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Parigi, alla manifestazione contro la legge sulla sicurezza scoppiano scontri e violenze: “Ecco perché protestiamo”

Immagine di copertina
Credit: Fabio Bolzonar

Nella capitale francese scoppiano le violenze alla protesta contro la legge sulla sicurezza. Ma le ragioni della protesta sono anche altre

di Fabio Bolzonar da Parigi – Poco prima delle 14, le vie intorno a Porte des Lilas, luogo di partenza della manifestazione contro la legge per la sicurezza voluta dal governo Macron, sono già affollate. È un mosaico di sigle, striscioni e colori. Fra loro, ci sono i sindacati, per lo più la CGT, l’equivalente dell’ Italiana CGIL, c’è SOS Racisme, un’organizzazione contro le discriminazioni nata negli anni Ottanta su iniziativa di alcuni membri del Partito Socialista, oggi completamente assente dal corteo, c’è Solidarieté, una nota associazione umanitaria, oltre ad una miriade di gruppi della sinistra più o meno radicale e anarchica. Guardandomi intorno, mi chiedo perché la stampa si concentri sempre nel descrivere le violenze che accompagnano le manifestazioni, invece di capire le ragioni per cui tanti cittadini diversi stiano per sfilare per le strade in una fredda giornata di dicembre.

Come osserva Pierre, un giovane delegato sindacale della CGT, è una grande banalizzazione giornalistica ridurre la manifestazione di oggi ad una protesta contro le violenze della polizia. Certo, continua Pierre, siamo qui per dire no ad una legge che riteniamo ingiusta, ma sono anche altre le ragioni della protesta. La manifestazione di oggi, interviene un altro delegato sindacale, coincide con l’annuale corteo organizzato a ogni inizio dicembre per il diritto al lavoro, che quest’anno risulta ancora più minacciato dalla riforma dell’assicurazione disoccupazione in esame dal Parlamento, la continua precarizzazione del lavoro e le conseguenze della crisi dovuta al Covid 19. In altre parole, due manifestazioni in una.

Probabilmente le manifestazioni sono anche più di due. Per accorgersene, basta parlare con chi vi partecipa. Philippe e sua moglie sono qui per dire no al nuovo ordine mondiale liberale, per ricordare come non possa esserci libertà senza uguaglianza e come la Francia di oggi sia diventata una “democrazia elettorale”, un paese in cui nella i politici ci chiedono il voto ogni cinque anni e poi ci voltano le spalle. Quando lavorava per la SNFC, le ferrovie francesi, Philippe mi ricorda come lui e alcuni suoi colleghi denunciarono i continui tagli alla sicurezza nei trasporti ferroviari. Prima furono attaccati dell’azienda, poi emarginati nel sindacato. L’amarezza per quell’esperienza lo ho portato ad aderire ai Gilets jaunes e per lui manifestare è ormai l’unico modo attraverso il quale può far sentire un po’ la sua voce.

Poco più in là alcuni ragazzi di colore reggono uno striscione di Solidarieté. Davanti a loro, altri suonano dei bongo. La melodia è allegra e loro facce sono sorridenti, ma le loro parole aspre. Neïla, una giovane ragazza magrebina mi dice come negli ultimi anni la pressione della polizia sulle minoranze etniche si sia fatta più intensa. Se in strada c’è un bianco o un africano, osserva Neïla, la polizia sottoporrà a controlli asfissianti il secondo e ignorerà il primo. Certo, continua Neïla, non tutti i poliziotti sono uguali, ma la maggior parte di loro si comporta in questo modo. Per lei, la nuova legge per la sicurezza del governo potrebbe lasciare ancora più mano libera a tali atteggiamenti discriminatori, se non proprio violenti.

Un’opinione molto simile mi viene espressa da Juliette, una studentessa di antropologia figlia di immigrati senegalesi, la quale ritiene che la polizia dovrebbe avere più rispetto per i cittadini. Tuttavia, quello che più la indigna è la degradazione della democrazia in Francia. Quando le chiedo se ha fiducia in qualche gruppo o personaggio politico, mi risponde accennando un sorriso gentile e aggiunge di essere anarchica, ma di credere comunque nei meccanismi democratici, in primo luogo le elezioni. Una profonda rassegnazione, che tende verso il risentimento verso l’attuale politica francese, è un po’ l’elemento comune che emerge dalle discussioni che ho con tutti coloro con cui parlo al corteo. Le violenze della polizia e una legge che potrebbe coprirle ancora di più sembrano essere la cosiddetta ultima goccia che fa traboccare il vaso di un risentimento sociale sempre più diffuso, che il governo Macron sembra non avere adeguatamente capito, se non proprio esasperato con politiche liberali imposte dall’alto.

È quello che mi dice anche Alan, un consigliere comunale di un paesino poco fuori Parigi. Questo governo, secondo lui, è completamente incapace di gestire la situazione. Avremmo bisogno di meglio. Di chi o che cosa, gli chiedo. Non lo so, mi risponde. La sinistra francese, e non solo quella, è molto debole, manca di persone che siano in grado di proporre un programma comune e i nomi che circolano come candidati per le prossime presidenziali sono vecchie figure che non hanno più niente da dare. Non sorprende se il diffuso malessere sociale sfoci nella rassegnazione o nella violenza se la politica non riesce a comprendere i cittadini.

A proposito di violenza, quasi all’inizio del corteo, incontro infine fra un gruppo di black bloc. Sono poco più di un centinaio. Giovanissimi, tutti vestiti di nero, alcuni con dei cartelli con scritto ACAB, acronimo inglese per “all cops are bastards – tutti i poliziotti sono bastardi”. A un certo punto inneggiano, in Italiano, “siamo tutti anti-fascisti”, poi ululano contro i poliziotti dicendo loro di andarsene, oltre ad altre parole che non è opportuno ripetere. Poco dopo lanciano dei petardi e della vernice rosa e bianca contro gli agenti e alcuni cercano di appiccare il fuoco a quello che trovano per strada. Non penso che questi atteggiamenti abbiano qualcosa a che fare con l’anti-fascismo. Anzi, mi sembrano l’opposto. Quando i poliziotti intervengono, scoppia il caos: lancio di pietre sui poliziotti (e sui manifestanti), due auto e un furgone date alle fiamme, vetrine spaccate e un’agenzia assicurativa saccheggiata.

Credit: Fabio Bolzonar

Il corteo non raggiungerà mai Place de la Republique, sua destinazione programmata, ma sarà poco altro che un susseguirsi di violenze da parte di ragazzi in nero e cariche della polizia. Provo un po’ di pena per i poliziotti, alcuni dei quali sembrano visibilmente spaventati. Come mi dicono alcuni giornalisti francesi, non sono per nulla coordinati fra loro e sembra che non sappiano bene che cosa fare. Verrebbe da pensare che siano stati gettati nella mischia e abbandonati, quasi sperando che non potessero controllare gli episodi di violenza.

Dopo aver rischiato più volte che un pezzo d’asfalto lanciato da qualche black bloc mi finisse in testa, mi allontano da quello che avrebbe dovuto essere un corteo. Accanto a me, alcuni anziani delegati della CGT che guardano sconsolati quello che accade. Domando loro perché tanta violenza. Mi rispondono che non sanno spiegarselo. Sembrano rassegnati e preoccupati che tutto questo allontanerà ancora di più le persone dalla protesta. Tornando a casa, mi chiedo se quello che ho visto e ascoltato non sia soltanto una questione francese, ma una piccola rappresentazione di un fenomeno che rischia di generalizzarsi in un’Europa in cui i politici sono incapaci di ascoltare il malessere sociale, i governi cercano di imporre misure autoritarie e cittadini che vorrebbero democraticamente esprimersi si rassegnano. Se così fosse, c’è ben poco da essere fiduciosi nel mondo del post-Covid 19.

Credit: Fabio Bolzonar

Leggi anche: Cosa ci insegna la rivolta delle donne polacche contro il divieto di aborto (di F. Bolzonar)

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