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Home » Esteri

Che fine faranno le nostre armi inviate all’Ucraina?

Immagine di copertina
Credit: AP Photo/Libkos

Una volta superato il confine nessuno conosce la destinazione degli aiuti. Nemmeno gli Usa. In un Paese noto, già prima della guerra, per i traffici militari illeciti. Così queste forniture rischiano di armare la criminalità o alimentare nuovi conflitti

A un anno dall’avvio dell’invasione russa in Ucraina nel Paese continuano ad arrivare armi, munizioni e armamenti di vario tipo, in attesa di una nuova offensiva su larga scala da parte di Mosca. Gli Stati Uniti hanno annunciato a metà febbraio un ulteriore pacchetto di aiuti di 2 miliardi di dollari che comprende anche l’invio di nuovo materiale bellico, tra cui anche i missili Glsdb con una gittata di 150 chilometri. Ma in Ucraina stanno iniziando ad arrivare anche i primi carri armati tedeschi, i Leopard 2, in attesa dei più avanzati M1 Abrams americani.

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Tutti questi nuovi armamenti si aggiungono alla lunga lista di materiale ceduto negli ultimi 12 mesi dall’Occidente all’Ucraina e che comprende già munizionamento pensate, missili di varia gittata e peso, veicoli militari, sistemi di difesa anti-aerea, ma anche visori notturni, droni e strumenti protettivi, oltre alle più semplici razioni K.

Da febbraio ad oggi si è scritto e detto molto sulle qualità di questi prodotti bellici e dell’impatto che avrebbero avuto sull’andamento del conflitto nel breve-medio periodo, ma poca attenzione è stata data agli effetti della proliferazione a lungo termine di queste armi, sulla cui destinazione finale non sempre si hanno informazioni certe.

Questione di sensibilità
La questione in realtà era stata sollevata già ad aprile dai funzionari americani, che avevano ammesso di non avere dati precisi sulla rotta seguita dagli armamenti una volta superato il confine ucraino a causa dell’assenza di militari stranieri sul terreno. Questo gap informativo – comune anche ai Paesi europei e aggravato dalla mancanza di trasparenza di alcuni governi – avrà delle ripercussioni sulla capacità di tracciare il materiale bellico ceduto a Kiev principalmente nella fase post-conflitto, soprattutto da parte di organismi indipendenti.

Nemmeno l’utilizzo dell’European Peace Facility (Epf) per la cessione di armi in Ucraina è riuscito ad apportare dei miglioramenti dal punto di vista della trasparenza, anzi. Il consiglio degli Affari esteri Ue in formato Difesa ha il compito di valutare le richieste di Kiev e coordinare a livello logistico le operazioni di invio, ma i trasferimenti sono regolati dalle leggi dei singoli Stati, che possono pertanto secretare i dati che ritengono troppo sensibili per essere divulgati. A ciò si aggiunge un ulteriore problema di trasparenza: l’Epf è un fondo off-budget, cioè non finanziato con fondi comunitari, pertanto il Consiglio non deve informare puntualmente il Parlamento sul suo utilizzo.

In teoria l’applicazione dell’Epf prevede una previa analisi approfondita del conflitto, degli attori in campo, dello stato delle forze armate, della loro gestione degli armamenti e del rispetto dei diritti umani per evitare che le armi siano affidate a forze che violano i valori europei. Nel caso ucraino però tutti questi passaggi sono stati saltati data l’urgenza di inviare il materiale militare in risposta all’invasione russa, ma ciò rischia di avere ripercussioni negative nel lungo periodo, a partire dalla capacità dell’Ue di tracciare e recuperare il materiale inviato.

L’Unione ha cercato di risolvere il problema rappresentato dai possibili traffici illeciti e dal dirottamento delle armi ceduto all’Ucraina a partire da luglio, creando un hub per la sicurezza interna e la gestione delle frontiere in Moldavia. Secondo la premier moldava Natalia Gavrilița, intervistata da Financial Times, l’iniziativa ha già dato buoni risultati, ma servono più fondi per rispondere adeguatamente all’aumento di traffici di persone e armi che si sta registrando negli ultimi mesi.

Qualche rimedio esiste
Gli Stati Uniti invece hanno implementato un piano di monitoraggio e contrasto solo a ottobre, prevedendo operazioni da portare avanti nel breve, medio e lungo periodo a partire dall’uso di dispositivi di tracciamento e dalla creazione di registri digitali utili soprattutto nella fase post-conflitto, ossia quella che desta maggiore preoccupazione. Se nel breve periodo infatti il rischio è che i russi riescano a impossessarsi di parte del materiale inviato, nel lungo termine le armi potrebbero finire sul mercato nero, contribuendo così ad alimentare guerre e conflitti in corso in altre parti del mondo, principalmente in Africa e in Medio Oriente.

Gli esempi storici d’altronde non mancano. Come riportato da uno studio del 2015 del Flemish Peace Institute, la maggior parte delle armi vendute illegalmente in Europa provengono dalla guerra in Jugoslavia, mentre gli Usa hanno dovuto fare i conti con la perdita di ingenti quantità di materiale bellico in Afghanistan. Negli anni le loro armi sono passate in mano ai mujaheddin, alle forze armate afghane e infine ai nuovi signori di Kabul, alimentando allo stesso tempo il mercato nero del Paese asiatico.

Come confermato a Insider anche da Yuliya Matsyk, portavoce della Commissione europea, i conflitti precedenti dimostrano che nel medio-lungo periodo nei territori in cui circolano molte armi è altamente probabile che si generino dei traffici illeciti, soprattutto nelle fasi post-belliche o in caso di cessate il fuoco prolungati. Le armi potrebbero quindi finire nelle mani della criminalità organizzata o di gruppi terroristici, il che rappresenta una minaccia per la sicurezza dell’Ucraina ma anche dell’Europa. L’Ucraina d’altronde è nota per i traffici illeciti di armi che attraversano il Paese già da prima della guerra, alimentati dalla presenza di truppe paramilitari nel Donbass e dall’alto livello di corruzione dell’apparato amministrativo ucraino.

Tracciare il materiale ceduto a Kiev è certamente un’operazione complessa vista la situazione sul campo e l’impossibilità per gli Stati che inviano le armi di schierare operatori propri in loco, ma il piano degli Usa dimostra che gli strumenti per limitare il problema esistono. Usarli è fondamentale per evitare l’ennesima proliferazione di armi – in alcuni casi particolarmente sofisticate – in aree già alle prese con conflitti decennali ma troppo lontane per ricevere la stessa attenzione data all’est dell’Europa.

Il giallo sui conti dell’Italia
Ma quanto costa al nostro Paese aiutare Kiev? Secondo i dati del Kiel Institute for theWorld Economy l’Italia ha ceduto a Kiev armi e munizioni per un valore di circa 300 milioni di euro, ma stando a una rivelazione del Corriere della Sera la cifra sarebbe invece pari a oltre un miliardo di euro. Roma si posizionerebbe quindi al secondo posto in Europa dopo la Germania, che ha inviato materiale militare per 2,3 miliardi di euro.

Il nostro Paese ha secretato la lista degli armamenti ceduti a Kiev, ma in Ucraina sono certamente arrivati obici semoventi Pzh2000, M109L e MLRS, oltre a veicoli per trasporto truppe e blindati Lince. Roma ha anche accettato di cedere all’esercito ucraino i sistemi di difesa terra-aria Samp-T in collaborazione con la Francia e i missili Aspide. Al momento il governo Meloni ha ribadito il sostegno a Kiev, ma non sono previsti nuovi decreti per l’invio di ulteriore materiale.

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