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Il bonus precari da 40 euro al mese è solo una mancetta. Che fine fa il salario minimo di Pd e M5S?

Immagine di copertina
Credit: Pixabay

Il bonus precari da 40 euro al mese è solo una mancetta

Di taglio al cuneo fiscale si parla da settimane, ormai. “Diminuire la pressione su lavoratori e aziende è necessario”, ripetono gli esponenti di ogni schieramento, tanto che il taglio del cuneo costituirà, insieme alla sterilizzazione delle clausole di salvaguardia per impedire l’aumento dell’Iva, l’ossatura principale della Legge di Bilancio.

Ma di che cifre parliamo? È presto detto: 23 miliardi saranno la cifra necessaria per bloccare l’aumento dell’Iva, mentre saranno a disposizione circa 2,7 miliardi per il taglio del cuneo fiscale. Questa cifra si tradurrà in un bonus pari a circa 40 euro al mese di netto in più per i lavoratori dipendenti e co.co.co che guadagnano dagli 8mila ai 26mila euro lordi l’anno. Una mancetta, l’hanno definita in molti, imprese comprese.

La maggioranza sul tema appare spaccata: Italia Viva di Matteo Renzi considera insufficienti gli sforzi del governo Conte 2 e ha recentemente sostenuto che i 2,7 miliardi per il taglio del cuneo fiscale sono “solo spiccioli”, provocando l’ira di Conte. Di parere opposto è il viceministro dem all’Economia, Antonio Misiani, che proprio ieri ha chiesto che quel paio di miliardi non vengano utilizzati per dare un assegno mensile ai cosiddetti “working poor”, gli incapienti, coloro che pur lavorando guadagnano meno di 8mila euro lordi all’anno e non sono stati toccati dal bonus Renzi.

“La riduzione progressiva del cuneo fiscale a partire dal 2020 è la misura più apprezzata dagli italiani. Dobbiamo iniziare a farlo il prima possibile. La priorità, a mio parere, è iniziare ad aiutare i dipendenti a basso reddito: 3 milioni e 700 mila lavoratori incapienti che sono rimasti esclusi dal bonus 80 euro di Renzi e che solo in alcuni casi beneficiano del reddito di cittadinanza”, ha spiegato Misiani su Facebook.

Sebbene ogni euro in più in busta paga può costituire un vantaggio non da poco per i lavoratori, soprattutto per coloro che guadagnano meno e sono a ridosso della soglia di povertà, la proposta di Misiani appare un po’ miope.

Partiamo da alcuni dati di fatto, sottolineati dallo stesso Misiani: il mondo del lavoro in Italia è affetto da problemi strutturali irrisolti da decenni. Il cuneo fiscale è troppo alto, i lavori sottopagati (o in nero) sono, purtroppo, la maggioranza, gli stipendi medi sono decisamente inferiori rispetto alla media europea, i giovani under 30 sono costretti a barcamenarsi tra stage pagati poche centinaia di euro al mese e contratti precari con stipendi al limite della sussistenza.

Non saranno certo 2,7 miliardi di euro e nemmeno il doppio a cambiare tutto ciò, né saranno i 40 euro mensili a permettere ai “working poor” di condurre una vita più dignitosa. Se si parlasse di cifre ben più alte, l’Earned Income Tax Credit proposta da Misiani sarebbe interessante, ma la realtà è ben diversa. A parole, da mesi, sia M5S che Pd parlano dell’introduzione del cosiddetto salario minimo, una cifra oraria minima sotto la quale non si potrà scendere per retribuire i lavoratori non coperti da Ccnl. Che fine ha fatto quella proposta? Perché sembra scomparsa dai radar e quasi nessun esponente politico ne parla più?

Non sarebbe molto più costruttivo e logico partire dall’introduzione del salario minimo e proporre una seria riforma del lavoro che contrasti “i contratti pirata”, l’utilizzo allegro della rotazione continua di stagisti per abbattere il costo del lavoro aziendale e il lavoro nero, presente in maniera trasversale e persistente in tutta Italia e in particolare al Sud anziché mettere a bilancio somme che, evidentemente, non potranno mai costituire un netto cambio di passo né per i precari né tantomeno per le imprese che avrebbero bisogno di meno tasse sì, ma anche di semplificazione fiscale e meno burocrazia?

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