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    “Chiudere tutto!” è una iattura. Chiediamoci quando potremo riaprire perché stiamo rischiando troppo

    Di Luca Telese
    Pubblicato il 22 Mar. 2020 alle 16:39 Aggiornato il 22 Mar. 2020 alle 17:33

    Tralasciamo per un attimo il problema di una democrazia che deve rincorrere il tempo di una diretta facebook. Andiamo al cuore del problema, facendo finta, per un momento, che il decreto che ci è stato raccontato, e che più cambierà le nostre vite, sia già scritto ed emanato (anche se non è così). Speriamo anche che, con un po’ di furbizia italica, nella stesura, qualche manina intelligente salvi, sotto la categoria protetta dei “servizi essenziali”, molte produzioni utili e necessarie.

    Ma il punto è questo: credo che la chiusura totale della catena produttiva del paese sia un rischio drammatico, o una misura da mantenere solo per poche ore: massimo per dei giorni. Di sicuro non per dei mesi. L’Italia non si è fermata nemmeno per la seconda guerra mondiale, sotto le bombe di nazisti e alleati, e oggi non può permettersi nessuno stop prolungato. Nemmeno di fronte ad una devastante emergenza sanitaria. Neanche di fronte alle vittime. Fermare un intero paese adesso, e a lungo, significa rischiare di compromettere il suo futuro. E nessuno può permettersi di barattare i destini di un paese: non si possono mai scambiare le peggiori paure del presente con le speranze necessarie del domani. Pena il suicidio.

    Certo, sappiamo come si è arrivati a questo: ottocento morti in un solo giorno, in un sabato di marzo, nelle ventiquattr’ore più funeree della storia repubblicana. La paura è entrata nelle vene di una nazione. Le terapie intensive del nord sono intasate, e lo sappiamo. Il sistema sanitario è finito allo stremo dove ci avevano raccontato che era una macchina efficiente (al Nord), ed è stato travolto dalla paura preventiva, dove già sapevano che era a pezzi (al Sud).

    L’Italia è il paese con più morti di Coronavirus al mondo. Ma dobbiamo sapere che se non saremo una nazione che sta in piedi sulle sue gambe, quando la crisi sarà finita, non ci salverà nessuno. Io non sono in grado di dire se (come sembra) che dal punto di vista medico dovevamo fare più tamponi. Non sono un epidemiologo, non mi occupo di questo. So però che che facendo pochi tamponi, sul piano informativo – e questo è il mio lavoro – il nostro tasso di mortalità (apparente) è salito vertiginosamente diventando il più alto del mondo: ed è questo numero che oggi ha fatto di noi un paese di appestati.

    È questo numero che ha reso la situazione insostenibile. Non avevamo mascherine e reagenti, non avevamo guanti e kit sanitari: la prima carenza ha prodotto cadaveri, la seconda ha creato un sentimento di paura globale nel pianeta e lo ha ribattezzato “Italia”. Non abbiamo nemmeno atteso il tempo necessario (almeno quindici giorni, secondo i medici) per valutare gli effetti del primo decreto, che già ne abbiamo emanato un secondo. Abbiamo deciso seguendo un unico termometro – il numero dei morti -su cui abbiamo una sola certezza: per effetto dei tempi di incubazione e di malattia è una fotografia vecchia di almeno quindici giorni.

    Tutti noi oggi sappiamo che la chiusura totale avrà delle conseguenze drammatiche e devastanti per la nostra bilancia delle esportazioni, per evidenti motivi. Sappiamo che alcuni mercati, se ci sfuggiranno oggi, rischiamo di perderli per sempre. Possiamo permetterci di fare tutto questo per ore, non certo per giorni. Di certo non per mesi.

    So che se abbiamo avuto così tanti morti, sul nostro territorio, avremo bisogno di studi e di anni per capire tutte le cause e le concause acceleranti di cui si parla oggi, dall’inquinamento agli impianti di areazione, dai ceppi alle mutazioni nei territori e nei focolai. Ma so anche – e questo è l’unico fatto che nessuno può negare – che moltissime delle vittime sono dovute alla mancanza delle terapie intensive. Forse, nei territori più colpiti, addirittura ma maggioranza dei decessi. Non avevamo modo di assistere i nostri malati: molti sono morti a casa senza nemmeno il conforto di un tanpone. Molti sono molti del virus, senza saperlo.

    Se la Germania ha una crescita di contagi simile alla nostra, ma un numero irrisorio di vittime, è anche perché aveva 28mila terapie intensive già attive prima della guerra del virus. Aveva le armi giuste per combattere, noi no. Però noi abbiamo fatto di peggio: in queste ore stiamo scambiando la causa con l’effetto. Conpugiamo nella schiera di morti del virus, molti che in realtà sono morti per malasanità. E questo è un errore che non dovremmo fare perché ci porta al rischio della catastrofe.

    Noi – sia nelle regioni di destra che in quelle di sinistra – le terapie intensive le abbiamo smantellate, in questi anni, in nome di un idolo folle: il debito. Fare tagli per migliorare i bilanci e nessuno poteva discutere. Chiudere i piccoli ospedali e nessuno poteva discutere. Chiuderli da destra (e con parole di destra) quando governava la destra, da sinistra (e con parole di sinistra) quando governava la sinistra: ma comunque chiudendole. Siamo entrati in guerra nudi: senza armi, senza uniformi, senza protezioni, senza catene logistiche.

    Non assumere medici: non pagare le borse di specializzazione. Precarizzare tutti i ruoli nel mondo della sanità. E adesso dobbiamo “importare” medici dalla Cina o da Cuba. Possiamo raccontarci qualsiasi balla, ma i ventilatori si posso comprare, magari pagandoli troppo: le mani di un medico o di un infermiere che portano i tubi alla bocca di rischia la vita, invece, no.

    Adesso stiamo contraendo il debito più grande della nostra storia, per provare a salvare, in emergenza, la nostra sanità. È una follia senza precedenti. Abbiamo chiuso gli ospedali per non fare di debito, adesso li riapriamo, spendendo il doppio, a debito. E poi fermiamo un intero paese, sempre a debito. Senza sapere ancora se ci faranno credito. Un bel rischio. Lo può decidere una famiglia, per se stessa, non può deciderlo un pugno di urlatori isterici alla ricerca del consenso, in nome e per conto di sessanta milioni di italiani. Non si può decidere di chiudere tutto con un parlamento chiuso per paura.

    Ed ecco l’ultima cosa, ma è quella decisiva: il parlamento deve riunirsi. Vanno in guerra infermieri e medici, postini e addetti delle pompe funebri, rischiano i trasportatori e i marittimi, i giornalisti. Vadano in guerra anche i parlamentari. Nessuno deve poter dire, un giorno, che il Parlamento quando si è presa la decisione più imperante era, come di fatto oggi è: chiuso. Infine il coro

    C’è stato un crescente coro isterico che ha chiesto e imposto questa chiusura: gli stessi presidenti di regione che ci hanno regalato il nulla osta alle partite di calcio bomba virale (Atalanta Valencia se la ricorda qualcuno?) hanno chiesto e preteso in modo isterico, e imposto a un governo non abbastanza determinato nel resistere la serrata totale. Non della Lombardia o del Piemonte. Di tutta l’Italia.

    Destra e sinistra hanno duellato nella caccia al consenso più facile, e ovviamente a breve termine, al grido: “Tutti a casa”. Bene, adesso è il caso di pensare bene chi pagherà, e come, quando tutto finirà. Dove troveremo le risorse per ricostruire. Quanto tempo servirà (se basterà) per recuperare i mercati che stiamo perdendo. Avete chiuso un paese, e dite che c’è voluto coraggio. Adesso trovate subito il coraggio che serve per riaprire l’Italia, al primo segnale utile, prima che sia troppo tardi.

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