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Giovani, sfruttati e senza futuro: com’è stato avere vent’anni negli anni Dieci

Immagine di copertina
Credit: PIxabay

Autobiografia di una generazione nel decennio tunnel

2010 2020 | Giovani, sfruttati, senza futuro: il decennio visto dai millennials

Bisogna riavvolgere il nastro e tornare indietro di un decennio. Se vogliamo davvero comprendere questi anni Dieci che volgono all’epilogo, dobbiamo infatti guardarci dentro e riflettere, innanzitutto, su noi stessi. Siamo i cosiddetti “millennials”, la generazione nata a cavallo fra gli anni Ottanta e i Novanta, coloro che avevano vent’anni quando Facebook iniziava ad affacciarsi nelle nostre vite e Twitter, almeno in Italia, era ancora appannaggio di una ristretta cerchia di pionieri.

Siamo i figli del post-Muro, la generazione cresciuta nel culto dell’Europa e dell’Erasmus, quelli cui da bambini avevano raccontato che il nuovo Millennio sarebbe stato tutto rose e fiori e che la fine delle ideologie novecentesche fosse una meraviglia perché finalmente la politica, fuori dalla logica dei blocchi contrapposti, sarebbe stata libera di confrontare le proprie idee in maniera costruttiva e senza barriere di sorta a fungere da ostacolo.

Siamo, dunque, una delle generazioni più ingannate di sempre, seconda solo a coloro che avevano vent’anni il 10 giugno 1940 e che nel luglio di tre anni dopo avrebbero visto crollare tutti i miti e le certezze di cartapesta di una non ideologia trasformatasi in regime che aveva condotto l’Italia nel baratro dell’alleanza con Hitler e di una guerra devastante.

Siamo una generazione cui è stato tolto tutto: sogni, speranze, prospettive, il concetto stesso di futuro, tanto che in questo Paese non nascono più bambini e migliaia di cervelli ogni anno preferiscono emigrare altrove, con una valigia colma di rimpianti e il cuore pesante di chi sa di essere vittima di un’ingiustizia cui non può in alcun modo opporsi.

Siamo la generazione, complessivamente, più colta di sempre ma anche la più sfruttata, costretta a vivere con salari da fame e contratti all’insegna della precarietà: un fattore esistenziale prim’ancora che lavorativo, ormai assurto a condizione quasi ineluttabile.

Siamo l’ultimo brandello del Novecento, l’ultima fiammella di un secolo che abbiamo attraversato per poco tempo ma di cui, comunque, abbiamo ricordi e testimonianze dirette, a differenza di coloro che sono venuti dopo e davvero col “Secolo breve”, i suoi splendori e le sue miserie non hanno nulla a che spartire.

Quando è salito al potere Tony Blair, per dire, sia pur bambini, noi c’eravamo. Come c’eravamo quando è cambiato secolo e al posto dell’1 è comparso il 2. C’eravamo l’11 settembre 2001, quando nulla è stato più come prima e tutto, purtroppo, si è modificato in peggio. E c’eravamo nei giorni delle bombe sui treni di Madrid, dell’attacco ceceno alla scuola di Beslan e degli attentati nella metropolitana e su un autobus di Londra, durante le guerre in Afghanistan e in Iraq, nel momento amaro della scoperta degli abusi americani nel carcere di Abu Ghraib e quando i dipendenti della Lehman Brothers sono usciti dagli uffici con gli scatoloni in mano, testimonianza emblematica della conclusione di un’epoca di falso benessere.

La verità è che, pur avendo a malapena trent’anni, siamo dei reduci e come tali ci sentiamo e veniamo considerati. Noi questo decennio che volge all’epilogo lo abbiamo più sofferto che vissuto, più temuto che apprezzato, cercando ogni giorno di resistere mentre intorno a noi ogni certezza si andava sgretolando e giornali e telegiornali somigliavano, sempre più, a dei bollettini di guerra.

Abbiamo visto la Grecia finire in ginocchio, con le strade di Atene trasformate in enormi piazze della rabbia e della disperazione e un uomo che correva nudo, assurgendo a simbolo della miseria di un popolo, e abbiamo visto le file interminabili davanti a bancomat privi di contante, dopo un referendum il cui esito era stato diverso dai desiderata di Schäuble e dei tecnoburocratici nordici, pertanto andava contrastato con la massima severità.

Abbiamo visto la vittoria effimera di Alexis Tsipras, tanto carica di speranze all’inizio quanto triste nel suo epilogo tra le ombre, sconfitta dall’impossibilità di portare a compimento quella rivoluzione sociale e democratica di cui il Paese avrebbe avuto un disperato bisogno e, infine, superata dalla normalizzazione di segno conservatore ad opera di Mītsotakīs.

Abbiamo assistito in Spagna al miracolo di un risveglio civile che ha condotto una donna del popolo come Ada Colau dalla battaglia contro gli sfratti dalle abitzioni alla guida e alla rielezione in una città nell’occhio del ciclone come Barcellona. Abbiamo visto i giovani senza futuro accampati alla Puerta del Sol di Madrid e la nascita di un soggetto politico, Podemos, capace di mescolare le idee di Antonio Gramsci con quelle di Ernesto Laclau, dando vita a una sorta di populismo di sinistra che altrove nessuno è stato in grado di emulare con altrettanto successo.

Abbiamo visto l’America passare dalla speranza obamiana al trumpismo, a dimostrazione di quanto avesse ragione Bobbio quanto sosteneva che la democrazia è fragile e dev’essere difesa ogni giorno con passione, in quanto nessun diritto è mai acquisito per sempre. L’America di Trump ci fa paura, ci appare ostile e inospitale, ci dà l’impressione che le due sponde dell’Atlantico si siano drammaticamente allontanate, eppure è con lui che dovremo fare i conti il prossimo novembre, sperando che un buon vento socialista possa spazzarlo via e restituirci l’America di cui abbiamo bisogno.

Ecco, il caso americano deve essere studiato e seguito con la massima attenzione, in quanto ci dice che nell’abisso, nel baratro, nella crisi che morde e rende impossibile anche solo immaginare un domani una generazione di utopisti, la nostra, ha prodotto una Ocasio-Cortez e, se vogliamo, anche una Ilhan Omar, di poco più grande di Ocasio, entrambe prese per mano da un anziano socialista del Vermont come Bernie Sanders, che con la sola forza delle sue idee è riuscito nell’impresa di modificare, almeno in parte, l’agenda di un Partito Democratico uscito a pezzi dalla sconfitta di Hillary Clinton nel 2016 e, prim’ancora, dal progressivo dissolversi dell’obamismo, per certi versi, ahinoi, fallimentare.

Il decennio cui diciamo addio ci dice che i ventenni di ieri, i trentenni di oggi e la classe dirigente di domani sono in marcia verso un futuro di cui non conoscono nulla, una storia dai contorni indefiniti, tutta da scrivere, senza più barriere né blocchi contrapposti, né Nato né Patto di Varsavia, con una Cina che appare vicina ma non lo è poi così tanto e una Russia che, per quanto si dimeni lo zar Putin, non ha e non avrà più il ruolo che ebbe nei quattro decenni che fecero seguito al secondo conflitto mondiale.

Raccontando questo decennio con gli occhi della nostra generazione, possiamo dire che abbiamo vissuto, sperato, pianto, assistito al declino della politica nel nostro Paese e che non siamo ancora riusciti a inventare nuove forme di rappresentanza e convivenza civile.

Diciamo che le Sardine fanno ben sperare ma sono un movimento tutt’ora in nuce e assolutamente da decifrare. Abbiamo assistito, questo sì, alla disfatta del populismo di casa nostra, in quanto la regione che diede i natali al M5S, con il 7 per cento di Favia alle regionali del 2010, potrebbe condurre un soggetto che nel frattempo è arrivato alle porte di Palazzo Chigi e alla dissoluzione, più o meno consegnandogli la stessa percentuale il prossimo 26 gennaio, dopo avergli fatto toccare le vette del 30 e, in alcune regioni, persino del 40 per cento.

Il che lascia intendere quanto la nostra generazione debba ancora camminare prima di trovare il proprio posto nel mondo, possibilmente costruendo strutture solide in grado di rendere meno impervio il percorso.

Non sarà ricordato come un grande decennio per la musica e per l’arte in generale: sono usciti molti bei libri, da “M.” di Scurati all’affermazione della misteriosa Elena Ferrante, e tutto questo resterà, ma nel complesso non c’è stato un Márquez o un Sartre, un autore o una storia che senza dubbio è destinata a diventare un classico della letteratura.

Resterà il vuoto, l’assenza, le occasioni perdute, come sempre accade nei decenni tunnel, quelli che non hanno e non possono avere una propria identità in quanto fungono da passaggio fra un’epoca e un’altra, fra un secolo e quello successivo, corridoi da attraversare prima di entrare in una nuova, grande stanza piena di incognite.

La certezza è che gli anni Venti, come spesso capita a questo insidioso decennio, un’identità invece ce l’avranno eccome. Accadde nell’Ottocento, quando incubarono i moti risorgimentali che avrebbero condotto alle insurrezioni e alle guerre d’indipendenza dei decenni successivi. E accadde tragicamente nel Novecento, quando incubarono i regimi totalitari che avrebbero condotto il mondo nell’abisso a cavallo fra gli anni Trenta e gli anni Quaranta.

Accadrà, probabilmente, anche nei prossimi dieci anni, e starà a noi far sì che fra un secolo gli anni Venti del Ventunesimo secolo non siano ricordati come esempio di catastrofe in arrivo ma di possibile e doverosa riscossa collettiva. E noi, che siamo entrati in questo tunnel col furore dei vent’anni e ne usciamo, si spera, con la maturità dei trenta dobbiamo essere ben consapevoli che ora tocca a noi. E non possiamo sbagliare.

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