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La lunga contesa delle Falkland egiziane

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L'Egitto ha deciso di cedere Tiran e Sanafir all'Arabia Saudita in cambio di generosi investimenti, e Israele segue da vicino gli sviluppi. L'analisi di Alessia Melcangi

Nuovo capitolo nella travagliata storia di due piccole e strategiche isole del Mar Rosso. Ad aprile Tiran e Sanafir sono state cedute dall’Egitto all’Arabia Saudita in occasione della visita al Cairo di re Salman bin ʿAbd al-ʿAziz.

S&D

Poste nel Golfo di Aqaba, sul quale si affacciano quattro paesi chiave mediorientali (Egitto, Israele, Giordania e Arabia Saudita), le isole restringono il passaggio delle navi che transitano nel Mar Rosso attraverso lo stretto di Tiran.

Assegnate al regno d’Egitto dall’Impero Ottomano nel 1906, furono oggetto di una lunga controversia con l’Arabia Saudita che ne reclamò inutilmente il possesso per decenni.

Nel 1967 le due isole furono al centro della guerra dei Sei Giorni: la decisione di bloccare lo stretto di Tiran, unica via d’accesso al porto israeliano di Eilat attraverso il Mar Rosso, presa il 22 maggio dall’allora presidente egiziano Gamal ‘Abd al-Nasser, fu all’origine dello scoppio del secondo conflitto arabo-israeliano.

La sconfitta che ne seguì vide ridisegnare la cartina della zona: Tiran e Sanafir passarono sotto il controllo israeliano per tutta la durata dell’occupazione del Sinai. Poi, in seguito agli Accordi di Camp David (1979), rientrarono sotto il governo del Cairo insieme alla Penisola del Sinai.

Israele impose all’Egitto, a garanzia dell’accordo, la libera navigazione attraverso lo stretto di Tiran, oltre allo stazionamento di un contingente militare.

Dal 1996, inoltre, Tiran e Sanafir sono state dichiarate riserve naturali all’interno del parco Ras Muhammad. Ma perché proprio oggi le isole vengono cedute ai sauditi?

Il contesto è quello di una serie di accordi economici fra Egitto e Arabia Saudita del valore di 25 miliardi di dollari.

In un Egitto vicino al collasso economico la “svendita” delle isole contese ha del tutto sovvertito l’ideologia nazionalista e patriottica sulla quale ʿAbd al-Fattah al-Sisi ha fondato la sua retorica populista, oltre ad aver mostrato quanto il paese sia vincolato ai sussidi stranieri.

La decisione del presidente egiziano, però, non è piaciuta al popolo che ha protestato vivacemente nelle piazze del paese. Il 25 aprile, il giorno della “liberazione del Sinai”, piccoli gruppi sono scesi nelle strade per manifestare contro il governo – accusato di piaggeria nei confronti della petro-monarchia del Golfo – ma soprattutto contro un’economia in crisi e un sistema tanto violento quanto repressivo.

Bilancio finale: 35 giornalisti arrestati, di cui solo 25 rilasciati in serata, e 150 attivisti fermati al Cairo. Stando a Human Right Watch, per 47 di loro la prima condanna (dai due ai cinque anni di prigione) il 24 maggio è stata commutata dalla Corte d’appello in una multa pecuniaria. Per altri sette, invece, l’11 giugno il tribunale di Giza ha stabilito la condanna a otto anni di carcere.

Mentre le cancellerie dei due paesi, in testa il governo egiziano, si prodigano a produrre documentazione che attesti l’appartenenza originaria delle isole all’Arabia Saudita (mappe marittime, documenti d’archivio, risoluzioni ufficiali e gli accordi che stabiliscono i nuovi confini), diversi giornalisti, avvocati e intellettuali egiziani stanno mettendo pubblicamente in discussione la veridicità di tali prove (rischiando il carcere).

Fra questi l’avvocato e attivista per i diritti umani Khaled ʿAli che, insieme ad altri, ha fatto appello al Consiglio di Stato denunciando l’incostituzionalità dell’atto.

Citando in particolare l’art. 1 “la Repubblica Araba d’Egitto è uno stato sovrano, unito e indivisibile, del quale nessuna parte può essere ceduta” e l’art. 151 “tutti gli accordi stipulati dal governo egiziano devono essere approvati dal parlamento, soprattutto quelli che stabiliscono i confini nazionali e che richiedono inoltre un referendum per essere approvati in via definitiva”.

Dal canto suo il governo ha sottolineato che la cessione delle due isole rappresenta un atto amministrativo deciso direttamente dal presidente al-Sisi ma che verrà ratificato solo se approvato dal parlamento.

La contesa ora gira attorno alla legittimità dell’“atto di sovranità” di al-Sisi. Coloro che si oppongono alla cessione delle isole si appellano al Consiglio di stato mentre i legali del governo ne contestano il diritto a presiedere il caso: secondo loro l’“atto di sovranità” è un atto di natura politica dunque non soggetto a controllo giurisdizionale.

Il Consiglio di stato ha proposto la formazione di un comitato di esperti per determinare se le isole contese rientrino nel territorio egiziano.

Dal punto di vista internazionale il ritorno di Tiran e Sanafir sotto il controllo di Riad ha aperto la strada a una serie di scenari politici che coinvolgerebbero non solo l’Egitto e l’Arabia Saudita.

Si profilano all’orizzonte i termini della nuova alleanza fra Israele e Arabia Saudita in funzione anti iraniana. Come affermato dall’ex ministro della Difesa israeliano Moshe Ya’alon, le trattative tra il Cairo e Riad sono state seguite costantemente da Tel Aviv in ragione dell’importanza strategica rappresentata dallo stretto di Tiran.

Da parte israeliana la condicio sine qua non per l’ammissibilità del trattato è che gli Accordi di Camp David vengano rispettati e ribaditi. L’Arabia Saudita sembra essersi impegnata a mantenerli, fissando un altro tassello importante di quella che può essere definita una cauta cooperazione tra i paesi o, meglio, un dialogo strategico, confermato, secondo indiscrezioni di stampa, dalla cessione nel 2015 da parte di Riad dello spazio aereo ai caccia israeliani per attaccare l’Iran.

Oggi il placet arrivato da Israele agli accordi egiziano-sauditi dimostra sempre più quanto il paese consideri fondamentale per la stabilità della regione il rafforzamento del presidente egiziano e il mantenimento di un dialogo con la casa dei Saud.

Il principale e immediato frutto di questa entente cordiale fra Israele e Arabia Saudita sarebbe l’implicito e del tutto ancora non ufficiale riconoscimento del governo di Tel Aviv e, per Riad, la possibilità di trattare direttamente con Israele per giungere a una possibile risoluzione dell’annosa questione palestinese.

Se tale convergenza strumentale tra potenze sunnite e Israele sembra essere una novità importante che si affaccia nel panorama mediorientale, di certo essa deve mettere in conto fino a che punto gli attori coinvolti possano “stare al gioco”.

E Israele comprende bene che l’espansione saudita nel Mar Rosso potrebbe in futuro trasformarsi in un boomerang. “Il nemico del mio nemico è mio amico”, finché dura.

— L’analisi è stata pubblicata da Ispi Online con il titolo “La lunga contesa delle Falkland egiziane” e ripubblicata in accordo su TPI con il consenso dell’autrice. 

*Alessia Melcangi, Dottore di ricerca in Pensiero Politico e Istituzioni nelle Società Mediterranee – Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali, Università di Catania; Centro per gli Studi sul Mondo Islamico Contemporaneo e l’Africa – CoSMICA 

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