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La resa dei conti tra Putin e Prigozhin: chi tocca lo Zar muore

Immagine di copertina
Credit: AP Photo

La scomparsa di Prigozhin rafforza il Cremlino e chiarisce che l’alternativa può essere anche peggiore dell’attuale regime. Ma le buone notizie per Mosca non finiscono qui. L’allargamento dei Brics, le divisioni in Ucraina e l’ascesa di Trump mettono in difficoltà gli Usa

L’“anti-Putin”, se mai ci sarà, non sarà uno degli oppositori nel nome della democrazia e dei diritti, forse più conosciuti e popolari in Occidente che in Russia, ma sarà un “simil-Prigozhin”, pretoriano deluso e ambizioso, ultra-nazionalista senza scrupoli ad usare la forza, magari tutta la gamma dell’arsenale militare disponibile.

S&D

In quest’ottica, il fallimento del putsch del 24 giugno e la morte, il 23 agosto, di Yevgheny Prigozhin – quali ne siano le cause e chiunque ne siano gli eventuali responsabili – non sono cattive notizie per l’Occidente e per quel che rimane della sicurezza internazionale, dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia.

Non proviamo qui a sciogliere la matassa delle circostanze della scomparsa del capo della Wagner (e non abbiamo le fonti per farlo): tutto resta incerto. Probabilmente, i dubbi su quanto accaduto non saranno mai del tutto chiariti e, fra decenni, ci sarà ancora qualcuno che sosterrà d’avere scoperto “la verità”, come avviene per pezzi di storia misteriosi ad ogni latitudine.

Di fatto, l’uscita di scena dell’uomo che aveva pubblicamente sfidato il Cremlino – almeno, questa era la lettura più immediata della ribellione di fine giugno – rafforza il controllo di Putin sulle leve del potere in Russia: lo libera di un ex amico e alleato divenuto ormai un potenziale rivale, anche se più ostile ai vertici della difesa che al presidente; e gli allarga intorno l’alone già fortissimo di “chi tocca Putin muore”. Il presidente Usa, Joe Biden, contribuisce – scientemente? – a ciò, quando, senza spingere oltre le illazioni, dice che in Russia non accade nulla senza che Putin lo sappia e lo voglia.

 

Prospettive elettorali
Sul fronte russo – ucraino, Putin, nella vicenda Prigozhin, mostra una certa vulnerabilità, ma pure capacità di reazione, mentre il presidente ucraino Volodymyr Zelensky vive un momento difficile. Nel pieno di una controffensiva dall’esito tuttora incerto, ma che negli ultimi giorni sembra trovare un qualche vigore, Zelensky rimpiazza il ministro della Difesa Oleksii Reznikov con un suo sodale, Rustem Umerov, finora capo del Fondo del Demanio. Su Reznikov grava un sospetto di corruzione su forniture militari a prezzo gonfiato.

Anche nella prospettiva delle elezioni presidenziali dell’anno prossimo – si voterà sia in Ucraina che in Russia -, la mossa pare coerente con gli impegni anti-corruzione della campagna di Zelensky e con le sollecitazioni in tal senso degli alleati dell’Ucraina, Nato e soprattutto Ue. Ma chi si batte per la democrazia e i diritti in Ucraina teme – scrive Politico – che il giro di vite anti-corruzione e l’idea di equiparare, in tempo di guerra, i delitti di corruzione e di tradimento finiscano col dare più potere ai servizi di sicurezza.

Nuovo assetto globale
Sul fronte internazionale, ad agosto il vertice dei Brics di Johannesburg ha rafforzato il progetto di matrice sino-russa di promuovere un nuovo ordine mondiale alternativo a quello filo-occidentale a trazione statunitense del G7, con i corollari di Ue e Nato e altre entità regionali meno consolidate nel Pacifico – Biden ha visto a Camp David i leader di Giappone e Corea del Sud.

Questa settimana, il Vertice del G20 in India conferma che la comunità internazionale non è affatto allineata con l’Occidente sull’Ucraina: il premier indiano Narendra Modi, presidente di turno, non ha invitato Zelensky perché – ha spiegato – il conflitto non sarà al centro dell’incontro. C’è, invece, la Russia, che fa parte del Gruppo.

I Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) si allargano ad Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Iran, Etiopia, Egitto, Argentina: arrivano a rappresentare quasi la metà della popolazione mondiale. quasi i due quinti del Pil mondiale. Con tutta l’Ue, il G7 è meno di un sesto della popolazione e quasi la metà del Pil globali.

Alla vigilia dell’incontro di Johannesburg, il Financial Times argomentava che Cina e Russia premono perché i Brics crescano e diventino simili per forza, ma alternativi, al G7. L’idea, però, non convince tutti gli emergenti: alcuni Paesi ritengono che i Brics dovrebbero rimanere un club non allineato per gli interessi economici dei Paesi in via di sviluppo; altri, invece, pensano che possa divenire una forza politica in aperta sfida all’Occidente.

Nell’allargamento dei Brics, e nelle elucubrazioni su una moneta unica, c’è, al momento, più fuffa che sostanza: tutti quei Paesi – i cinque originali, i sei nuovi venuti e le decine in lista d’attesa – sono troppo diversi e distanti fra di loro per costituire una comunità. Alcuni sono una democrazia – India, Sudafrica, Brasile, Argentina -; altri sono di fatto autocrazie – Russia, Egitto – o teocrazie – Iran – o monarchie quasi assolute (Arabia Saudita). Alcuni hanno rispetto per valori come i diritti dell’uomo, altri ne hanno poco o nulla. Alcuni sono fra di loro amici, altri fra di loro rivali. Alcuni tengono il piede in molte scarpe e probabilmente sono visti con diffidenza dagli altri interlocutori.

Insomma, più che al G7, i Brics allargati assomigliano al movimento dei non allineati nella versione anni Cinquanta e Sessanta, a trazione Sukarno, Nehru, Tito e Nasser: una coalizione di Stati che non volevano schierarsi nella Guerra Fredda né con gli Usa né con l’Urss e che si opponevano a colonialismo, imperialismo e neo-colonialismo.

È però certo che il disegno sino-russo di un nuovo ordine mondiale ha ricevuto un impulso positivo dal vertice di Johannesburg: rispetto all’Organizzazione per la sicurezza di Shanghai, ad esempio, che è una sorta di “giardino di casa” di Pechino e Mosca, i Nuovi Brics costituiscono un’entità più articolata ed economicamente più importante.

Dialogo necessario
Persino dal fronte interno Usa, le notizie per Putin sono buone: il presidente russo può ricavare indicazioni per lui positive dal dibattito di agosto fra gli aspiranti alla nomination repubblicana – assente il magnate pluri-inquisito, e tuttavia favorito, Donald Trump. C’è una suffragetta di Trump, la deputata della Georgia, Marjorie Taylor Greene, che dice che «l’Ucraina sta perdendo la guerra» e si vanta di essere «l’unico membro del Congresso» a sostenerlo «ad alta voce». E i media Usa liberal ritengono che le posizioni repubblicane possano incoraggiare Putin a restare arroccato in una guerra di trincea in Ucraina puntando su un cambio di amministrazione a Washington a novembre 2024.

Più o meno tutti i candidati repubblicani, infatti, affermano che l’Ucraina non è una priorità e lasciano intravvedere un raffreddamento del sostegno di Washington a Kiev. Lo stesso Biden s’interroga sull’opportunità di antagonizzare il crescente scetticismo degli elettori statunitensi sull’esito del conflitto, anche se è del tutto improbabile che, in caso di rielezione, faccia venire meno il sostegno a Kiev. 

Di tutti questi dati, specie delle istanze dei Brics, l’Occidente deve, a mio avviso, prendere atto e tenere conto, senza assumere posizioni di chiusura che consolidino blocchi contrapposti, ma avviando un dialogo che tenga pure conto delle ragioni altrui, che non sempre sono infondate. Democrazia e diritti umani, parità di genere e libertà di espressione sono valori imprescindibili, ma dobbiamo renderli pervasivi senza imporli, consapevoli che neppure nei nostri Paesi sono pienamente realizzati.

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