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    Guerra in Siria, Diario dal Rojava: “Nell’ospedale di Tel Tamer non abbiamo mai visto ferite così gravi”

    Immagini dell'ospedale di Tel Tamer Credit: Ansa

    Il racconto del conflitto dall'inviata sul campo di TPI, Benedetta Argentieri

    Di Benedetta Argentieri
    Pubblicato il 24 Ott. 2019 alle 08:58 Aggiornato il 18 Nov. 2019 alle 14:15

    Guerra Turchia-curdi: diario dalla Siria – 24 ottobre

    Di Benedetta Argentieri, inviata per TPI nel Rojava

    All’ospedale di Tel Tamer si respira un attimo di tranquillità. Dopo due settimane di lavoro frenetico, giorno e notte, Jamila Hame ha finalmente un momento per parlare. “Solo per pochi minuti però”, insiste la donna. Indossa un golf aperto nero sopra alla divisa rossa di Heyva Sor, la Mezzaluna rossa del Kurdistan. Un’organizzazione che conta medici, paramedici e infermieri, impegnati dove nessun altro vuole andare. Hame è la co-presidente dell’associazione. Ha cominciato nove anni fa, all’inizio della rivoluzione.

     

    “Non ho studiato medicina, ma ho avuto tanta esperienza sul campo” sorride. Nei suoi occhi si intravede la fatica di notti insonni, la preoccupazione per una nuova guerra con la Turchia che nessuno sa bene come andrà a finire, al tavolo si siedono le potenze mondiali. E la palla è passata dagli americani e la Russia. L’offensiva è cominciata il 9 ottobre scorso, e non si è mai veramente fermata. Nemmeno durante la tregua negoziata con Washington. “Nessuno ci sta aiutando, nessuno”, dice con rabbia.

    Jamila Hame Credit: Benedetta Argentieri

    “Quando abbiamo chiesto aiuto per aprire un corridoio umanitario tutti i partner internazionali ci hanno voltato le spalle”. Si sono ritrovati soli a dover curare centinaia di persone. Non solo soldati, ma soprattutto civili, bambini.

    “In tutti questi anni non abbiamo mai visto delle ferite del genere”, e aggiunge: “Certo che è stato usato il fosforo, ma noi non abbiamo gli strumenti per provarlo”. Si attendono i risultati dei test dei campioni mandati nel Kurdistan iracheno. Quando lo dice si commuove, gioca con la penna. Caccia indietro le lacrime. “In queste due settimane ci hanno colpiti duramente. Ci hanno sparato addosso diverse volte. Due dei nostri medici sono morti, tre sono rimasti feriti gravemente. Altri quattro sono stati rapiti”.

    Poi il telefono squilla, sono i colleghi di Qamishli, è scoppiata un’autobomba. Ci sono dei feriti, la situazione è incerta. Hame scuote la testa. “Dopo tutto quello che abbiamo sofferto”, sospira.

    Questa nuova guerra sta provando tutti. Mai prima di oggi i curdi si sono sentiti così soli, abbandonati al loro destino, obbligati a scendere a patti con la Russia e con il regime di Assad.

    Lo stesso per cui sono cominciate le proteste poi sfociate in guerra civile. Lo stesso che ha oppresso ed emarginato la popolazione curda per decenni. E che li ha spinto a costruire una terza via, un’alternativa al regime e all’opposizione. Una rivoluzione. Di una cosa Hame è certa” “Non importa che cosa succederà, la rivoluzione delle donne non verrà sconfitta così facilmente”. Il telefono squilla di nuovo, questa volta deve andare davvero.

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