La storia segreta degli aiuti militari degli Stati Uniti all’Ucraina
Dalle basi in Germania al ruolo della Cia, dai missili ai droni, fino alla guerra degli algoritmi. Ecco com’è nata e come si è logorata la cooperazione tra Washington e Kiev
Tutto cominciò in una vecchia palestra di una base militare degli Stati Uniti in Germania. Era l’aprile del 2022 e Vladimir Putin aveva invaso l’Ucraina da meno di due mesi quando due generali di Kiev, vestiti in abiti civili, attraversarono mezza Europa a bordo di un convoglio di auto senza targa, protetto da personale britannico, per raggiungere Wiesbaden. Dopo aver percorso quasi 600 chilometri, entrarono in Polonia con passaporti diplomatici e arrivarono in Assia a bordo di un C‑130 con un volo militare. Ad attenderli, nel complesso militare di Lucius D. Clay Kaserne, c’era il generale statunitense Christopher Donahue, veterano delle guerre in Iraq e Siria, allora comandante del 18esimo corpo aviotrasportato e oggi responsabile del comando regionale dell’esercito americano in Europa e Africa. Qui, dopo anni di collaborazione con la CIA in una manciata di centri di intelligence costruiti in Ucraina lungo il confine con la Russia, nacque una delle alleanze più segrete della storia moderna: la cosiddetta “Task Force Dragon”, un laboratorio di guerra contemporanea che avrebbe cambiato le sorti del conflitto tra Kiev e Mosca. Un’alleanza però, che già prima del ritorno di Donald Trump alla Casa bianca ha cominciato a scricchiolare.
Le regole del gioco
Trasformato in una vera e propria sala operativa, come mostra un’inchiesta pubblicata nel marzo scorso dal New York Times, il Tony Bass Auditorium mutò quello che sembrava un semplice sostegno militare in un appoggio a tutto tondo senza precedenti, grazie a forniture di intelligence, tecnologia e indicazioni strategiche dal Pentagono ai comandi militari del governo del presidente Volodymyr Zelensky. Ma sin dalle prime riunioni Donahue volle essere molto chiaro con il generale ucraino Mykhailo Zabrodskyi, la figura di collegamento con Kiev. Il patto originario era: «Mai mentirsi», anche se, per motivi politici, le regole erano molte di più, soprattutto a livello linguistico. In primis, nei loro scambi, le parti non avrebbero mai identificato come «obiettivi» quelli che avrebbero invece chiamato «punti di interesse», cioè i luoghi e le unità russe da colpire mentre le informazioni di intelligence sui loro spostamenti sarebbero state chiamate «tracce di interesse». Lo scopo per gli americani era poter negare di aver mai rivelato a Kiev obiettivi collegati a Mosca, che per ritorsione avrebbe potuto minacciare gli Usa e gli altri alleati della Nato.
Altra regola fondamentale era che nessuno di questi cosiddetti «punti di interesse» avrebbe potuto trovarsi all’interno dei confini riconosciuti della Federazione russa. Per quelli, come rivendicato orgogliosamente dal presidente Zelensky con l’attacco ai bombardieri strategici russi del 1° giugno scorso, Kiev avrebbe dovuto ricorrere ai propri servizi segreti e ad armi di produzione nazionale. L’intelligence statunitense inoltre non avrebbe condiviso con gli ucraini informazioni sulle posizioni dei leader russi, non solo politici come il presidente Vladimir Putin ma nemmeno militari, quali il comandante in capo delle forze armate, generale Valery Gerasimov. Per quanto riguarda i dati forniti a Kiev, invece, gli americani si sarebbero limitati a comunicare soltanto le conclusioni finali delle analisi di intelligence, quindi gli ucraini non avrebbero avuto accesso né alle fonti né ai metodi attraverso cui quelle informazioni erano state raccolte. Kiev, insomma, doveva fidarsi di Washington e, su questa base, a metà aprile 2022 era già tutto pronto mentre dal mese successivo la Task Force Dragon era ormai entrata a pieno regime.
Laboratorio bellico
Ogni mattina, militari americani e ucraini sedevano fianco a fianco, consultando mappe e immagini satellitari, trasformando i cosiddetti «punti di interesse» in obiettivi letali. I servizi statunitensi di CIA, NSA e Defense Intelligence Agency offrivano un flusso costante di informazioni, mentre i missili Javelin, i lanciarazzi Himars e i cannoni M777 facevano il resto, anche grazie al supporto logistico e all’addestramento sul campo garantiti da Polonia, Regno Unito e Canada.
Fondamentale fu il vertice del 26 aprile 2022 a Ramstein, in Germania, dove la nascita del “Gruppo di contatto per la difesa dell’Ucraina”, che si è riunito l’ultima volta a Bruxelles il 4 giugno scorso e che è composto da tutti gli alleati della Nato e da un’altra ventina di Paesi, diede copertura “politica” alla collaborazione militare già instaurata un paio di settimane prima. Allora, oltre alla fornitura di armi moderne a Kiev, fu attivata anche la capacità di targeting dei sistemi inviati a Zelensky e ai suoi, il che permise agli ucraini di colpire le forze russe direttamente e con precisione chirurgica in tutti i territori occupati, Crimea compresa. Tra i successi più eclatanti si registrarono la distruzione del quartier generale della 58esima armata russa, l’affondamento dell’incrociatore Moskva e altri raid contro la flotta di Mosca nel Mar Nero e le infrastrutture militari costruite dai russi nella penisola contesa. Tuttavia proprio qui cominciarono i primi attriti tra Washington e Kiev. La Casa bianca temeva azioni impulsive e tutto sommato simboliche da parte degli ucraini, che lamentavano invece un’eccessiva lentezza nelle forniture di armi e intelligence rispetto alle necessità operative sul campo. Una distanza che nel tempo non ha fatto altro che acuirsi, sia dal punto di vista politico che militare.
Controffensive simboliche
Il momento più basso (fino ad allora) fu raggiunto nel corso del 2023 quando, superato il suo primo anno, la guerra entrò in una nuova fase: quella delle operazioni simboliche. Zelensky voleva portare nelle sedi internazionali una serie di vittorie per poter convincere gli alleati ad aumentare il proprio sostegno militare in vista della tanto agognata vittoria finale, una strategia che avrebbe portato Kiev a ottenere sempre più armi e sempre più sofisticate, dai missili a medio raggio ai caccia, alla possibilità di allargare lo spettro geografico per usare questi sistemi anche all’interno del territorio russo. Tutto questo però creò attriti anche nella Task Force Dragon, dove i militari statunitensi premevano per una maggiore attenzione al campo di battaglia mentre gli ucraini erano costretti a fare anche i conti con le aspirazioni politiche del proprio governo.
L’esempio fu Bakhmut, una località del Donbas ormai devastata e quasi indifendibile ma carica di valore simbolico, che per questo fu messa al centro della controffensiva ucraina dall’attuale comandante in capo delle forze armate di Kiev e allora responsabile del fronte orientale, il generale Oleksandr Syrskyi. Il Pentagono avrebbe piuttosto consigliato di concentrare le truppe ucraine più a sud, su Melitopol, nella regione di Zaporizhzhia, per puntare al Mar d’Azov e tentare di dividere le forze russe per riconquistare idealmente la costa meridionale sul Mar Nero e arrivare alla Crimea. Eppure lo scontro si fece anche interno ai vertici di Kiev con l’allora comandante in capo delle forze armate Valeri Zaluzhnyi, defenestrato nel febbraio dell’anno scorso da Zelensky e poi nominato dopo pochi mesi ambasciatore a Londra, che prese le distanze dalle scelte di Syrskyi. Ma alla fine “vinse” la linea del presidente ucraino: l’assedio di Bakhmut durò mesi, con costi umani e materiali elevatissimi e non portò a niente perché la località finì comunque in mano ai russi grazie all’apporto fondamentale dei mercenari della Wagner, il cui sacrificio portò il loro comandante, Yevgeny Prigozhin, prima all’ammutinamento contro i suoi stessi vertici militari e a una breve e poi interrotta marcia su Mosca e infine alla morte in un mai chiarito incidente aereo. Ma un ulteriore danno per gli ucraini fu che la Task Force Dragon cominciò a non portare più risultati come prima: da allora Kiev iniziò infatti a lamentare ritardi nei lanci di missili e continue verifiche prima dei raid su qualsiasi bersaglio. Insomma la sua efficacia cominciava a essere messa in dubbio, anche se la politica viaggiava ancora su un binario diverso.
Scontro aperto
Nel corso del secondo anno di guerra, con il rischio del possibile ritorno alla Casa bianca di Donald Trump e di un Congresso sempre più ostile alla continuazione degli aiuti militari a Kiev, l’amministrazione dell’allora presidente Joe Biden decise di varcare nuove linee rosse per chiudere la guerra con un esito favorevole al proprio alleato, offrendo all’Ucraina prima i lanciamissili ATACMS e poi la possibilità di usare queste armi in Crimea. Così, anche grazie al supporto della Task Force Dragon, il successo principale registrato dal presidente Zelensky fu il bombardamento del ponte di Kerch, simbolico collegamento tra la Russia e la penisola contesa. Ma le nuove armi e regole d’ingaggio permisero anche una serie coordinata di raid a lungo raggio contro basi, depositi, impianti logistici e altri obiettivi, pardon «punti di interesse» russi in Crimea. Malgrado questi risultati però, gli attriti proseguivano: i militari ucraini erano frustrati dalle continue restrizioni imposte dal Pentagono e proprio l’operazione contro il ponte di Kerch portò nuovi problemi. La cautela statunitense, motivata dalla necessità di evitare un’escalation tra Nato e Russia, avrebbe infatti impedito a Kiev di abbattere completamente l’infrastruttura, che alla fine rimase in piedi.
Ma l’episodio decisivo si consumò nell’agosto dell’anno scorso, quando le forze armate ucraine decisero di entrare in territorio russo, attraversando il confine con la regione di Kursk, avvalendosi anche degli armamenti occidentali. Washington sostenne di non aver avuto preventivamente alcuna notizia dell’operazione e negò di averla autorizzata, parlando di un atto unilaterale, mosso dall’aspirazione di Zelensky di riportare un ennesimo risultato da mostrare agli alleati. Neanche allora però i vertici Usa, sebbene pubblicamente irritati, ritirarono il sostegno a Kiev ma la fiducia tra le parti, anche all’interno della Task Force Dragon, era ormai venuta meno.
Svolta pragmatica
Le regole, per il Pentagono, erano state violate, qualcosa si ruppe per sempre anche a livello personale tra i militari coinvolti nella Task Force e il ritorno alla Casa bianca di Donald Trump non aiutò affatto. La rappresentazione plastica della distanza, a livello militare, tra le parti si ebbe con la rimozione del generale Zaluzhnyi e con la nomina al suo posto di Syrskyi, che segnalava una volontà politica da parte ucraina di ridefinire i confini della collaborazione bilaterale. Già allora l’alleanza nata con la Task Force Dragon era erosa da sospetti e divergenze mai risolte, riducendosi sempre più a una fragile relazione pragmatica.
Eppure durante il terzo anno di guerra, nonostante il logoramento dei rapporti e le sfuriate prima sui social e poi di persona nello Studio Ovale tra Zelensky e Trump, la collaborazione continua perché, apparentemente, nessuno dei due alleati può fare a meno dell’altro. Gli ucraini hanno bisogno dell’intelligence, della logistica, dei missili e delle munizioni fornite da Usa ed Europa per contrastare la lenta avanzata russa. Gli americani, invece, non possono accettare una resa incondizionata di Kiev e non vogliono rinunciare al successo simbolico di aver messo fine al conflitto con un accordo mediato dalla Casa bianca, da cui finora però Vladimir Putin rifugge.
Per questo ancora oggi la cooperazione resiste: gli Usa continuano a fornire consulenza strategica, informazioni di intelligence e risorse tecnologiche, mentre agli ucraini spetta l’esecuzione delle operazioni militari. Dopo oltre tre anni di conflitto però, decine di migliaia di morti e centinaia di miliardi spesi, la guerra resta un fronte aperto e le alleanze si sono trasformate. Gli Stati Uniti di Donald Trump flirtano con la Russia, anche se non hanno mai abbandonato del tutto Kiev, mentre un’Europa debole prova a prendere il posto di Washington, anche dal punto di vista militare. L’Ucraina invece è stata costretta ad attingere alle proprie ultime risorse, ricorrendo alla produzione militare interna e con operazioni come quella del 1° giugno scorso contro i bombardieri strategici russi, che non ha comunque cambiato la situazione sul campo. Il conflitto comunque continua: l’offensiva russa nella zona di Sumy, i contrattacchi nella regione di Kharkiv e le incursioni con droni a lungo raggio sia in territorio di Mosca che in quello di Kiev allontanano sempre di più la pace, nonostante i tentativi di colloqui diretti a Istanbul.
Intanto però questa guerra segreta senza fine, primo vero banco di prova di un conflitto algoritmico in cui i droni, l’intelligence e la tecnologia contano forse più dei soldati schierati sul campo (o almeno altrettanto), ha riscritto le regole belliche mostrando al contempo i limiti della tecnica davanti alla complessità politica, alla frammentazione degli interessi di parte e alla stanchezza non solo dei combattenti ma anche degli alleati.