, genocidi e tra epoche storiche e Paesi non vi sono grandi differenze.

A parlarne in un’importante analisi è il neuroscienziato Simon Baron Cohen, che in un suo libro intitolato “Zero degrees of empathy” ha tracciato una cronologia delle dinamiche della violenza e della discriminazione, dalle tribù più antiche al genocidio nazista, fino ai raid di stupri di gruppo e omicidi subiti e compiuti da tribù “rivali” in Africa.

Cohen identifica, in quanto psicologo clinico, alcuni elementi ricorrenti nei comportamenti violenti o contrari alla società, riconducibili, in sintesi, alla mancanza di empatia. Nel caso di George Floyd, cittadino innocente ucciso dalla barbarie dell’agente di polizia (e dai suoi complici), la discriminazione razziale rappresenta un’aggravante della violenza. Un’aggravante che è considerata tale in qualunque ordinamento di paesi democratici che presentano sistemi normativi evoluti.

La coesistenza di sentimenti razzisti, fenomeni di discriminazione e una certa “accettazione” della violenza portano, ancora oggi, ad assistere a episodi inaccettabili e forse impensabili per una società evoluta. Nel suo libro, Cohen identifica quella che sembrerebbe essere la causa scatenante dei comportamenti violenti, discriminatori e anti-sociali: l’incapacità di potersi immedesimare nell’altro, nel poter immaginare emozioni, dolore o sofferenza. In sintesi, la mancanza di empatia.

L’empatia è però considerata una capacità e come ogni capacità, con le doverose cautele, può essere insegnata con diversi possibili gradi di successo, a seconda della condizione di origine del soggetto e di altri fattori socio-ambientali. Uno dei Paesi che più ha scommesso su un approccio educativo all’empatia è il Giappone: l’empatia (kyokan) viene incoraggiata fin dalle elementari, con insegnamenti diretti ed indiretti.

In Europa il caso più conosciuto è quello della Danimarca, dove viene svolta un’ora obbligatoria alla settimana di insegnamento all’empatia, nella quale gli studenti dai 6 ai 16 anni vengono incoraggiati a condividere i loro problemi e pensieri (scolastici e non), con l’obiettivo di far familiarizzare i più giovani con le emozioni dei loro coetanei. Oltre il razzismo, vi è quindi un problema che riguarda, in generale, la violenza e i comportamenti anti-sociali, ma questa non è una novità per nessuno.

Laddove però il razzismo diventa motore di violenze, è necessario intervenire per evitare che queste possano diffondersi ulteriormente. Se l’obiettivo di uno Stato è quello di garantire la serenità e sicurezza dei suoi cittadini, il contrasto al razzismo e ad ogni forma di violenza e discriminazione deve essere considerato una priorità costituzionale. Combattere il razzismo è un dovere, lavorare per una società più integrata è una responsabilità delle società evolute.

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