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Home » Esteri

Il generale Mini a TPI: “La Nato va sciolta, ha scelto la Russia come nemico ma così la consegna alla Cina”

Immagine di copertina
Credit: REUTERS/Hazir Reka

Generale Mini, ci aiuta a capire cosa accade sul campo?
«Provo a farlo, ma per capire bisogna rimuovere alcune cose che date per certe».

Ovvero?
«In questa guerra non c’è un solo fronte».

Ovvero?
«Ci sono più campagne in atto in Ucraina, ben quattro diverse missioni distaccate l’una dall’altra».

La prima non è Kiev?
«No. La prima è prendere il Donbass e sconfiggere il grosso dell’esercito di Zelensky: più di 200mila uomini ben trincerati, da otto anni, su quel confine».

La seconda?
«La seconda e la terza sono le due offensive meridionali che puntano al controllo del mare: Mariupol. E, subito dopo, Odessa».

E l’enorme colonna sulla capitale?
«La definisco una operazione di… “Teatro strategico”».

Cosa significa?
«È una minaccia, una pressione, una deterrenza. Ma esercitata con la consapevolezza di dover attendere per affrontare gli eventi».

Cosa intende?
«È una pressione combinata, politico-militare».

Ovvero?
«Esercitano una minaccia. Sperano di istituire un governo fantoccio senza dover combattere casa per casa nella Capitale».

Perché non hanno iniziato subito l’assedio?
«Erano sostanzialmente fermi in attesa di quel che accadeva sugli altri fronti: wait and see».

Lei sta dicendo che potevano attaccare prima?
«Certo. Sono arrivati a Kiev in cinque giorni, ma hanno anche corso con il freno a mano tirato».

Mi faccia un esempio.
«Gli aerei non salgono sopra i 4.000 metri, esponendosi alle contraeree per evitare l’effetto Grozny e una esplosione di vittime».

I russi dosano la forza?
«Non è una preoccupazione umanitaria ma tattica».

Hanno sottovalutato gli ucraini?
«Sia chiaro, questo non attenua la responsabilità di Putin. Ma se avessero fatto le operazioni dure, come noi in Iraq, avrebbero già carbonizzato tutto».

Non l’hanno colpita i soldati di leva russi spauriti?
«Noi vediamo solo quel che comunica Zelensky perché i russi non li vogliamo sentire».

Lei era contrario all’invio delle armi alla Resistenza?
«Sì, perché che vadano alla resistenza è un’altra balla.».

Cioè?
«Ci sono 20mila mercenari con gli  ucraini: loro sanno usare lanciarazzi, antimissili e anticarro. Mica penserà che li diano ai pensionati? Suvvia».

E la No Fly Zone?
«Una richiesta folle. Nel momento in cui impedisci di esercitare la superiorità aerea locale scateni una guerra mondiale. Lo sanno anche gli ucraini. È propaganda».

Fabio Mini, “il generale rosso”: analista bellico, firma di Limes, il militare che considera l’intervento in Ucraina figlio di un errore strategico commesso 30 anni fa: «Dovevamo smantellare la Nato alla fine della guerra fredda».

Da che famiglia viene, generale?
«Piccola borghesia italiana, famiglia umile. Madre casalinga e insegnante. Mio padre aveva fatto la guerra in Africa e poi è stato appuntato di Polizia».

E lei?
«Sono cresciuto a Pesaro. Finisco la scuola nel 1960, poi inizio subito a lavorare».

Dove?
«Durante il boom facevo il contabile a Pesaro, ma contemporaneamente ero iscritto a Economia e Commercio ad Ancona».

Finisce nell’esercito solo per caso, dunque.
«Sì, un giorno vedo per caso un bando per l’accademia. I mesi di leva in accademia venivano riconosciuti all’università come due anni di ingegneria. Penso: “Ci provo”».

E poi?
«Malgrado di trigonometria non capissi quasi nulla, gli esami andarono benissimo: così non usai il credito e rimasi in grigioverde»…
Continua a leggere l’articolo sul settimanale The Post Internazionale-TPI: clicca qui

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