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Caporetto diplomatica: le ambizioni italiane naufragano sulle coste della Libia

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Il dilemma italiano è questo: abbandonare al-Sarraj al suo destino lasciando la Libia in mano a russi, egiziani e francesi, o lavorare per un accordo con Haftar?

I prodromi di quello sfacelo libico che ogni giorno che passa mette sempre più in imbarazzo la posizione italiana erano già visibili – per chi aveva occhi e orecchie per coglierli – già nel lontano 2012, quando, a un anno di distanza dalla risoluzione 1973 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, la Libia, o per meglio dire quelle tre entità che ci si ostinava a chiamare con quel nome – Tripolitania, Cirenaica e Fezzan – preannunciavano fin da allora la profonda divisione del Paese.

S&D

Già all’epoca, quando ci aggiravamo fra le macerie dell’ambasciata italiana a Tripoli, quando la Bengasi che fu la prima a liberarsi del gioco della jamahiriya scivolava lentamente nella palude della spartizione tribale, quando nella stessa Tripoli l’aeroporto internazionale era saldamente in mano agli Zintan, le caserme ai Fratelli Musulmani e la municipalità della capitale si dichiarava impotente a governare la città solo formalmente liberata

Memorabile quanto imbarazzante la mia intervista con il vicesindaco – il sindaco si era dato alla clandestinità -, costretto ad ammettere che a causa delle pressioni e delle rivalità fra le decine di clan era sostanzialmente impossibile costituire un corpo di polizia, istruire la vigilanza urbana, di fatto controllare il territorio.

La situazione, se possibile, non ha fatto che peggiorare. Recluso (o dovremmo dire ostaggio?) nella base navale di Abu Sitta ai margini di Tripoli – l’unico luogo dove è realmente possibile assicurargli una decorosa protezione personale – il premier Fayez al-Sarraj, che nel dicembre del 2015 aveva ottenuto a Skhirat in Marocco sotto l’egida dell’Onu il mandato per formare un governo di unità nazionale, è ormai un uomo senza poteri, senza margini di manovra, probabilmente senza futuro.

E non è tanto il rumore di sciabole con cui l’ex premier del dissolto governo islamista Kalifah Ghweil ha inscenato nelle scorse ore una sorta di golpe-morbido, tanto da costringere funzionari e dirigenti governativi ad abbandonare le proprie sedi ministeriali: dietro Ghweil si muove la corrusca lobby dei trafficanti di vite umane, ostili all’intesa fra al-Sarraj e il governo italiano a un capillare pattugliamento delle coste libiche, in particolare nel tratto fra Tripoli e Misurata in cui sorge il porto di al-Khoms, base degli scafisti e zona franca dei Fratelli Musulmani e di chi accortamente li manovra, ovvero il Gran Muftì Sadiq al-Ghariani e l’ex presidente del parlamento di Tripoli Abdulrahman al-Swehli.

In altre parole, questioni di bassa bottega mascherata dietro un nazionalismo di facciata culminato con la protesta per quella bandiera tricolore issata qualche giorno fa sul tetto dell’ambasciata italiana. Ma non è il fanta-golpe (non il primo, peraltro, inscenato da Ghweil) a preoccupare al-Sarraj e il suo alleato italiano, quanto il pericolo che viene da est, da Bengasi, da Tobruk (sede di un parlamento non riconosciuto dalla comunità internazionale), dove un’altra Libia – la stessa che accusa l’Italia di «una nuova occupazione coloniale» è saldamente nelle mani del generale Khalifa Haftar.

Ed è lui, il vero uomo forte della Libia, che in realtà sta distribuendo le carte di un gioco sempre più pericoloso e sempre meno in linea con gli auspici dell’Onu. Haftar, che nei mesi scorsi aveva occupato i pozzi petroliferi dell’est, è sostenuto dall’Egitto, dagli Emirati del Golfo, dalla Turchia e da Mosca. Nella sua un po’ ruffianesca teatralità, l’accordo siglato da Haftar sulla portaerei russa Admiral Kuznetsov, – si parla di basi navali concesse alla flotta di Mosca come già quelle ottenute da Putin in Siria dopo il suo vittorioso appoggio al regime di Assad – getta un’ombra sul futuro della Libia e non fa che confermare come l’espansionismo russo nei mari caldi iniziato nel 2014 con l’annessione della Crimea e della base navale di Sebastopoli non conosca soste: se così davvero accadesse, avremmo il naviglio che batte bandiera della Federazione Russa a un passo dalle nostre coste.

Eventualità che Tobruk saluta con un doppiopesismo da manuale: Haftar accoglie i russi attraccati sulle coste libiche come amici e protettori, mentre la nave italiana San Giorgio in arrivo a Tripoli e Misurata è stava vista da Tobruk come “un atto di aggressione nelle acque territoriali nazionali”.

Vani, per il momento, i tentativi di al-Sarraj di ottenere la mediazione egiziana per l’apertura di un dialogo con Khalifa Haftar. Anzi, è bastato che si assentasse due giorni dal suo bunker che stava per andare a segno un golpe.

E l’Italia? Dall’epoca dell’intervento militare nel 2011 tutto ha congiurato perché le circostanze giocassero a nostro sfavore. Sotto il tiro dei fondamentalisti (ispirati dal sedicente governo di Tobruk) ci sono ora gli italiani: sia i turchi (che appoggiano gli islamisti) sia la Russia (che sostiene Haftar) vorrebbero che levassimo le tende dal suolo libico: nazionalismo e islamismo per l’ennesima volta si alleano.

In un quadro dominato dal caos civile e da profonde e forse insanabili rivalità l’unica certezza rimane il petrolio: la Noc (la compagnia petrolifera nazionale) continua a pompare greggio: 700 mila barili al giorno, ben lontani dal milione e seicentomila dell’era Gheddafi, ed anche dagli 800 mila che sarebbe in grado di esportare, i cui profitti per ora confluiscono ancora nella casse di Tripoli.

In questo scenario il dilemma italiano vanta una sua sconfortante semplicità: abbandonare al-Sarraj al suo destino e lasciare la Libia ai robusti appetiti russi, egiziani (e da qualche giorno – potevano mancare ? – anche francesi) o lavorare per un accordo con un uomo come Haftar che vuole tutto e anche di più e non riconosce il governo di Tripoli? Non dovevamo essere noi italiani i registi e i garanti della riconciliazione libica? Se questa non è una Caporetto, poco ci manca.

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