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Gli aiuti da Trump e quel passato da “sceriffo”: gli scheletri nell’armadio di Kamala Harris

Immagine di copertina
Kamala Harris. Credit: EPA/Tom Williams / POOL

La nomina di Kamala Harris come candidata alla vicepresidenza nel caso di vittoria del democratico Joe Biden sta facendo discutere negli Stati Uniti, e come spesso accade quando un candidato acquisisce visibilità o ruoli politici, oppositori interni ed esterni stanno scatenando una vera e propria guerra a colpi di dossieraggio su azioni, posizioni e dichiarazioni del passato della candidata.

L’ultima notizia riguarda una donazione di Donald Trump a sostegno della campagna della Harris quando concorreva per la rielezione a procuratore generale della California, un ruolo che negli Stati Uniti è elettivo. Trump e la sua famiglia avevano infatti sostenuto la Harris nel 2011 e nel 2014 e a dimostrarlo sono i dati pubblici delle donazioni alla campagna, pubblicate dal Washington Post.

Il sostegno di Trump alla Harris non è l’unico elemento di ombra sulla candidata, le accuse più importanti riguardano proprio il suo passato da procuratore generale. La Harris ha infatti condotto due feroci battaglie che oggi risultano indigeste ai democratici più progressisti: quella contro i sex workers, e contro la vendita di droghe leggere.

Nel 2010 e nel 2014, Kamala Harris si era ferocemente opposta alla legalizzazione della marijuana nello Stato della California, in contrasto alle posizioni dello sfidante repubblicano Rick Gold, e nel 2018 aveva promosso una norma di sequestro preventivo dei beni di presunti criminali, che avrebbe permesso di congelare fondi e asset di cittadini, prima ancora che potessero essere dichiarate delle ipotesi di reato.

Sul tema del prostituzione, Kamala Harris aveva avuto un atteggiamento analogo: nel 2015 un’associazione di categoria di sex workers locali, aveva gettato le basi per una possibile legalizzazione della prostituzione volontaria in California, suscitando la ferma opposizione della procuratrice. Per contrastare tutte le tipologie di prostituzione, la Harris aveva costruito un team di sentinelle costituito da camionisti. Il compito era quello di segnalare tutte le targhe dei presunti clienti.

Infine, ci sono le accuse degli esponenti dell’’Innocence Project, una delle più importanti associazioni americane dedicate all’aiuto di persone che si ritiene siano state erroneamente condannate, attraverso l’uso di test del DNA, un’associazione nota anche in Italia grazie all’omonimo documentario Netflix. La vicenda riguarda l’ingiusta detenzione di un cittadino americano, in prigione per oltre sei anni, scagionato grazie all’intervento dell’associazione. La Harris all’epoca era procuratore generale e si oppose alla scarcerazione contestando le tempistiche con le quali erano state consegnate le prove a difesa del detenuto (venne raccontato anche da Vice).

Queste e altre misure, definite “draconiane” dagli sfidanti repubblicani e da alcuni democratici, gettano ombre sulla candidata vicepresidente: troppo conservatrice, per essere una “radical”. Oggi Kamala Harris ha cambiato idea sui temi della marijuana e sembra aver ammorbidito anche altre posizioni, ma negli Stati Uniti i temi che riguardano le libertà civili sono molto dibattuti e spesso possono segnare la fine o l’inizio di intere carriere politiche.

Leggi anche: 1. La “poliziotta” che sfida le banche: così Kamala Harris può dare il colpo di grazia a Trump / 2. Elezioni Usa 2020: è Kamala Harris la candidata vicepresidente scelta dal democratico Joe Biden
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